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PRINCE È MORTO. LO RIVELA IL SITO AMERICANO ''TMZ''. UN ALTRO DIO DEL ROCK CHE SE NE VA IN QUESTO 2016 MALEDETTO. AVEVA 57 ANNI. È STATO TROVATO NELLA SUA TENUTA IN MINNESOTA - IL CANTANTE - IL CUI VERO NOME ERA PRINCE ROGERS NELSON - HA AVUTO UN MALORE LO SCORSO 15 APRILE, CHE AVEVA COSTRETTO IL SUO JET A UN ATTERRAGGIO DI EMERGENZA - MA È APPARSO IN CONCERTO IL GIORNO DOPO, E AVEVA RASSICURATO I SUOI FAN DI STARE BENE. IL SUO STAFF AVEVA DETTO ALLA STAMPA CHE ERA ALLE PRESE CON L'INFLUENZA

VIDEO - PURPLE RAIN

 

 

 

 

 

Da ''TMZ''

 

PRINCEPRINCE

L'artista noto come Prince è morto. Lo rivela il sito americano TMZ. Aveva 57 anni. Il suo corpo è stato trovato nella sua tenuta di Paisley Park in Minnesota nelle scorse ore. Il cantante - il cui vero nome era Prince Rogers Nelson - è stato vittima di una ''emergenza medica'' lo scorso 15 aprile, che aveva costretto il suo jet privato a un atterraggio di emergenza in Illinois. Ma è apparso in concerto il giorno dopo, e ha rassicurato i suoi fan di stare bene. Il suo staff aveva detto alla stampa che era alle prese con l'influenza.

 

PRINCEPRINCE

Prima della sua apparizione più recente, però, Prince aveva cancellato due date a causa di problemi di salute.

 

Era diventato una superstar internazionale nel 1982 con l'album 1999.

 

Nella sua carriera ha sfornato un gran numero di hits, ha vinto 7 Grammy, si è esibito nel SuperBowl 2007, una delle più grandi performance di tutti i tempi. Ha venduto più di 100 milioni di album e ha vinto un Oscar per ''Purple Rain'', miglior canzone originale nel 1985. Sposato due volte, la prima volta con la ballerina Mayte Garcia, la seconda con Manuela Testolini, con cui si è separato nel 2006.

 

 

UNA DELLE ULTIME INTERVISTE, A 'REPUBBLICA', PRIMA DI INIZIARE IL TOUR

Carlo Moretti per “la Repubblica” dell'11 novembre 2015

 

L’appuntamento è nel grande studio di Paisley Park alla periferia di Minneapolis. Non ci sono altri dettagli. Anche l’ora fissata per l’intervista cambierà più volte nel corso della giornata: prima le 17, poi le 21, infine saranno le 19.

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L’ultima email della lunga serie di messaggi in stile caccia al tesoro avverte che durante l’incontro sarà vietato registrare, al bando anche i cellulari, sono ammessi solo carta e penna. Più che amore per il vecchio stile sembra una punta di paranoia.

 

Del resto, se sua maestà Prince chiama e per l’occasione apre le porte della sua casa, non ci si può certo tirare indietro. Sui motivi dell’incontro si brancola nel buio, una sensazione già provata dai giornalisti americani lo scorso agosto per la presentazione del nuovo album intitolato Hit’n’Run, il trentottesimo della carriera dell’artista, 57 anni e oltre 100 milioni di dischi venduti. Ora tocca a noi: «Qualcuno ha idea di cosa succederà stasera? ».

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Paisley Park è alla periferia ovest della città, due blocchi di cemento grigi dove nessuno immaginerebbe studi di registrazione, sembra piuttosto una fabbrica di detersivi. Dentro, disseminati su una superficie di 5 mila metri quadrati, ci sono tre studi, due grandi sale da concerti con palchi stracolmi di strumenti e amplificatori, c’è una sala relax molto hippie e psichedelica, due spazi dedicati ai memorabilia del folletto di Minneapolis, compresi vestiti di scena e la moto Honda utilizzata nel film Purple rain.

