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COSA E' RIMASTO DELLA NEW YORK FOLLE E INESAURIBILE DEGLI ANNI '70? STRACCI, SOLO STRACCI - 'STUDIO 54' E' UN TEATRO, 'CBGB', UN MAGAZZINO DI MODA, IL PARADISE GARAGE E' TORNATO GARAGE - MORODER, L'UOMO CHE INVENTO' LA DISCO: "NON HO MAI BALLATO IN VITA MIA""

1 - LA MIA PRIMA (E ULTIMA) VOLTA ALLO STUDIO 54

 

GIORGIO MORODER GIORGIO MORODER

Testo di GIORGIO MORODER raccolto da Luca Valtorta pubblicato da “la Repubblica”

 

ALLO STUDIO 54 ci sono andato una volta sola. Ero in testa alle classifiche con “Love To Love You Baby” interpretato da Donna Summer, ed era il 1975. Una sera passai per caso lì davanti con la mia limousine. Vedo una lunga fila e mi dico: “Cavolo, è veramente assurdo che proprio io non ci sia mai entrato”.

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Lo Studio 54 era considerato il tempio mondiale della disco music e in quel periodo a New York non si parlava d’altro. Nel bene e nel male, ovviamente, perché c’erano anche quelli che la disco la odiavano. In quel periodo i due fenomeni contemporanei e tra loro “nemici” erano il punk, nei locali come il CBGB e, appunto, la disco nello Studio 54.

 

La cosa davvero interessante, però, era anche che il rock, tanto amato dal pubblico più intellettuale, nella realtà era molto macho e quindi molto poco progressista, mentre l’odiata disco vedeva per la prima volta l’affermazione del pubblico gay: drag queen, look estremi, sensualità. Per paradosso lo Studio 54 era una sorta di zona libera, dove poter essere se stessi senza nascondersi. Anzi, esagerando.

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E dunque, quel giorno, volli vedere con i miei occhi. Chiesi al mio autista di domandare se mi potevano far passare saltando la fila e quelli mi accolsero con grandi complimenti. Ma una volta entrato, mentre mi aspettavo di trovare la baraonda da girone infernale di cui parlavano tutti i giornali, il locale era vuoto!

 

Cinquanta persone al massimo. Mi spiegarono che era ancora presto, le undici, e che facevano entrare la gente con il contagocce proprio perché all’esterno si creasse la fila. L’evento.

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Quando, dopo mezz’ora, capii che prima dell’una non sarebbe iniziato niente me ne andai. Sono sempre stato uno a cui piace svegliarsi presto.

 

Da quella volta non sono mai più tornato allo Studio 54. Stavo sempre a lavorare, non avevo tempo per le feste. A dire la verità neanche mi piacevano le feste. Io non ballo. Proprio così. Mai ballato in vita mia.

 

 

2 - N.Y. CHE FINE HANNO FATTO I CLUB

 

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Angelo Aquaro per “la Repubblica”

 

“SPINGETEVI FINO alla Bowery al più presto”, “get down to the Bowery as soon as possible” supplicava il New York Times venerdì 28 marzo, anno del rock 1975. Che tempi. «Non è vero che la situazione in Vietnam è critica» giurava (imprudentemente) il titolo di prima pagina: molto critica appariva, invece, la situazione economica, «con la disoccupazione salita al 9,6 per cento».

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E che ci dovevano allora andare a fare, i newyorchesi sull’orlo della bancarotta, laggiù sulla Bowery, il vialone che aveva ormai perso da un secolo il leggendario glamour di quand’era il cuore di teatri e concert hall? Che ci dovevano andare a fare in quel luogo di malaffare? “ The Bow’ry, the Bow’ry / I’ll never go there anymore!”, non ci tornerò mai più!, diceva la canzonetta che aveva incantato Broadway già alla fine dell’Ottocento.

 

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E invece no, proprio alla vecchia Bowery consigliava di spingersi John Rockwell, il critico rock (nomen omen) della Signora in Grigio: per sentire dal vivo Patti Smith, «la poetessa trasformatasi in rock’n’roller» che «sembra pronta al suo Gran Momento — Grande, perlomeno, nella misura in cui i poeti che si trasformano in rock’n’roller se lo possano aspettare ».

 

Sì, il buon John, che nella sua lunga e prestigiosa carriera avrebbe collezionato premi che non t’aspetteresti da un frequentatore della Bowery, compreso un Cavalierato dell’Ordine di Francia delle Arti e delle Lettere, aveva visto più che giusto. Quell’ex impiegata di libreria stava per farlo davvero il gran salto con il debutto di Horses. E quindi chi voleva gustare «miss Smith nell’ambiente in cui è fin qui fiorita» avrebbe fatto meglio a «correre laggiù al CBGB, al 315 della Bowery all’incrocio con Bleecker»: in quel «piccolo club fatiscente» che per la prima volta trovò l’onore del borghesissimo Times.

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E allora spingiamoci anche noi, ancora oggi, fino alla Bowery. E poi su e giù per la città che non dorme mai, e figuriamoci nelle strade dove fiorivano i club: spingiamoci fino al Paradise Garage e allo Studio 54, all’Electric Circus e al Copacabana, al Café Bohemia e al Café Society.

