1. BIENNALE CINEMA, NAUFRAGIO CON SPETTATORE TRAFITTO DA UN MERAVIGLIOSO VIAGGIO TRA SEMIOTICA E SUPERCAZZOLA, CON LE SCHIERE ADORANTI DI ESEGETI IN PLATEA A FAR BRILLARE LE PUPILLE E IL VENERATO MAESTRO CHE A SECONDA DELLE INCLINAZIONI, QUALCOSA CONCEDE, NON POCO DEBORDA E COME D’INCANTO, SBROCCA 2. SE NON CI PENSA IL “FILMMAKER” (REGISTA FA VECCHIO), ALLORA CI PENSA GIURA IL DIRETTORE ALBERTO BARBERA: “IN JIAOYOU, C’É SOLO CONTEMPLAZIONE E LA PROFONDITÀ STA DENTRO L’INQUADRATURA, NELL’IMMAGINE CHE SEI COSTRETTO A GUARDARE PER MOLTI MINUTI”. SE SOPRAVVIVI-PROMETTE: “TI FA RITROVARE LA DENSITÀ DEL MONDO” 3. “COME SONO BUONI E ‘’COMODI” I GIORNALISTI QUEST’ANNO. MA CHE GLI HANNO MESSO NELL’ACQUA QUEST’ANNO AI COLLEGHI DELLA STAMPA, OLIO ESSENZIALE DI PIAGGERIA?”

1. SUPERCAZZOLA A VENEZIA
Malcom Pagani per "Il Fatto Quotidiano"

Rianimati a stento dal passaggio alla luce, ancora confusi dal durissimo colpo subìto, i giornalisti diretti alla conferenza stampa di "Die Frau des polizisten" già prigionieri di 175 minuti e 59 capitoli di interni provinciali sassoni firmati dal metamorfico Philip Gröning, si infilano in un'altra trappola.

L'ascensore del Casinò ha una pulsantiera virtuale, può sequestrare per minuti infiniti e non porta mai a destinazione. Pianti frettolosamente i più ingenui, dispersi nel purgatorio della cabina semovente, per chi sceglie le scale si presenta l'occasione di ascendere al paradiso dell'autore.

Vette di modestia, praterie di umiltà, laghi di simpatia, sospetto di verità. Al terzo piano, inguainate le cuffie per la traduzione simultanea (per le conferenze dei film italiani, nota perfida Mancuso sul Foglio, impolverano nelle scansìe) herr Gröning li aspetta al varco. Qualche sventurato chiede come mai il regista (premio in arrivo) abbia punito fino in fondo lo spettatore togliendo oltre alla speranza anche la melodia e Philippe, ineffabile, pazientemente illumina: "L'assenza della musica è una sorta di esercizio brechtiano. Volevo vedere e far vedere solo l'essere umano, in quanto tale".

In un festival di Venezia che tematicamente "Indaga la crisi in ogni sua declinazione", un solo genere non teme tramonti. Il monologo a proiezione conclusa che nel luogo in cui tutti sostengono di essere chi non sono, ma sono spesso quel che sarebbe bello non fossero, rende certi registi i soli a sventolare un po' di secolare coerenza.

Scapigliati come si conviene e circondati da attori che recitano da spalle terrorizzate, permettono di accedere a mèta dimensioni che con i loro film (qualità di Venezia 70, soprattutto in Concorso, più che discutibile) sarebbero vietate. Ed è un meraviglioso viaggio tra semiotica e supercazzola, con le schiere adoranti di esegeti in platea a far brillare le pupille e il venerato maestro che a seconda delle inclinazioni, qualcosa concede, non poco deborda e come d'incanto, ma solo per i più fortunati, certe volte sbrocca.

L'ultimo a perdere la testa fu Michele Placido nel 2009. L'occasione, un suo film sul '68, liberò la briglia di Michele furibondo con la stampa: "Ipocriti" e alla spasmodica ricerca dell'incidente diplomatico con la corona britannica: "Fate le guerre e poi ci girate sopra i film per dirvi quanto siete bravi e buoni".

