RAI STORY - VITA, OPERE E MIRACOLI DEL BEATO SACCA' (NON SI UCCIDONO COSI' ANCHE I CANALI?)

Daniele Scalise per il mensile Prima Comunicazione (www.primaonline.it)


Il processo di beatificazione di Agostino Saccà, direttore della Rai ai tempi di Berlusconi, è già stato diligentemente celebrato. Su Il Giornale, Cesare Lanza (che di Saccà è riconosciuto sodale, collaboratore e affrescatore) lo ha descritto con toni laudativi attribuendogli solo qualche grazioso difetto, il peggiore dei quali sembrerebbe essere quello di succhiar troppa liquirizia. Panorama, invece, a firma di tale Anemone B. Liberati (pseudonimo dello stesso Lanza, ma come si sa: repetita juvant) in una paginetta illustrata, come nemmeno 'La voce di Sant'Antonio' avrebbe saputo far di meglio, si è dilettato a rappresentarlo a metà tra un raffinato esegeta del teologo di Tagaste e un mistico zen pur sempre capace, nelle sudate estati calabresi, di esibirsi in cazzutissime nuotate che possono 'durare ore e ore'. Roba da oscurare il mito del presidente Mao Tse-tung che attraversa lo Yangtze Kiang. Mancava solo la scent strip all'odor di violetta, di quelle che ti impestano casa per ore, ed era fatta: Agostino Saccà, 58 anni, laureato scienziato politico con 110 e lode, sposato con prole, avrebbe potuto legittimamente chiedere alla Sacra Congregatio Pro Causis Sanctorum del Vaticano un posticino tra Santa Rita da Cascia, la santa degli impossibili, e il criteriato San Giovanni Evangelista. E non è detto che non lo faccia.

Perché Agostino Saccà ama mirare in alto, molto in alto, a dispetto di qualsiasi previsione, contro i consigli degli amici (o presunti tali) che più e più volte lo hanno invitato a tenere bassi i toni, a frequentare l'understatement. Lui dell'understatement se ne frega. Probabilmente nemmeno sa che cosa voglia dire e comunque diffida di quella parola inglese che rappresenta la moderazione, l'attenuazione, il nascondimento come regola della vita, come gusto, come norma sapienziale. E quindi, mentre la rissa sulle nomine Rai aveva raggiunto gradi di parossismo che ogni volta - e immotivatamente - stupiscono le anime belle, lui se n'è uscito tomo tomo sul Corriere della Sera con una dichiarazione che avrebbe fulminato qualsiasi candidatura: "Mio padre era socialista, io sono socialista. Resto uomo di sinistra. È la sinistra che si è spostata. Per questo voto Forza Italia".

Ne era venuto giù il diluvio universale. Lo stesso neopresidente Antonio Baldassarre, dovendo commentare quella sortita che più che impavida era parsa improvvida, aveva scosso la testa guardandosi irato la punta delle scarpe: "Quello lì proprio non lo capisco". Un po' di pazienza e avrebbe capito anche lui. Oltretutto Saccà non era sembrato pago di quella dichiarazione di voto manifesta tanto che s'era sentito in dovere d'aggiungere: "Io e tutta la mia famiglia votiamo Forza Italia, ma questo è un fatto privato". Fatto privato, una cippa! Fosse stato vero, che motivo avrebbe avuto di strombazzarlo al cronista di Via Solferino che ha raccolto quella confessione fregandosi le mani per il bel colpo? Quella professione di fede aveva invece l'aria di essere un vero manifesto appeso sul muro della piazza principale: netto, ordinato e inequivocabile.

Appena letta l'intervista, erano stati in molti gli sprovveduti a chiamare Agostino e a dargli del pazzo: "Ma che ti salta in mente? Proprio in un momento così delicato dovevi uscirtene con una roba del genere? Allora dillo che non vuoi essere nominato, eddài!". Già in passato qualcuno gli aveva ripetutamente consigliato di smetterla di annunciare 'urbi et orbi' la propria ambizione a diventare direttore generale: era quello il modo migliore di bruciarsi, di rimanere senza fiato nella volata finale. Lui niente, testardo come solo i calabresi riescono ad esserlo. Ad ogni ospite ripeteva che presto o tardi (più presto che tardi) quella poltrona sarebbe stata sua. E quelli: "Guarda, Agosti, che se continui così a te ti fottono prima ancora che te ne accorgi". Allora lui si toglieva il sigaro che venti ore su ventiquattro serra tra le labbra manco fosse un ciuccietto della Chicco per un fantolino di sei mesi, e sorrideva paziente. 'Chi la dura la vince...'. Aveva ragione lui: l'ha durata e l'ha vinta.