 

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No: quarant’anni dopo Patti Smith non spunterà più al CBGB osannato allora dal New York Times e oggi celebrato per fiction anche da Vinyl, l’ultimo serial Sky prodotto dalla strana coppia Mick Jagger & Martin Scorsese. Adesso, quando è di scena dalle parti di casa, l’ex poetessa sverna qualche isolato più in là, sempre sulla Bowery per carità, ma alla omonima Ballroom, che in origine non era neppure un club ma un grande magazzino costruito poco prima del Grande Crollo del ’29 e rimasto vuoto per mezzo secolo.

 

Non che Patti non ami tornare sul luogo del delitto: anzi. È il luogo del delitto che non c’è più. Meglio: come insegna appunto la storia del locale-erede, la Bowery Ballroom, anche il glorioso CBGB che fu tempio del punk ha cambiato destinazione d’uso. Diventando esso stesso — plastico esempio dell’eterogenesi dei fini urbanistici — un piccolo magazzino: di moda.

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Tutto merito del nuovo proprietario, John Varvatos, lo stilista fattosi le ossa tra Calvin Klein e Ralph Lauren ma così innamorato della cultura rock d’aver fatto sfilare per i suoi spot pure Paul Weller, e trasformato quel mitico address, 315 Bowery, nell’indirizzo principe dei suoi store.

 

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Scandalo? Profanazione? E perché mai. Lo diceva già Rem Khoolas nel suo fondamentalissimo Delirious New York. «Manhattan è la Stele di Rosetta del XX secolo. Non solo ampie parti della sua superficie sono occupate da mutazioni architettoniche (Central Park, il Grattacielo), frammenti utopici (il Rockefeller Center, il Palazzo delle Nazioni Unite) e fenomeni irrazionali (il Radio City Music Hall), ma ogni isolato è ricoperto inoltre da diversi livelli di architettura-fantasma sotto forma di occupanti passati, progetti abortiti e fantasie popolari, che producono immagini alternative alla New York che esiste realmente ».

 

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Eccoci allora al dunque: quale sarebbe la vera New York? Quella del vecchio CBGB — “il piccolo club fatiscente” dove tra fatti & fattoni si nascondeva, via dai pazzi paparazzi, perfino David Bowie — o quella del nuovo Varvatos Store che oggi offre, naturalmente via web, anche il servizio d’appuntamento con un personal stylist?

 

«Cercando di carpire le ultime tracce della gloria svanita della città», come giurano nella prefazione, David Brun-Lambert, John Short e David Tanguy hanno «bussato per due anni alle tante porte» che custodiscono oggi l’accesso «a questi posti mitici»: cioè — come spiegano in Unforgotten New York — «i luoghi fisici che hanno ospitato i momenti-chiave della cultura d’avanguardia di New York dagli anni Cinquanta fino alla fine degli Ottanta».

 

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Ma perché evocare una “gloria svanita”? Certo: fa impressione, oggi, vedere il Paradise Garage, all’84 di King Street, l’ex «paradiso multiculturale e musicale di Grace Jones, Gloria Gaynor, Sylvester e Madonna», tornato alla sua originaria funzione di garage, appunto, proprio lì nell’intreccio di strade dove il traffico di Manhattan si strozza prima di allungarsi nell’Holland Tunnel. O, ancora, colpisce rivedere quel Gymnasium che battezzò Lou Reed (“Opening Tonight! Andy Warhol presents The Velvet Underground!”) tornato anch’esso alle origini di palestra e basta, 420 East 71st Street, l’angolo meno snob dello snobbissimo Upper East Side, quel reticolato chiamato Yorkville che fu l’enclave degli immigrati tedeschi.

 

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Ma ancora: davvero la gloria è svanita? Non sono proprio le città invisibili — Calvino docet — a essere più reali di quelle vere? Non è il nostro sguardo a dare un senso alla storia che raccontano? La stessa ricerca di questa New York Indimenticata ( Unforgotten) si spinge fino al 1342 di Lexington Avenue dove Andy Warhol visse con mammà, almeno finché il lavoro sulle gigantografie di Liz & Marilyn non lo spinse a cercare una casa-studio più ampia.

 

Ma l’eterogenesi dei fini urbanistici qui non si realizza più: lussuoso appartamento era e lussuoso appartamento resta questa bella casetta — solo, senza più l’aura dell’artistica presenza. Ecco perché lo store di Varvatos — che sulla Bowery ormai infighettata oggi scandalizza i vecchi fan del CBGB — all’improvviso ci appare il posto di New York più vero che c’è.

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Perché è qui, e non nelle vecchie e preziose stanze del suo ex appartamento, oggi sbarrate da nuova proprietà privata, che si realizza la profezia più celebre sempre di Mr. Warhol: quella secondo cui tutti, prima o poi, avremo i nostri quindici minuti di celebrità. E allora sì, spingiamoci sulla Bowery, spingiamoci ancora, quarant’anni dopo, fin quaggiù: per provare a sentirci un po’ rockstar — e così tanto newyorchesi — pure noi.

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