La miccia della furia, un'annotazione un po' ideologica sul denaro messo da Berlusconi per finanziarlo, diede il là all'incendio: "Faccio il film con la Rai e me lo distruggete, lo faccio con Medusa e mi distruggete! Con chi cazzo li devo fare io i film?", ma oggi, con Placido lontano, complice la "placida" accettazione dei nostri ‘gioielli' in gara (Barbera ha visto 727 opere, se il meglio nuota tra L'intrepido e Via Castellana bandiera, il peggio dove abita?), la sorpresa dialettica latita.

In compenso si può assistere al consueto miglioramento del record di settore, l'arrampicata sugli specchi. Jonathan Glazer ad esempio. In attesa della class action dei cittadini di Glasgow (chi vedrà il film la eviterà per sempre) porta in gara Under the Skin. L'aura del romanzo di grido riadattato e l'irriconoscibile splendore di Scarlett Johannson sono specchietti per le allodole.

Le immagini suggestive, ottime per l'installazione biennalesca, da giustificazione artistica. Il resto, per i malcapitati, è cilicio. Schermo nero. Schermo bianco. Iride. Un occhio ci osserva in primissimo piano. Violini storpiati in sottofondo che preludono a dialoghi rarefatti, uomini sedotti e sequestrati da Scarlett l'aliena e fatti sparire nel bitume nero (chi desidera, è il sottotesto, deve patire), naufragi familiari in mari freddi visti in campo lungo, bambini abbandonati. Se non capisci o non ti accodi, sei "volgarmente ancorato ai registri ruffiani fermi al preistorico uso del testo".

Se applaudi, resisti e non ti lamenti del finale aperto (vengono in mente le strisce di Disegni in cui per arrivare a 90 minuti il produttore suggeriva al regista di riprendere le foto della zia) puoi bearti. Delle rivelazioni su un punto di vista: "Ripreso contemporaneamente da 8 telecamere" o della spiegazione inevitabile del capolavoro: "Volevo fare un'opera che possedesse tensione, avesse un esito inatteso e fosse viaggio emotivo e sperimentale".

L'allegro periplo tra incesto, suicidi, povertà interiori e infiniti silenzi trafitti di mistero porta invece la firma di Alexandros Avranas che in Miss Violence (già meritevole dell'abusata, famigerata formuletta di Film scandalo e possibile premiato) prima illude iniziando (bene) con Leonard Cohen tra festa e dramma e poi precipita nel simbolismo.

La ragione la spiega ai giornalisti Avranas stesso: "La violenza più crudele è quella della normalità che tenta di nascondere il vuoto emotivo che si crea attraverso l'esercizio dell' autorità". I meno solidi di spirito hanno preteso il Tavor, per tutti gli altri, una promessa. L'infinito piano sequenza del maestro, già Leone d'oro e in odore di ripetizione, Tsai Ming-Liang. In Jiaoyou, giura il direttore Barbera: "C'é solo contemplazione e la profondità sta dentro l'inquadratura, nell'immagine che sei costretto a guardare per molti minuti". Se sopravvivi-promette: "Ti fa ritrovare la densità del mondo".

2. TUTTI I GADGET DELLA MOSTRA E UN APPELLO: LIBERATE VALERIA MASTANDREA
Anselma Dell'Olio per "Il Foglio"

La sempre più ambita festa tradizionale Cheek To Ciak era affollatissima, musica assordante, tanto Moët & Chandon ma a dosi omeopatiche. Le coppe scure e pesanti mascheravano il mezzo dito di bubbly. Tra gli ospiti Rebecca Hall (Sam Mendes pare abbia lasciato Kate Winslet per lei), Richard Madden, l'adorato Alan Rickman (tutti in "Une promesse" di Patrice Leconte da Stefan Zweig), Valeria Solarino, Barbera, e l'improbabile accoppiata Natalia Aspesi-Stefano Bonaga. Venezia come Napoli: portoghesi falsari hanno copiato i braccialetti di stoffa per il party; next year si torna alla plastica. Piera chic in black cocktail dress di Chiara Boni.

Contrordine compagni! I goody-bag ci sono eccome: dice Detassis, mai tanti quanto quest'anno. Solo non per noi plebei ma per star e vip. Guaire e mugolare serve: la canuzza ha sgraffignato qualcosina da ben due Gift room. All'Excelsior (trovatelo da voi) trucco e parrucco di Giulia Terranova, bassotto di stoffa con dolcevita (Lou&Mi), braccialetto strass (Ottaviani), Elixir 79, olio vellutato per la pelle.

