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DESIGN LA MIA IMMAGINAZIONE - CONTRO ''L'INDIFFERENZA EMOTIVA", GLI OGGETTI ''ATTIVI'' DI ALESSANDRO MENDINI: "SONO COME ESSERI UMANI. INTERAGISCONO CON LA MIA VITA” - “IL KITSCH E' UN'OPERAZIONE SOPRATUTTO MENTALE"

Antonio Gnoli per “la Repubblica”

ALESSANDRO MENDINIALESSANDRO MENDINI

 

Alessandro Mendini è l’uomo degli oggetti. Li pensa, li progetta, li realizza, li mette in scena. Come fossero personaggi. Un cavatappi, un vaso, una poltrona, perfino un cane sembrano avvolti da quell’aura indefinita che qualcuno chiama anima e altri, più prosaicamente, valore aggiunto.

 

Nell’Atelier milanese dove lavora da più di vent’anni sembra di stare nello spazio retrostante di un teatro. Una scena che attende il risveglio.

Mendini mi guida tra meandri di scale e di stanze. Ha l’aria leggermente impettita. Se avesse una bacchetta tra le mani sospetto che quel mondo, come in un cartoon disneyano comincerebbe a danzare.

 

Mi incuriosisce la presenza all’interno di una rotaia di un treno. «Qui un tempo c’erano gli spazi operai della Brown Boveri. L’azienda aveva realizzato nella parte superiore dell’edificio le casette per gli operai. Era un’altra concezione del lavoro e della vita». Faccio una certa fatica a immaginare la bellezza di certi falansteri.

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Penso che il discrimine tra povertà e squallore sia a volte sottilissimo. Come tra utopia e realtà. Poi sono arrivati i designer, gli architetti con le loro idee votate all’industria del bello e hanno cambiato le cose: improvvisamente la povertà è diventata rigore, sobrietà, dignità.

walt disney 1walt disney 1

Merce letteraria su cui è più facile lavorare. «Davvero pensa questo», mi dice un po’ stupito Mendini, «il mio lavoro non è di trasformare il piombo in oro. Ma semmai di estrarlo. Posto che ci sia da qualche parte una vena aurea».

 

La sua vena aurea dove l’ha trovata?

«In questo momento ho ripreso in mano le idee di Le Corbusier, in particolare quel progetto abitativo che egli realizzò a Marsiglia su indicazione del governo francese. Si trattava di trovare un posto agli homeless del porto che era stato raso al suolo dai tedeschi. Dove c’erano macerie Le Corbusier realizzò nel 1947 le Unité d’Habitations. Finì di costruirle nel 1952».

 

Cosa immaginava di realizzare?

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«Uno spazio intermedio tra l’edificio abitativo e la città urbana. Una sorta di “macchina vivente”. Fu un’esperienza avveniristica, in qualche modo egualitaria e fatta per la classe meno abbiente».

 

Oggi quelle “case” sono contese dalla buona borghesia.

«Col tempo è diventato un condominio esclusivo. Si è cercato di porre rimedio, trasformandolo in monumento storico. L’appartamento che Le Corbusier si era scelto per viverci, fu comprato da una coppia di ricchi parigini. L’obbligo era di farne un restauro filologico e ospitare una mostra l’anno. Quest’anno sarà presentato un mio progetto».

 

piero manzoni 5 inaugurazione della mostra personale piero manzoni 5 inaugurazione della mostra personale “linee” di manzoni alla galleria azimut milano dicembre 1959. photo u. lucas.

Quale?

«Metterò in mostra otto oggetti, per la precisione otto vasi di ceramica, che richiamano i colori preferiti da Le Corbusier. Di solito si pensa che prediligesse il bianco. In realtà fu uno straordinario policromo».

 

Che importanza rivestono per lei gli oggetti?

«Fondamentale. Se fossi un antropologo li guarderei come popolazioni. Studierei il loro modo di accoppiarsi e di fare sistema; la maniera giusta o sbagliata del loro stare insieme».

 

Insomma, degli organismi viventi.

«Che interagiscono con la nostra vita».

 

E che ci sorprendono?

«Magari in maniera sbagliata, come quando si accosta una scatola delle aspirine a un vaso di Sèvres».

 

alessandro mendini  8alessandro mendini 8

C’è un linguaggio che gli oggetti parlano?

«C’è uno stile e c’è un gusto con cui le persone operano le loro scelte. L’accostamento tra gli oggetti di Magistretti e i quadri di Fontana è certamente diverso se al posto di questi ultimi ci fossero immagini del Budda. Il linguaggio è il risultato di un’empatia tra gli oggetti o tra l’oggetto e la persona».

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Non crede che oggi il linguaggio sia piuttosto indifferenziato e senza emozione?

«Si va verso un’indifferenza emotiva. Credo dipenda principalmente dalla scomparsa delle classi e dalla massificazione che ha reso tutto più uniforme e prevedibile ».

 

Per un designer un oggetto che caratteristiche deve avere?

