SE FAMO DU’ SPAGHI? – FRANCESCO MERLO SULLA CUCINA ITALIANA PATRIMONIO DELL’UMANITA’: "MACCHERONI" SIAMO STATI PER AMERICANI, INGLESI, FRANCESI E TEDESCHI, MACCHERONI ERANO I NAPOLETANI PER CAVOUR. E ADESSO, INVECE DI TRATTARE LA PASTA COME PRODOTTO INDUSTRIALE DI UN POPOLO MEDITERRANEO, CI SIAMO DI NUOVO CONDANNATI AL MITO ARCITALIANO DELLA ‘SPAGHETTITÀ’, IDENTITÀ E SPERANZA D'AVVENIRE" – QUANDO IL FUTURISTA MARINETTI CHIESE L'ABOLIZIONE DELLA PASTASCIUTTA, “ASSURDA RELIGIONE GASTRONOMICA ITALIANA”
Francesco Merlo per la Repubblica - Estratti
Ma come, non erano stereotipi?
Adesso che la cucina italiana è patrimonio immateriale dell'umanità, anche ufficialmente l'immagine che meglio ci racconta è quella delle tre dita con le quali mimiamo il giro della forchetta: «Se famo du' spaghi?».
Il mondo ha riconosciuto che c'erano riassunti la terra madre, il grano e i contadini nella famosa scena del «maccarone, me te magno» e che era giusto il pittoresco nome di "spaghetti western" con il quale Sergio Leone era riuscito a entrare nel grande cinema.
Certo, se fosse vero che addentare gli spaghetti significa impadronirsi della cultura italiana («meglio che leggere Dante» sostenne per primo Prezzolini che fu l'inventore della destra), anche mangiare carne di bisonte permetterebbe di impadronirsi – digerire - la storia americana.
(...) solo l'Italia ha fatto della "cucina", e della pasta più della pizza, più del parmigiano e più della mozzarella, la propria bandiera, il cibo patriottico che riflette le qualità di chi lo mangia e al tempo stesso le rinforza con il suo nutrimento.
C'è ovviamente un rapporto tra il cibo e la storia e per capirlo basta rivedere il Totò di Miseria e nobiltà che trasforma lo spaghetto nel Dio degli affamati, uno spaghetto geniale e giocoso come lo furono spesso i meridionali morti di fame. Ma, via, la spaghettità è stata quella robaccia che probabilmente ci era tornata indietro dai nostri emigrati, la cui nostalgia pietrificava i ricordi, le cerimonie e i sapori di casa.
totò miseria e nobiltà spaghetti
Non solo occasione di grandi mangiate, la tavola - oggi si chiama "cucina" - diventava la nostra palestra delle idee. In nessun altro Paese come l'Italia mangiare era un modo di entrare in comunione con la scienza teologica e con la cultura umanistica. Il risultato fu l'intramontabile stereotipo dell'Italia grassa, l'idea marcia degli spaghetti come forza che faceva deboli gli italiani e li inchiodava al sud del mondo, la dannazione che spingeva il futurista Marinetti a chiedere l'abolizione della pastasciutta, «assurda religione gastronomica italiana».
E ogni tanto ancora ce lo ricordavano l'Economist, il Time, lo Spiegel, schiaffando in copertina l'Italia pizza e spaghetti.
"Maccheroni" siamo stati per americani, inglesi, francesi e tedeschi, maccheroni erano i napoletani per Cavour. E adesso, invece di trattare la pasta come il sano e buono prodotto industriale di un popolo mediterraneo che si nutre di cibo mediterraneo, ci siamo di nuovo condannati al mito arcitaliano della «pasta sono io», identità e speranza d'avvenire. E maccheroni torniamo ad essere con il timbro dell'Unesco.