Sia pure dopo una piccola intifada che ha messo a soqquadro la sala del consiglio di amministrazione di Viale Mazzini e che ha visto tirar pietre (per ora solo metaforiche) i responsabili delle due fazioni che lo animano: da una parte i tre del centrodestra (Baldassarre, Marco Staderini ed Ettore Albertoni) e dall'altra i due che fanno riferimento al centrosinistra (Carmine Donzelli e Luigi Zanda). Il risultato era arciscontato. Poco dopo l'annuncio ufficiale, il nostro, dimostrando di essere un vero, grande giocatore d'azzardo che in confronto Emilio Fede può dedicarsi alla morra cinese, si guardava in giro con aria compiaciuta, riceveva gli amici e i nemici, rispondeva educatamente alle congratulazioni dei giornalisti, e nel cuore e sul volto si gustava il trionfo.

Cambia il Paese, crolla una Repubblica, se ne fa un'altra, ma una cosa resta tale e quale a se stessa: la Rai con i suoi riti bizantini, le sue ipocrisie, i suoi uffici tristanzuoli che si affacciano su un quartiere - Prati - se possibile ancora più mesto, le segretarie che si sentono delle strafìghe e i funzionari che si sentono dei fìghettoni solo perché hanno appena incrociato Raffaella Carrà al bar dell'ottavo piano, gli abbronzatissimi dirigenti con i capelli e i mocassini lucidi come l'argenteria di famiglia, il demi-monde di discografari profumati come delle puttane e di uscieri arroganti che ti trattano quasi peggio dei commessi delle librerie Feltrinelli, le mogli di uomini importanti che invece della solita pelliccetta vorrebbero in regalo un programma televisivo che-se-lo-fa-quella-sciacquetta-non-vedo-perché-non-lo-posso-fare-io. Anche le reazioni del mondo politico alla nomina di Sacca si sono adeguate al millesimo al copione scritto il secolo scorso. A destra esulta il ministro Maurizio Gasparri che parla di una scelta, quella di Saccà, che "premia una professionalità interna e dimostra come si possa valorizzare la Rai premiando quelli che hanno fatto molto per l'azienda".

Trilla il responsabile della Funzione pubblica, Franco Frattini, sottolineando come la nomina del beato Agostino "saprà certamente assicurare alla Rai l'equilibrata ed elevata qualità del servizio". Persino il sottosegretario alle Comunicazioni, Massimo Baldini, si sente obbligato di aggiungere che, uè ragazzi, pochi scherzi, qui siamo in presenza di "un manager competente, in grado di rilanciare la Rai e ricondurla alla sua originaria funzione di servizio pubblico". A sinistra idem, seppure con toni rovesciati. Paolo Gentiloni, capogruppo della Margherita in Vigilanza, tuona che "un altro passo decisivo verso l'editore unico è stato compiuto", mentre il suo collega diessino Antonello Falomi alza il ditino e impartisce la sua brava lezioncina: "Era ingenuo o in malafede chi pensava che il Cda della Rai potesse decidere in autonomia e indipendenza sulla nomina del direttore generale". Unico a non cantare in play-back, il presidente Baldassarre che senza troppi complimenti (lui non ne fa mai) fa capire che quel che fa il direttore generale è comunque sottoposto al suo personale giudizio. Alla prima cazzata, fai le valigie e te ne vai.

