
IL CINEMA DEI GIUSTI – ARRIVA IN SALA “ALPHA”, TERZO FILM DI JULIA DUCOURNAU, CHE CI PORTA IN UNA DIREZIONE DI CINEMA DISTOPICO: IN UNA SOCIETÀ FRANCESE DEGLI ANNI '80 CHE SEMBRA QUELLA DELL'AIDS, LA FAMIGLIA DELLA GLORIOSA DOTTORESSA DI GOLSHIFTEH FARAHANI SI STA SGRETOLANDO – PRESENTATO ALL’ULTIMO FESTIVAL DI CANNES, HA DIVISO PUBBLICO E CRITICA. CAPOLAVORO, COME SCRISSE “VARIETY” O DISASTRO COME SCRISSE “THE GUARDIAN", "STRIDENTE, OPPRESSIVO, INCOERENTE, SENZA SENSO DALL'INIZIO ALLA FINE” – QUEL CHE VIENE FUORI NON È SOLO METAFORA DI COVID, AIDS, TOSSICITÀ, MA UNA LETTURA DI QUESTI TEMPI MALATI…
Marco Giusti per Dagospia
Vi ricordate “Titane”, il body horror ultrasplatter ultrafemminista ultratrans Palma d’Oro a Cannes, dove la protagonista si tromba una macchina e ne esce una sorta di cyber-marmocchio (detta così, certo…)?
Insomma, Julia Ducournau, la regista di “Titane” si ripresenta con un nuovo film, il suo terzo film, “Alpha”, con Golshifteh Farahani, Tahar Rahim, Mélissa Boros, Emma Mackey, presentato lo scorso maggio al Festival di Cannes.
Dove non ha vinto nulla. Ma ha diviso pubblico e critica. Capolavoro, come scrisse "Variety" ("a triumphant return") o disastro come scrisse "The Guardian", "stridente, oppressivo, incoerente, senza senso dall'inizio alla fine", questo "Alpha", sì, incoerente lo è, oppressivo no e senza senso neanche.
Perché malgrado non abbia una narrazione lineare e nella seconda parte diventa quasi un altro film, tenta comunque di conquistarsi un tipo di cinema più legato ai suoi tempi, nella linea di "Sirat" di Oliver Laxe e i film apocalittici sulla fine del mondo per intenderci, e quel che viene fuori non è solo metafora di covid, AIDS, tossicità, una rilettura della pandemia e dell'omofobia, ma dei tempi malati che intere generazioni hanno respirato e ancora respirano cercando di recuperare con la famiglia e la memoria quello che resta.
Ma proprio famiglia e memoria diventano sempre più sabbia e deserto. Più "normale" rispetto a "Titane", cioè con meno body horror del previsto, e personaggi umani, anzi umanissimi, "Alpha" ci porta in una direzione di cinema distopico dove in una società francese di Havre degli anni '80 che sembra quella dell'aids, la famiglia della gloriosa dottoressa di Golshifteh Farahani, si sta sgretolando.
Sua figlia tredicenne, Alpha, Mélissa Boras, si è forse infettata dopo un tatuaggio sul braccio, la A di alpha, e la possibilità che sia malata turba l'ordine delle sue relazioni sociali, scuola, amici. E a casa, anzi direttamente nella stanza di Alpha è tornato il fratello della dottoressa, Amin, Tahar Rami, tossico, senza speranza di recupero, in cerca dell'ultimo viaggio per non risvegliarsi più.
Fuori infuria la malattia, che porta gli infetti a marmorizzare la loro pelle come fossero statue prima di morire. La dottoressa lotta come può contro tutto, contro la malattia sul lavoro, in famiglia dietro al fratello che ama e alla figlia, in attesa dei risultati delle analisi, nella famiglia di origine, con la mamma che cerca di mantenere le tradizioni più antiche.
Per cui la malattia è una maledizione, il Vento Rosso che tutto cancella. Su questi elementi poggia una storia di amore che i due fratelli portano avanti da sempre, e di continui sfasamenti temporali per cui Alpha di 13 anni e Alpha di 5 sembrano vivere le stesse cose. Ovvivamente non esiste un padre né una figura paterna.
La storia d'amore fra i due fratelli cresce, anche perché Tahar Rahim e Golshifteh Farahani sono bravissimi e hanno il fascino necessario a un finale esplosivo, lui, dopo aver perso 20 chili, usa il suo corpo piegandolo alle idee visive della Ducournau, fa un gran lavoro su di sé.
Mal capito dalla critica, come scrisse Philippe Rouyet, "stupefacente vedere tanto rigetto per un film che offre alcune delle più belle e più forti immagini viste a Cannes. Emozione per questa famiglia amorosa e disfunzionale e per l'ostracismo causato dal virus". Devo dire che mi è piaciuto. In sala da domani.