Scoperto solo oggi Time Out, il luogo più figo della Mostra. Con il passi pasti e vini d'eccellenza, grazie al ristor-attore (sic!) l'artista e enogastronomo Fofò Ferriere, con piatti ispirati al grande cinema italiano. Il fantastico Vincenzo Russolillo, con il consorzio Gruppo Eventi (ispirazione Patrizia Cafiero) allestisce aree ospitalità ai Festival di Sanremo e Taormina, Miss Italia, Nastri d'Argento, David di Donatello.

Tutto è offerto dagli sponsor: sala massaggio, trucco e parrucco, e il super gift room di Alessia Moccia e Andrea Angiola, dove la fogliante s'imbatte nell'insostituibile Enrico Lucherini ("Datele tutto alla cagnetta, tutto!"). Tutto no ma molto: Astalift olio struccante e liftante, estratti dalla pellicola vecchia (sic!), due braccialetti fantasy: Cruciani e Luxury Fashion, scarpe Barefoot Akkua R'Evolution, t-shirt Notsnob59, trolley fucsia Eastpak.

Al top il salernitano Russolillo: amabile, geniale e voterà l'Amor nostro finché campa. Geppy Cucciari ("L'arbitro") ha un corpo slanciato superiore alla tozzetta Scarlett Johansson. Al Disaronno con Piera, l'attrice e comica sarda mostra la carta d'identità; professione: "Soubrette". Perché non "showgirl"? Dice che non ci sono più. E la Carrà? GP: "Raffaella Carrà è un'installazione!".

3. SOLO IL BON TON FESTIVALIERO CI SALVERÀ DA UN ALBANESE DA PIANGERE
Anselma Dell'Olio per "Il Foglio"

Il bon ton festivaliero regna sulla Mostra del torinese Barbera e pare aver stoppato i goody-bag d'antan, ambiti da noi volgari giornalisti. Quest'anno scarseggiano: uno solo trovato nel casellario: un sacchetto impermeabile di Diva Universal. Un tantino meno promiscui quelli regalati as always dopo la classica colazione offerta da Barbera e Baratta per un gruppuscolo di giornalisti nella privée al Casinò.

Il bottino che rischia di essere unico: tre ottimi prodotti l'Oréal e i soliti occhiali da sole Persol, di collezioni non freschissime e a volte fallati (buchi per le viti spanati). Dice una collega stizzita: "Se ci vogliono fare un regalo che lo facciano per bene". Pare brutto guardar in bocca al caval donato ma the devil made me do it. Chiesto conto a B&B della pax festivaliera di giornali universalmente adoranti sin dalla vigilia, ecco la risposta di Baratta: "Quando tutto scorre bene e l'organizzazione funziona, non c'è nulla da criticare". Fatto l'esempio della mezzora persa alle proiezioni del film inaugurale "Gravity" per gli occhiali 3D che non funzionavano. In altri tempi (Muller, Laudadio, Pontecorvo eccetera) si sparavano titoli fiammeggianti sul "vergognoso incidente", invece nada. Corre in soccorso Fulvia Caprara per difendere la dirigenza: "Ma cosa vuoi che importi ai lettori di questo!".

Come sono buoni i colleghi quest'anno. Il nostro compito sarebbe fare domande scomode; ma che gli hanno messo nell'acqua quest'anno ai colleghi, olio essenziale di piaggeria? Sentiti i primi buuu dopo l'anteprima stampa di "L'intrepido" di Gianni Amelio. Durante il Cocktail con Ciak con Daniel Radcliffe (giacca azzurra, camicia bianca, cravatta regimental rosa e grigio, pantaloni mimetici) una bimba di dieci anni con le treccette viene messa in piedi su una sedia per fare una domandina al maghetto, spinta da una pushy stage-mother con i rasoi nei gomiti.

Povera bambina: una sciroccata Lindsay Lohan del futuro? Dice un critico ammiratore di "Still Life" di Umberto Pasolini: "Perché mai non stava nel concorso principale?". Magari al posto del pasticciato "Under the Skin" con Scarlett Johansson. Molti applausi per "The Known Unknown", doc su Donald Rumsfeld, Venezia 70.

 

 

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