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IL GIORNALISMO DEL FUTURO VISTO DALLA CALIFORNIA - LA RIVISTA DEL MOMENTO SI CHIAMA "CALIFORNIA SUNDAY MAGAZINE", E' UN  PO' IL "NEW YORKER" DELLA SILICON VALLEY - NASCE A SAN FRANCISCO ED E' UN PRODOTTO DI ALTISSIMA QUALITA', GRANDI FOTOGRAFIE, STORIE PAZZESCHE - E QUALCHE VOLTA ANCHE ARTICOLI...

Michele Masneri per “Il Foglio”

 

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Il giornale più bello d’America non esiste. Nel variegato mondo dell’editoria soprattutto stampata, tra i tanti tentativi di sopravvivere, ecco un altro business model dei più bizzarri. Negli Stati Uniti la rivista del momento si chiama California Sunday Magazine (anche se non esce tutte le domeniche, anzi è un bimestrale): ha già vinto tutti i premi possibili, è stato definito “il New Yorker californiano” e ha una particolarità, nasce a teatro.

 

Ce lo racconta il direttore e fondatore, Doug McGray, nel loft della redazione, a Dogpatch, quartiere di gentrificazione violenta, parte est di San Francisco, tra porti da bonificare, ristoranti nuovissimi uno dopo l’altro, fabbriche di zaini extralusso. Un raro edificio di mattoni (son crollati tutti nel terremoto del Sei), sopra una fondamentale forneria gluten-free. Loft modesto: l’ufficio stupisce subito perché è un unico stanzone, nemmeno tanto grande. Candido, banchetti ognuno col suo Mac, ma si vede che siamo abituati all’estetica pantagruelica delle startup di successo coi divanoni e le cucine da masterchef.

 

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“Scrivevo per il New Yorker, per il New York Magazine, poi ho cominciato a lavorare per la radio, e mi piaceva tanto” dice McGray,  quarantenne brizzolato, occhiale tartarugato, direttore e fondatore del giornale. “A un certo punto nel 2009 mi sono reso conto che conoscevo molti autori bravi, non solo scrittori ma anche fotografi, registi, che non avevano un posto dove ritrovarsi”.

 

Così abbiamo affittato un piccolo teatro a Mission (altro quartiere ex sgarrupato, nda), “abbiamo creato un magazine live, con gli autori che raccontano le loro storie sul palco, ed è stato un successo enorme, abbiamo fatto sold out fin dalla prima volta”. “Certo avevamo nomi interessanti come Michael Pollan, una collaborazione con McSweeney, la rivista letteraria di San Francisco, e sul palco poteva esserci Alice Waters (colei che ha inventato la cucina bio in America), “ma soprattutto abbiamo capito che era un format che poteva avere successo”.

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Adesso il Pop-Up Magazine è già un classicone: non più solo a San Francisco, ma in tour nelle più fondamentali bolle delle due coste: Portland e Seattle, Los Angeles, Washington e New York, e a ottobre riprende sempre da qui, dalla California del nord. Immaginatevi un gran teatro. Si spengono le luci, un’orchestra dal vivo comincia a suonare. Poi va su un giornalista a raccontare una sua storia, che può essere serissima come l’analisi delle politiche di Trump tramite la spiegazione di che cos’è un ordine esecutivo, cioè quella specie di decreti che la Casa Bianca può emanare senza passare dal parlamento.

 

Poi, come in una delle ultime repliche, la giornalista di Rolling Stones Brittany Spanos che racconta la sua storia sulle cinque canzoni più rischiose da cantare ai karaoke, le più cantate, le più stonate. Una divagazione colta e divertente su ognuna di queste canzoni”. A parlare adesso è Leo Jung, art director, ex di Wired e vice del New York Times Magazine. “A ogni storia costruiamo attorno grafiche, animazioni, filmati, tutto ideato apposta per l’occasione. Per la storia del karaoke per esempio abbiamo ideato grafiche come se fosse un programma tv degli anni Ottanta, con l’orchestra che suona la canzone di cui si parla, e poi si è cantato tutti insieme”.

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L’orchestra c’è sempre. “E’ diverso da un magazine tradizionale” dice Jung. “Già, non ero mai calcato le scene a Broadway prima”, scherza lui. “E’ diverso, ma allo stesso tempo simile  a un magazine fisico. Sottolineiamo con le animazioni i temi centrali, non facciamo molte cose concettuali, facciamo vedere cose vere, ma è anche come essere un regista perché tutti i tempi devono essere precisi e le animazioni devono essere coordinate con le storie, che essendo live cambiano tutte le volte” dice Jung.

 

Un’altra particolarità di questi show è che niente viene registrato, niente viene twittato, niente finisce su Internet. “Devi essere lì, è una cosa che nasce e muore lì” ci dice il direttore McGray. “Spesso vai a vedere spettacoli che sono progettati per la tv, invece noi volevamo fare il contrario, per questo non li filmiamo, sono fatti per il pubblico teatrale, tu compri il biglietto, porti gli amici o una fidanzata, è un evento irripetibile, ascolti le storie perché sai che non si ripeteranno più.