Agostino Saccà non pare granché scosso né dalla messe di complimenti governativi né dai fieri conati dell'opposizione, ma preferisce tenere fisso lo sguardo davanti a sé, prendere le misure della scrivania, restare vigile senza isterismi umettando di saliva soddisfatta il sigaro-Chicco. E questo perché lui è un uomo Rai fino al midollo spinale. Il suo modo di parlare, il suo modo di guardare, il suo modo di decidere, perfino il suo modo di salutare sono perentoriamente, naturalmente, immarcescibilmente Rai. È vero: conosce quell'azienda come le sue tasche. È vero: pochi meglio di lui sanno chi si nasconde negli angoli più insidiosi, chi si è imboscato, chi ha potere occulto, chi millanta credito, chi sa fare televisione, chi l'ha data via per una rubrichina in seconda serata, chi ruba le idee agli altri non avendone di proprie. Forse è per questo che Maurizio Costanzo, altro gigante della televisione contemporanea, lo apprezza, lo consiglia, ne riceve consigli. Forse è per questo che Claudio Velardi (consigliere di Massimo D'Alema, anch'egli supporter di Sacca) lo ha sempre amato tanto.

Forse è per lo stesso motivo che Michele Santoro, con il quale un tempo l'intesa era pressoché perfetta, ora non lo sopporta più. Forse è per questo che Pier Silvio Berlusconi, tra una serie di addominali e l'altra, ha trovato il tempo di dire e ripetere che Saccà è proprio il tipo suo. Ma come ce l'ha fatta Agostino Sacca ad arrivare così in alto? E, soprattutto, da dove viene?

Partiamo dal paesello natio. Taurianova, poco più di 16 mila abitanti in provincia di Reggio Calabria, è una cittadina non completamente distrutta dalla speculazione della 'ndrangheta. Tra la Chiesa del Crocefìsso, una del Rosario, quella dell'Immacolata e un paio d'altre, si capisce che da queste parti la religione è rimasta antica. Oscura e ossessiva, grave e combinata di superstizioni contadine. Non lontano da Taurianova, a Cosenza, nella mattinata del 14 agosto 1998, sul pianerottolo di una casa di via Rivocati appare il volto di Padre Pio. Una macchia che ricorda il frate da poco santificato (lui per davvero) e da quel momento meta di un pellegrinaggio continuo che non conosce stanchezze. Saccà è nato proprio qui, ma delle genti calabre ha mantenuto un difetto e lo ha trasformato in dote: l'ostinazione. Ostinazione che con il tempo ha saputo declinare in determinazione, ambizione e decisione.

Sempre ricordando però un proverbio che da queste parti gira sulle labbra di tutti: 'Bene ti nne volire sulu' che in italiano suona malinconicamente come un 'Devi amarti da solo', rapido inno alla diffidenza, giudizio inappellabile che esalta il sospetto. Dopo aver conseguito una brillante laurea in scienze politiche, Saccà si dà al giornalismo.
Prima tappa Giornale di Calabria.
Seconda tappa: Panorama. Mica male il ragazzo!
A Panorama conosce Gianni Farneti, al tempo capo della redazione romana del settimanale (e che fra qualche anno gli farà da tramite con la signora Letizia Moratti diventata presidente di Viale Mazzini).
Ma il vero futuro per Agostino Saccà si chiama Rai, dove in qualità di cronista radiofonico - dopo un passaggio all'Avanti! - vi mette piede poco più che trentenne varcando il portone di Via Asiago con passo discreto ma deciso. I colleghi di allora rimasti per lo più al palo lo ricordano come un tipo volenteroso ma impaziente, poco incline a ritagliarsi un angoletto di pace come fanno tanti in Rai e piuttosto ansioso di guardare avanti, più in là.

Il più in là è rappresentato dalla televisione e guarda caso nel 1979 Saccà approda al Tg3 dove trova la sicura protezione del direttore Alessandro Curzi. Del resto Agostino ama molto (ed è ricambiato) il milieu comunista senza che questo entri mai in contraddizione con la sua fede prima socialista e in seguito forzaitaliota. Anzi, è questo un elemento che lo aiuterà non poco nel far la camera fulminante che ha fatto.
Il 1979, per chi non lo ricordi, è un anno cruciale per l'Italia. A luglio il presidente Pertini affida l'incarico di formare il governo a Bettino Craxi, segretario del Psi, ed è quella la prima volta che un socialista viene chiamato al governo. È vero che dopo un mese Bettino è costretto a rinunciare all'incarico per l'opposizione dei democristiani (e presidente del Consiglio diventerà Francesco Cossiga), ma quel gesto politico del Quirinale è destinato a lasciar traccia nel tessuto del Paese.