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All’ingresso ci viene consegnata una brochure: «Ecco di cosa si parlerà stasera». In copertina c’è una foto di Prince e un palcoscenico spoglio con un pianoforte a coda, il titolo recita: “Prince - Spotlight: Piano & a Microphone”.

 

Sedici date in Europa tra novembre e dicembre di cui una in Italia, il 15 dicembre al Teatro degli Arcimboldi di Milano. Per l’entourage di Prince si tratta solo di un piano di lavoro, nemmeno l’organizzatore italiano dei suoi concerti D’Alessandro & Galli conferma, ma al teatro risulta una prenotazione per quella data anche se le prevendite non sono ufficialmente aperte.

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Non che ce ne fosse bisogno ma il mistero s’infittisce ulteriormente, anche perché risulta difficile immaginare il principe del funky senza ritmo e senza elettricità, spogliato di tutto ciò che l’interno di Paisley Park ci racconta, a cominciare da un grande murales con Prince circondato dai musicisti delle sue band e dai suoi miti passati e viventi: James Brown, Miles Davis, Santana, Otis Redding.

 

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Il colore dominante è ovviamente il viola in tutte le sue gradazioni: alle pareti, sul velluto dei divani e delle poltrone, e non ci si stupirebbe più di tanto neanche se cominciasse a piovere a colori dal soffitto sulle note di Purple rain.

 

Disseminato ovunque, inciso sulle porte o appeso al soffitto come un lampadario, attorcigliato al microfono in cui Prince canterà a tarda sera per un infuocato concerto aperto al pubblico, campeggia il simbolo impronunciabile che utilizzò negli anni Novanta durante la lunga battaglia legale contro la sua casa discografica di allora, la Warner, accusata di averlo reso schiavo.

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Alla spicciolata arriveranno gli ospiti, in pigiama e vestaglia da camera per la serata pijama party in programma fino a notte fonda. Una volta qui ne hanno organizzato uno con ospiti d’onore i Pearl Jam.

 

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Da lontano si nota per il suo fisico minuto e l’ampia acconciatura afro. Prince arriva vestito completamente di bianco, pantaloni a campana e maglietta, bizzarre infradito con la zeppa nonostante il calzino bianco, la chitarra elettrica a tracolla. Va diretto sul palco, sistema lo strumento per il concerto che terrà tra due ore, siede alle tastiere, comincia a suonare qualcosa e laconico ci chiede: «Cosa volevate sapere?».

 

Perché questi concerti solo pianoforte e voce?

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«Per diverse ragioni: perché non voglio avere brutte recensioni, per una sfida con me stesso, per non ripetere le cose che faccio da trent’anni soltanto perché mi fanno sentire al sicuro e perché voglio provare cose nuove. Per la prima volta suonerò le mie canzoni su un pianoforte a coda, solo la mia voce nel microfono, nient’altro: nude e ancora più vere, si presentano a chi le ascolta esattamente per quello che sono. Poter cantare in un teatro in cui si ascolta l’eco della tua voce è un’esperienza di pura gioia».

 

Difficile immaginare una versione acustica di alcune sue canzoni che conosciamo molto funky ed elettriche.

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«Non so mai cosa accadrà quando salgo sul palco, dipende dal luogo e dall’atmosfera che si crea con il pubblico. Per la scaletta penso ad alcune canzoni nate al piano o alle tastiere, a quelle che ho già suonato in questo modo nei miei concerti o a quelle in cui le tastiere giocano un ruolo importante anche nell’originale».

 

È nervoso per questo tour inedito?

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«Quando la gente paga per vederti non puoi essere nervoso. Non ne hai il diritto».

 

Come sono state scelte le città per i concerti?

«Il fattore determinante è stato la presenza di teatri importanti e con una buona acustica, perché il pianoforte e la voce verranno amplificati al minimo».

 

Lei sostiene che i giovani artisti non dovrebbero più firmare contratti con le major: cosa dovrebbero fare, invece?

«Le case discografiche non investono più sugli artisti. Una delle ragioni per cui ho deciso di affidare Hit’n’Run alla Tidal di Jay Z è perché ha la struttura in grado di promuovere l’album nel modo giusto. Offre pubblicità e distribuzione capillare nel mondo senza dover spendere molto denaro per questo.