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Quando stai guardando la tv chatti o twitti, qui invece devi farti coinvolgere”,  ci dice invece Chas Edwards, che è l’editore, quello che ci ha messo i soldi. E’ anche lo startupparo del gruppo: precedentemente ha lavorato a CNet e ha fondato il portale Digg, oltre ad essere il cofondatore di Federated Media, una delle aziende pioniere nella pubblicità online.

 

Ma quanto costano queste tournée? “Sono molto costose, certo, e di sicuro qui non stiamo facendo i soldi. Ci sono le spese di viaggio, l’affitto dei teatri”, dice. “Se però i teatri sono molto grandi riusciamo a andare in pareggio con la vendita dei biglietti. Poi ci sono gli sponsor, che compaiono all’interno del palinsesto, e non è che proiettano il loro spot registrato: lo spot è uno spettacolo in sé che facciamo dal vivo e che viene creato dal nostro studio creativo interno”.

 

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“La mia idea” dice McGray “era che oggi molte aziende editoriali spendono incredibili energie per accaparrarsi pochi secondi della nostra attenzione, venti secondi mentre prendiamo il caffè, trenta mentre andiamo in metropolitana, qui invece noi chiediamo al pubblico di dedicare due ore del loro tempo, e sono contenti, sia perché è bello, sia perché è un momento della giornata in cui le persone sono più disposte a rilassarsi e ad ascoltare una storia”.

 

 Alla fine, come derivato dello show, è arrivato il magazine “fisico”  e cartaceo. “Vogliamo essere un editore notturno e per ilweekend” dice McGray. “Il tempo che noi diamo è quello sottratto a un paio d’ore di Netflix, di qui l’idea di creare un giornale vero attorno alla rivista live”. In effetti la rivista, nata nel 2014, è intima, non fracassona.

 

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“Volevamo un giornale che fosse intimo come la radio, visuale come il cinema” dice il direttore. “Viviamo in un sovraccarico costante di storie, quello che volevo fare io era raccontare poche storie ma scritte e disegnate benissimo, non vogliamo pubblicare dieci pezzi al giorno. Un giornale del weekend”. Il giornale è molto bello, molto pulito, poche storie, belle fotografie non invadenti. Ha già vinto tutti i premi possibili, “cerchiamo di bilanciare lo spazio per la scrittura e la fotografia, spesso nei magazine c’è troppo di uno o dell’altro” dice Jung.

 

Nell’ultimo numero c’è un lungo profilo di Kevn McCarthy, politico californiano molto vicino a Trump, in un altro la storia in copertina degli ingegneri ragazzini, specie di schiavi strapagati strappati alle università per andare a far miliardi nelle startup californiane. Sul prossimo, “una delle storie è sulla scena degli chef senza ristorante di Los Angeles, c’è questo nuovo movimento di giovani cuochi che usano Instagram per promuoversi, scattano foto a piatti che stanno cucinando e poi vanno a cucinare a domicilio” dice Jung”. La caratteristica del Sunday è che le storie “devono trattare di California, Asia o America latina”.

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Ma anche il cartaceo ha un lato immaginifico, soprattutto a livello di marketing: pare la trovata delle vhs di Berlusconi negli anni Ottanta, per creare le finte dirette nazionali; ma con un tocco siliconvallico. “Il giornale esce la domenica insieme al Los Angeles Times e al San Francisco Chronicle”, dice McGray. Insieme cioè i due big locali californiani, che in teoria sono concorrenti. Ma quelli sono contenti di fargli da distributori, in cambio di una fee. “Se sei un quotidiano e non sei il New York Times, è molto difficile fare un bel magazine” dice McGray.

 

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“Tutte le energie del quotidiano sono concentrate su altro”. Questa di mettere il proprio giornale in altri “è un’idea di business ma anche creativa” dice. “Anche col teatro abbiamo messo un magazine dove le persone nonsi aspettano di trovarlo. Inoltre è stato un modo per partire più velocemente di quanto avremmo fatto se avessimo dovuto occuparci anche della distribuzione”. “Quando m’è venuta questa idea mi sono messo, da giornalista, a fare una specie di inchiesta, parlando con molte persone, chiedendo cosa pensassero. E’ un momento molto interessante per l’editoria. Non si può essere solo creativi ma anche un po’ imprenditori”.

 

Il trucco però è che il magazine non viene abbinato proprio a tutte le copie dei giornali concorrenti. “Non arriva in tutte le aree; solo in determinate zone di San Francisco e Los Angeles”. “Abbiamo analizzato i vari codici postali dove vengono distribuiti questi quotidiani e li abbiamo selezionati in base a quelli che secondo noi dovrebbero essere i nostri lettori”. “I quotidiani locali hanno dati molto precisi”, spiega meglio Chas, l’editore. “Il nostro target sono i giovani, creativi di Los Angeles e San Francisco”. 