Saccà, nato come socialista lombardiano, resta al Tg3 fino al 1987 dopo essere passato da caposervizio a vice redattore capo e poi caporedattore centrale. Ma Saccà sa che può far di meglio. E lo fa. Con l'abnegazione che tutti gli riconoscono. E, infatti, diventa vice direttore di Raidue per la riforma del palinsesto. Ecco dunque (e finalmente) spalancate le porte del management! I rapporti con Via del Corso però non filano via lisci e quando il fumantino Bettino Craxi decido di far fuori il direttore di Raidue, Luigi Locatelli, anche il suo vice, Saccà appunto, ne subisce le conseguenze.

Messo da parte il lavoro sul prodotto, Saccà non si perde d'animo e decide di concentrarsi nella direzione promozione e immagine. Il successo, come si usa dire, gli arride: grazie alla sua strategia riesce a portare a casa 200mila abbonati in più. Una medaglia che si appende sul revers della giacca e che mostra a tutti con comprensibile fierezza. Nel febbraio del 1995 incontra per la prima volta Letizia Moratti, che è presidente della Rai. E Carlo Sartori, direttore delle relazioni esterne dell'azienda, a comunicargli che la presidente vuole vedere prima del varo la campagna di immagine Rai. Saccà si prepara per l'incontro meticolosamente: per due ore filate e aiutato da lucidi, videocassette e statistiche spiega, definisce, lumeggia e documenta il senso delle scelte compiute. La signora resta ammirata (non le succede spesso) e da quel momento lo considera un uomo di fiducia tanto che lo nomina a direttore della comunicazione dell'azienda e suo assistente personale.

In questa posizione Saccà compie un vero e proprio capolavoro da far rodere di invidia qualsiasi spin-doctor albionico: riesce infatti a trasformare l'immagine legnosetta della sciura imprenditrice in quella di una fascinosa e determinata donna-manager. La piazza, per esempio, a 'Domenica in' dove Letizia Moratti parla della Rai come di una casa che deve avere muri trasparenti perché appartiene a tutti gli italiani e tutti gli italiani devono sapere quel che vi succede dentro. E sempre dai sofà dello show di intrattenimento domenicale lancia una sfida annunciando che il Cda da lei presieduto ha deciso di rinunciare ai 350 miliardi del decreto 'SalvaRai'. Ma non basta. Agli inizi di maggio Ms Moratti presenta i dati di bilancio alla City di Londra, capitale finanziaria europea e città dove lei si muove come nel salotto di casa sua. Risultato: grande richiamo sulla stampa internazionale con tanto di interviste alla Cnn che parlano di lei come di una lady di ferro in un Paese di mollaccioni. Per lei (e per il suo consigliere Saccà) un successo da cento carati.

Sacca riesce anche a rompere il ghiaccio con la stampa antipatizzante tanto che la presidente è ospitata in una bella e lunga intervista su La Repubblica (a resistere al fascino resterà solo il Corriere della Sera). Ma le grane non mancano. Michele Santoro minaccia di passare alla Fininvest. Dopo un lavorio che lascerebbe di stucco le più indefesse tra le lavoratrici del tombolo. Santoro alla fine resta. Merito di chi? Ma di Sacca, s'intende! Il 28 febbraio 1996 un vero e proprio bombardamento di notizie nefaste copre in una nuvola di fumo il palazzo di vetro e cemento della Rai: alle quattro del pomeriggio arriva il comunicato della Lega calcio dove si da conto della decisione di assegnare i diritti delle partite a Vittorio Cecchi Gori e due ore più tardi quello che annuncia il passaggio di Pippo Baudo alla concorrenza. Nel giro di poche ore le belve (dipendenti, telespettatori, giornalisti e politici) scatenano una guerra di guerriglia contro il vertice di Viale Mazzini accusato di incapacità, insipienza e chi più ne ha più ne metta.