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«Mi piace pensarli come dei pezzi unici, o di serie limitata, in qualche modo umanizzati».

 

Umanizzati in che senso?

«Se realizzo dei vasi posso mettergli degli occhi o la bocca, farli sorridere. L’oggetto va arricchito con un po’ di commedia dell’arte. Deve creare un grado di attenzione che induca una persona a occuparsene».

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Da dove le viene tutta questa passione per gli oggetti?

«Provengo da una famiglia di collezionisti. Ricordo la quadreria in via Jan dove mio nonno aveva fatto costruire la casa all’architetto Piero Portaluppi. C’era di tutto. Casorati, Morandi, Fontana, Carrà, Campigli, Funi, Savinio.

 

Mi piacevano enormemente le pitture di Savinio, il suo surrealismo mediterraneo. Ma anche le bottiglie di Morandi, in particolare quella da cui poi realizzava tutte le altre. Gli dava sopra un colore e poi la copiava. Era un ready-made. E a me sembrava un oggetto da cui magicamente ne scaturivano tanti altri».

 

Ha conosciuto qualcuno di questi artisti?

«A casa del nonno conobbi Savinio, Fontana e poi Manzoni. Fontana mi colpiva per l’eleganza: un gagà tirato a lucido con la brillantina. Molto intelligente e ricco di intuito. Visitai il suo studio.

 

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C’è ancora in Corso Monforte a Milano una vetrata di quello studio. Dava su un giardino e alla luce naturale che pioveva dentro lo vidi lavorare ai famosi buchi. Gli chiesi maestro che fa? Sono la profondità. Solo un artista può farlo veramente. Un giorno mi disse: dammi un tuo disegno e io ti do una mia tela».

 

Fu un cambio vantaggioso.

«Senza alcun dubbio. Quel gesto oltre alla generosità conteneva una sufficiente dose di ironia».

 

Ironia perché?

«Era come mandare un messaggio subliminale: non è scontato fare dei buchi o dei tagli. La cosa più semplice del mondo può trasformare il mondo. Ecco, ciò che percepii in quel gesto. Del resto, qualcosa di analogo si può dire anche per altri come Piero Manzoni».

 

Che tipo era?

«Proveniva dalle grandi famiglie milanesi. Ricordo un giovanotto vestito di grigio, dotato di un cervello molto particolare. Lo frequentavo in una galleria dietro la Scala. L’ironia lo spinse a confezionare cose impensabili. Non solo la celebre scatoletta, ma batuffoli di cotone, schiene di modelle firmate, tracce visive sui corpi. Era avanti di anni. Poi ci fu la lenta fase autodistruttiva ».

alessandro mendini arte 10alessandro mendini arte 10

 

Accennava ai suoi disegni.

«Ho cominciato presto. La mia educazione fu all’inizio la scuola tedesca, poi il liceo a Verona infine ingegneria a Milano. Sono nato nel 1931. Ma fino all’età di vent’anni ignoravo che esistesse il design. Quando seppi che ad architettura avrei trovato il modo di occuparmene, traslocai di facoltà. La verità è che all’inizio mi piaceva fare il cartoonist».

 

Disegnare fumetti?

«L’idea era diventare come Walt Disney. Immagini un ragazzino timido e magrissimo, incapace di mettere a fuoco il mondo che trovava la sola emozione vera nel disegno».

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Quel mondo fantastico che relazione ebbe con il design?

«Nessuna in particolare tranne l’inventiva».

 

Quanta creazione c’è nel design?

«La parola creazione si addice a Dio. Noi siamo degli ideatori. Ciò che scaturisce dalla nostra mente sono solo idee. Le mie ho tentato di realizzarle nella progettazione di alcuni oggetti e nella direzione di alcune riviste ».

 

Lei è famoso, tra le altre cose, per aver realizzato la “Poltrona Proust”. Cos’è un omaggio alla letteratura?

alessandro mendini arte 1alessandro mendini arte 1

«Quella poltrona non è niente ed è tutto. La realizzai nel 1978. Non era un oggetto di design, non era letteratura, non era pittura. Al tempo stesso era tutto questo. Dunque un oggetto ambiguo. Pensato, piuttosto che disegnato. Collocai una poltrona finto Settecento in un prato di Signac».

 

Proust che c’entrava?

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«La Recherche è stata per me una lettura infinita, un intreccio di sequenze senza inizio né fine. Rispecchia il percorso della mia vita. E poi, Proust mi interessava per il suo rapporto con la pittura. Non tanto quella che lui ama e che ritrova in Vermeer, ma quella coeva a lui: divisionismo e puntinismo, in cui ogni pennellata ha la sua forza individuale e l’immagine si frantuma, si spezza e si ricompone in un caleidoscopio di colori, come appunto in Signac e in Seurat».

 

Tutto questo mi fa pensare a una mescolanza di stili e alla geometrizzazione dell’immagine. Vedendo il suo lavoro si coglie l’ossessione per la precisione.

