
PRONTI, PARTENZA, BOOM! - IL VIDEO DEL MISSILE ISRAELIANO CHE COLPISCE L'INGRESSO DEL CARCERE DI EVIN, A TEHERAN (DOVE È STATA PRIGIONIERA ANCHE CECILIA SALA) - I RAID DELLO STATO EBRAICO SULLA CAPITALE IRANIANA HANNO LO SCOPO DI DISTRUGGERE I SIMBOLI DEL REGIME TEOCRATICO, UMILIANDOLO - IL MISSILE HA DISTRUTTO L'INGRESSO DELLA PRIGIONE, MA I DETENUTI NON SONO RIUSCITI A EVADERE - IL RISCHIO È CHE, PUR DI NON FAR SCAPPARE I PRIGIONIERI, LE AUTORITÀ IRANIANE LI UCCIDANO...
Sembra che Israele abbia fatto saltare l’ingresso della prigione di Evin. È solo il primo gate, ci sono tanti altri controlli di sicurezza all’interno – per entrare nella sezione di massima sicurezza femminile devi passare sotto un metal detector e calpestare le due bandiere… pic.twitter.com/lfapDaUQUx
— Cecilia Sala (@ceciliasala) June 23, 2025
Estratto dell'articolo di Greta Privitera per il "Corriere della Sera"
bombardamento contro il carcere di evin 1
Il video è in bianco e nero perché è la ripresa delle telecamere a circuito chiuso. L’immagine è fissa sul cancello dell’ingresso dell’edificio della Procura con l’insegna in farsi: «Prigione di Evin». Neanche due secondi e «bum», l’esplosione. Cadono pezzi della facciata, pezzi del portone.
Shiva Mahboubi, ex detenuta e portavoce del comitato per la liberazione dei prigionieri politici e di coscienza in Iran, dichiara che ci sarebbero feriti e parla di più crolli all’interno della struttura. L’infermeria è distrutta. La parete della sezione quattro è stata disintegrata. Qualcuno racconta di più deflagrazioni.
bombardamento contro il carcere di evin 2
«Teheran brucia», ci scrivono. L’esercito israeliano colpisce i simboli del potere della Repubblica islamica. Raid chirurgici che umiliano il regime nella sua immagine. Si parte con le bombe su Evin perché è il marchio di fabbrica di una dittatura che per sopravvivere incarcera, tortura e silenzia.
«Sono preoccupata per gli uomini e le donne dentro», dice Mahboubi. Teme per la vita di chi è in cella. Ma l’angoscia più grande è per le ritorsioni del regime che potrebbe usare la scusa del bombardamento per uccidere dei prigionieri o farli sparire. «Li possono portare segretamente in luoghi sconosciuti o in altre prigioni», dice. Dall’interno segnalano condizioni di sicurezza intensificate.
bombardamento contro il carcere di evin 3
Come ricorda l’antropologa franco-iraniana Fariba Adelkhah — detenuta dal 2019 al 2023 — le dittature si rivelano spesso nei loro sistemi carcerari. Ed è in una collina ai piedi dei monti Elbruz, a nordest di Teheran, che sorge il tempio della Repubblica islamica, l’enorme complesso di Evin.
Si chiama così perché nel 1972 lo scià Mohammad Reza Pahlavi lo ha voluto costruire nell’omonimo quartiere: originariamente ospitava 300 persone, oggi anche 15.ooo. Accanto alla prigione soprannominata «Daneshgaa», l’università — per l’alto numero di intellettuali e studenti incarcerati — sorge un’autostrada a tre piani che divide la collina da una zona borghese, costellata di case di lusso e ristoranti.
«I Guardiani della rivoluzione e la polizia sono ovunque. Vogliono evitare le proteste», ci scrivono da Teheran. Le famiglie dei detenuti seguono con angoscia quello che sta succedendo: «Da una parte temono per l’incolumità dei loro figli, dall’altra sperano che i cancelli si aprano e che tornino a essere liberi», ci dicono dal comitato dei prigionieri.
A Evin torturano, ricattano, estorcono confessioni, puniscono, isolano. Una ex detenuta di nome Elahe Ejbari, 26 anni, aveva raccontato al Corriere che i ricordi peggiori sono quelli degli interrogatori infiniti. «Ero dentro perché all’università ho scritto una lettera contro la pratica delle spose bambine. Quando mi interrogavano mi dicevano che ero pazza perché probabilmente da piccola qualcuno mi aveva stuprata. A volte mi riempivano di botte. Mi prendevano la testa dal velo e me la sbattevano sul pavimento. Un uomo mi ha spento una sigaretta sulla mano». La umiliavano. La chiamavano «puttana», e mimavano gesti osceni. [...]
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In quelle celle è passata la premio Nobel Narges Mohammadi, la scrittrice Marina Nemat, i registi Jafar Panahi e Mohammad Rasoulof, il politico riformista Mostafa Tajzadeh, l’attivista Reza Khandan. Sei mesi fa, a Evin, è finita anche la giornalista italiana Cecilia Sala.
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