Donna Letizia è fuori dai gangheri ma anche insolitamente indecisa sul da farsi. Poi si ricorda che ha un consigliere. E Saccà suggerisce alla signora Moratti di affrontare i mostri a viso scoperto e la signora convoca una conferenza stampa nello studio milanese della 'Domenica Sportiva'. Fissando le telecamere come volesse ipnotizzare a distanza gli spettatori, si dichiara profondamente addolorata per la dipartita di Baudo ma, passato il momento del cordoglio, va giù duro con la Lega calcio che accusa più o meno di licantropia, assetata com'è di denaro. E giura: nemmeno una lira di più dei 180 miliardi offerti all'asta. Controllando a malapena la voce gonfia di rabbia, aggiunge: "Con Cecchi Gori non tratteremo mai!". Dipendenti, tele- spettatori, giornalisti e politici accolgono con un tripudio quelle parole sparate come pallottole da una Mauser (c'è bisogno di ricordare che da lì a poco la Lega calcio sarà costretta ad abbassare cresta e braghette visto che Cecchi Gori non ha una lira una per onorare l'acquisto miliardario?).

Nel 1998 troviamo Agostino prima vice direttore vicario e poi direttore di Raiuno. È la prima volta che un laico arriva alla direzione dell'ammiraglia Rai considerata da sempre un protettorato cattolico. Saccà prende il posto di Giovanni Tantillo, metà diessino e metà cattolico, il quale gli lascia una rete in grande sofferenza con un inquietante calo di audience, autori in fuga e una star come Gad Lerner passato polemicamente su Raidue. Agostino si rimbocca le maniche, appoggia il sigarone sulla ceneriera e si mette al lavoro. In poco tempo Raiuno torna a risplendere e, fingendo grande modestia, in un'intervista a Prima Comunicazione spiega che "non ho grandi meriti nell'aver riportato Raduno al 25% in prima serata. È bastato lucidare il vecchio patto tra la rete e il suo pubblico, che è fatto dal 90% degli italiani. Il pubblico ha capito e ci ha premiato".

Guai non ne mancano. Come quando il suo amico Santoro che era riuscito a riportare in Rai dopo una stagione nelle tivù berlusconiane ("Una ferita sanata", l'aveva definita Saccà), durante la guerra balcanica, in una puntata di 'Moby Dick', si fa trovare sul ponte Brankov di Belgrado mostrando molta poca simpatia per l'esercito alleato che ha deciso di liquidare quel sant'uomo di Slobodan Milosevic. Ad Agostino viene quasi un colpo apoplettico. Chiama il suo (ormai ex) amico Santoro e va giù duro. Se è questa l'idea che ha del suo lavoro in Rai. è bene chiuderla lì e tanti saluti a tutti. Michele lo rassicura e Sacca accetta ma rimane vigile.

Passa qualche mese ed è di nuovo tempesta. Nel giugno del 2000 il presidente Roberto Zaccaria e il direttore generale Pier Luigi Celli gli preparano un bello scherzo rimuovendolo dalla direzione di Raiuno e assegnandolo al marketing strategico. Motivo? Saccà deve aver alzato troppo la cresta e minaccerebbe da vicino la stessa poltrona di Celli.
Agostino incassa la retrocessione con un mezzo sorriso sulle labbra perché è pronto a scommetterci la camicia che quelli sono gli ultimi spasmi di un vertice destinato alla sconfitta elettorale. Accetta la responsabilità del marketing strategico ma già l'anno dopo è di nuovo direttore della rete par excellence della Rai. Da lì si prepara a spiccare il volo alla direzione generale con buona pace di chi gli vuoi bene e di chi gli vuole male. Quella poltrona è un pensiero fisso che lo occupa giorno e notte. E ricorda di tanto in tanto un altro proverbio che deve aver sentito da bambino nella sua Taurianova: 'A ru munnu ce vo' fortuna e addr'uortu ce vo' litama', nella vita ci vuole fortuna, nell'orto ci vuole letame.
Lui ha ampiamente dimostrato che, quand'è necessario, è provvisto sia dell'una sia dell'altro.

Daniele Scalise


Dagospia.com 18 Aprile 2002