«Effettivamente amo la miniaturizzazione. Rimasi affascinato dall’apprendere che il primo lavoro di Le Corbusier fosse l’orologiaio. La stessa precisione, ma anche stravaganza, l’ho ritrovate in Steinberg».

 

I meno benevoli dicono che ha copiato un po’ troppo Steinberg.

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«La verità è che mi tuffo un po’ dovunque nelle immagini altrui e ne resto sedotto. Il plagio e la copia sono esperienze importanti. Mi piace vivere nelle idee del nemico. E al tempo stesso sapere che qualcun altro vive nelle mie. Alla mia veneranda età posso definirmi un ladro di cultura».

 

Accennava alla direzione di alcune riviste.

«Ho diretto Casabella, Modo, e infine Domus, dedicando a ciascuna di esse più o meno cinque anni. Sono state esperienze fondamentali, dalle quali è emerso un progetto a favore del design radicale».

 

Cosa vuol dire?

«Un design capace di prescindere dalle mode. Diciamo che i riferimenti erano l’arte povera in Italia e il movimento dell’Archigram a Londra che puntò negli anni Sessanta, a una liberazione dal determinismo e razionalismo, imperante soprattutto in architettura».

 

Diciamo critica della modernità.

«Un diverso modo di impiegare l’alta tecnologia. Fuori dalle convenzioni alienanti. Del resto, l’odierna ipertecnologia, che ne è un po’ figlia, è sì prodotta dall’industria, ma da un’industria dei miracoli. Come il sangue di San Gennaro: virtuale e liquido».

 

La sua direzione a “Domus” è stata vista come la punta avanzata del post-moderno. Non le sembra che quella stagione sia definitivamente chiusa?

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«È probabile che sia finita, ma restano le tracce di un lavoro che per me ha significato poter dare un senso nuovo nel rapporto tra fantasia di élite e di massa e soprattutto una riabilitazione del concetto di utopia. Sono stato un grande ammiratore di Tommaso Moro».

 

Le isole dell’utopia, come i falansteri, possono diventare mondi inquietanti.

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«La storia ha spesso messo in crisi e smentito clamorosamente le realizzazioni utopiche. Ma non l’Utopia. Per realizzare qualcosa di interessante dobbiamo guardare a un obiettivo non raggiungibile. Questa è l’utopia. Occorre avere la sensibilità per il lontano per raggiungere il vicino. Non è una grande teoria. Direi piuttosto un metodo».

 

Più che un utopista sembrerebbe un eclettico.

«Mi accade spesso di lavorare per citazioni. E la mia vita professionale è come il backstage di un teatro. C’è di tutto: un pezzo, che so, del Nabucco, il fondale di Macbeth, le catene di un fantasma, una veste egizia, o una lampada Belle Epoque».

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È il trionfo del kitsch.

«La citazione valorizza anche il kitsch. Se prendo la Tour Eiffel e la rimpicciolisco, fino a farne una lampada da tavolino è solo cattivo gusto?» 

 

Lo dica lei.

«È un’operazione soprattutto mentale. Si disloca un oggetto monstre fuori dal tempo, dallo spazio e dalle proporzioni. Amo una certa ambiguità che gli oggetti possono trasmettere».

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Cosa significa progettare?

«La parola richiama una certa astrazione mentale. La vita non è progettazione. Il progetto richiede strutture coercitive. Dietro l’ideazione, la fantasia, l’eclettismo c’è un punto morto».

 

Ossia?

«Lo dico in modo diverso: l’ambiguità di un oggetto fa parte dell’ambiguità del mondo. Il che significa che un progetto non raggiungerà mai un punto fisso, definitivo, vero in maniera incontrovertibile».

 

Siamo destinati a lasciare sempre la porta aperta.

«Una porta senza guardiani, dove si entra e si esce senza che nessuno possa davvero impedirlo. Sono per un architettura ermafrodita».

 

poltrona Proustpoltrona Proust

Non crede che il nuovo secolo ha superato questa visione?

«Ogni passaggio di secolo porta con sé tracce del vecchio e scintille del nuovo. Una mescolanza che mi fa dubitare che in giro ci siano idee chiare e distinte. Non so quanto tutto questo durerà. Sono un cronista del design. Uno specialista del dilettantismo. Ciò che io trovo di interessante ad altri apparirà modesto, irrilevante. O magari semplicemente velleitario. Anche se ne ho personalmente paura mi affascinano l’insicurezza, il dubbio, la contaminazione. L’imprevedibilità. A volte vorrei fuggire».

 

Da cosa?

«Da tutto ciò che l’insicurezza genera. Rifugiarmi nel banale. Di cui riconosco l’importanza. Senza il banale non esisterebbe l’uomo medio. Non esisterebbero le statistiche, i sondaggi. Banale è un concetto cinico. Ma anche realistico. Ne assolvo la funzione, il compito. Milioni di individui. Mandrie di sentimenti. In marcia senza sapere dove. La banalità è davvero l’ultima isola di utopia ».

Lo studio MendiniLo studio MendiniMENDINIMENDINIAlessandro MendiniAlessandro Mendini

 

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