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“Quando abbiamo chiesto i dati sui lettori, tendevano a darci gli zip (cioè i cap) dei ricchi, ma noi non vogliamo quelli. Spesso i ricchi sono in pensione, vivono nelle aree residenziali, insomma non ci interessano. Magari invece nel Tenderloin (la zona degli homeless, nda), ci vive un fotografo, che potrà essere squattrinato, ma comunque creativo, con una vita interessante. A noi interessano gli early adopter, quelli che guidano un’auto elettrica e hanno l’abbonamento a HBO, e comprano l’ultimo aggeggio Apple.

 

A volte sono ricchi, ma non sempre. Giovani curiosi membri delle comunità urbane. Questo sistema ci ha permesso di avere una distribuzione di 350 mile copie, e un’utenza selezionata che fa gola agli inserzionisti. Abbiamo lavorato un sacco sui big data”, conclude soddisfatto. Il giornale è in vendita poi anche in alcune sofisticatissime edicole (a 5 dollari).  A spanne, anche se non vogliono rivelare i dati economici e dicono d’essere “quasi in pareggio”, “metà dei ricavi vengono da Pop Up, un quarto dalla pubblicità, un quarto dagli abbonamenti”, perché è anche possibile abbonarsi, con varie formule.

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California Sunday Magazine nasce anche da complessi antichi. In fondo “c’è questa concentrazione di media a New York e sulla West Coast” dice McGray. “Mentre se vivi qui non c’è quasi niente e dici, ehi, ma non è che siamo proprio nel deserto. Qui c’è Hollywood, c’è la Silicon Valley. C’è la California che non è solo business, c’è tutta un’estetica, una storia. Eppure non ci sono riviste importanti”. San Francisco vive notoriamente da sempre tragici confronti con l’altra costa.

 

Però qui una grande tradizione interrotta: con la corsa all’oro nacquero soprattutto infatti molti giornali globali e la figura di “publisher” più famosa della storia, dopotutto. Citizen Kane è nato qui, mica a New York. E anche molto dopo, negli anni Sessanta, tutto un tripudio di riviste e magazine e prodotti editoriali, quando il design incrocia il movimento hippy e i diritti, nascono così giornali molto politicizzati assai ben disegnati(anche le Black Panther avevano il loro house organ, a un certo punto). Poi però basta. Adesso ci si riprova col Sunday. Nella versione “liquida” e in quella cartacea.

 

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Incuriosiscono i dettagli. Si ipotizzano terribili confronti con imitazioni italiane (gli amici degli amici, sul palco; la poetessa di Cremona, l’assessore). Ma gli scrittori li addestrate per andare live?  “Lavoriamo sugli script con i nostri editor, ma no, non ci interessa che diventino animali da palcoscenico”, dice l’editore.

 

“Alcuni sono timidi, e va bene così, devono raccontare la loro storia, non diventare attori”. E “sì, la redazione viaggia quasi tutta con lo spettacolo”.  Le storie vengono invece assemblate a seconda delle preferenze con dei tocchi regionali. “In ogni serata ce ne sono una decina, noi ne prepariamo un totale di sedici-diciassette, e poi montiamo una scaletta a seconda della città. In questo modo non c’è mai una serata uguale all’altra”.

 

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“Alcune storie funzionano sulla carta e non sul palco, e viceversa, dunque non c’è mai una corrispondenza totale”. L’ultimo show è andato in scena al bellissimo teatro dell’Ace Hotel a Los Angeles, uno di quei teatri déco frananti con tutte le guglie che sembrano castelli di sabbia (ripristinato in hotel aspirazionale). Con grande party post-teatro (perché un’altra caratteristica del Pop Up è che poi dopo lo spettacolo seguono drinks, insieme agli autori, per socializzare).

 

Naturalmente poi un altro segreto alla base giornale del futuro è che non ha giornalisti: nel loftino modesto, tra i venti dipendenti, son tutti grafici, producer, fotografi. Un solo giornalista, tipo quota protetta. “Abbiamo solo un assunto, che fa la politica; poi ci sono quelli del dipartimento creativo, i commerciali, la pubblicità” dice il direttore. Lui si giustifica: “Non abbiamo bisogno di altri giornalisti, perché non facciamo tante notizie, assumessimo delle persone poi dovremmo in qualche modo utilizzarle”.

 

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Si fa così vasto ricorso ai freelance, e le proposte vengono sottoposte a micidiali valutazioni di redazione, c’è un decalogo e tutto su come mandare le idee. Però qui fare la polemica sui precari ha poco senso. Chiediamo quanto pagano i pezzi, il direttore glissa, dice, “eh, però off the record”, si vergogna un po’, “siamo un po’ sotto la media”, sospira, poi confessa. “Due dollari a parola”. Facciamo un calcolo, questo pezzo verrebbe circa 4.000 dollari. “Più le spese, naturalmente”. Caffè americano di traverso. Sipario.

 

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