 

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Ma il vero problema oggi è essere pagati dalle case discografiche, specialmente nel caso di nuovi artisti. Jay Z è un artista e capisce cosa serve agli artisti, la sua struttura è veloce, le case discografiche sono lente. Se dovessi cominciare oggi continuerei a suonare senza preoccuparmi di firmare un contratto».

 

Il digitale ha vinto sul supporto fisico e sull’analogico?

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«Non voglio dire che tutto il digitale sia ok. C’erano tante aspettative ma Apple music funziona come le vecchie case discografiche, si comporta come una banca per finanziare il primo disco. Nessuno è diventato ricco con il download, solo le case discografiche e i servizi di downloading ne traggono vantaggi.

 

C’è qualcuno che sa dirmi dove sono finiti i guadagni per i 40 milioni di copie scaricate dell’album di Adele 21? Sono rimasti per gran parte nelle tasche del service provider. Firmare un contratto significa vedere service provider e etichetta che si spartiscono i guadagni, e poi aspettare sei mesi per avere i soldi del downloading. Non ha senso».

 

La Tidal di Jay Z è la risposta a tutto ciò?

«Fin qui si è comportato bene, siamo stati tutti già pagati, e in anticipo. (L’impianto audio nello studio comincia a gracchiare e lui commenta ironico: «Ecco cosa succede a parlar male della Apple»).

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Le case discografiche hanno ucciso la musica: per continuare a vendere dischi hanno messo in campo i contabili, gli avvocati, i produttori da affiancare agli artisti negli studi di registrazione per fare in modo che ripetessero cliché e cose rassicuranti. Per questo il mondo della musica è collassato ».

 

Oggi nel rock nessuno rischia più, sembra più fantasiosa la scena elettronica.

«Il problema è che oggi nessuno impara più la tecnica, non ci sono più grandi band jazz e fusion. Ma del resto oggi non c’è più nessuno da imitare, non ci sono più i Weather Report o gli Al Di Meola».

 

Lei è diventato un testimone di Geova: la sua nuova fede influenza la scrittura dei testi, in passato molto espliciti e sexy?

 

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«La fede ha influenzato il mio modo di dire le cose, spingendomi a scrivere cose vere in un modo più sincero, conciso e diretto; a pensare molto di più ai dettagli. Per quanto riguarda il sesso, non è la religione a influenzarmi, semmai il fatto che nel mio pubblico oggi ci sono anche i figli dei miei vecchi fan, che nel frattempo hanno messo su famiglia. La platea è diventata più grande, preferisco essere più sfumato rispetto a certi temi».

 

“Baltimore”, il brano contro i recenti omicidi razzisti in Usa, ha sorpreso anche per la sua scelta di impegnarsi. Cosa si può fare contro queste violenze?

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«Non credo di essermi impegnato solo ora, ci sono tonnellate di miei testi sociali, basta ascoltare brani come Judas smile o Golden parachute. Non ho nessuna formula da suggerire contro le violenze, la gente viene uccisa in strada e nulla accade, penso che tutto ciò risponda alla regola “causa ed effetto”.

 

Ascoltate il nuovo brano di Krs One Drugs won, parla proprio di questo. Causa ed effetto fu anche quando il produttore discografico della Columbia Clive Davis mi disse: “Non ti abbiamo fatto fare questo disco per arricchirti, per quello ci sono i live”».

 

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Crede dunque che ci sia un problema razziale anche con l’industria discografica?

«Abbiamo sempre avuto problemi. Gli U2 non hanno problemi con la loro casa discografica, la amano. Ma Sam Cooke è morto a causa delle etichette discografiche e anche Otis Redding».

 

Incontro finito, è tempo di pigiama party. Al Paisley Park sono vietati gli alcolici, si bevono succhi e acqua minerale, non si può fumare neanche all’aperto, dove la temperatura è scesa vicina allo zero. La musica però è superlativa e si spera sempre di poter incontrare il Principe.

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