ECCO CHI SECONDO MORO, FU IL VERO RESPONSABILE DELLA SUA MORTE: GIULIO ANDREOTTI

Gianni Barbacetto per "Il Fatto Quotidiano"

Aldo Moro lo conosceva bene, Giulio Andreotti. Visto da vicino, il Divo non aveva il fascino che tanti post mortem gli attribuiscono. "Si può essere grigi, ma onesti; grigi, ma buoni; grigi, ma pieni di fervore. Ebbene, On. Andreotti, è proprio questo che Le manca". Così di Andreotti scriveva Moro.

"Lei ha potuto disinvoltamente navigare tra Zaccagnini e Fanfani, imitando un De Gasperi inimitabile che è a milioni di anni luce lontano da Lei. Ma Le manca proprio il fervore umano. Le manca quell'insieme di bontà, saggezza, flessibilità, limpidità che fanno, senza riserve, i pochi democratici cristiani che ci sono al mondo. Lei non è di questi. Durerà un po' più, un po' meno, ma passerà senza lasciare traccia".

Così Moro nel suo "Memoriale", quell'insieme di documenti vergati durante il sequestro, ritrovati in diverse circostanze tra il 1978 e il 1990 e resi pubblici nel 2001 dalla Commissione parlamentare sulle stragi. E che tornano di attualità nel giorno del 35° anniversario del ritrovamento del corpo di Moro in via Caetani.

"È RESTATO INDIFFERENTE, LIVIDO, ASSENTE, CHIUSO NEL SUO CUPO SOGNO DI GLORIA"

"Io mi sarei atteso, a parte i valori umanitari che hanno rilievo per tutti, che l'On. Andreotti, grato dell'investitura che gli avevo dato, desideroso di fruire di quel consiglio che con animo veramente aperto mi ripromettevo di non fargli mai mancare, si sarebbe agitato, si sarebbe preoccupato, avrebbe temuto un vuoto, avrebbe pensato si potesse sospettare che, visto com'erano andate le cose, preferisse non avere consiglieri e quelli suoi propri inviarli invece alle Brigate rosse", scriveva Moro in prigionia.

"Nulla di quello che pensavo o temevo è invece accaduto. Andreotti è restato indifferente, livido, assente, chiuso nel suo cupo sogno di gloria. Se quella era la legge, anche se l'umanità poteva giocare a mio favore, anche se qualche vecchio detenuto provato dal carcere sarebbe potuto andare all'estero, rendendosi inoffensivo, doveva mandare avanti il suo disegno reazionario, non deludere i comunisti, non deludere i tedeschi e chi sa quant'altro ancora.

Che significava, in presenza di tutto questo, il dolore insanabile di una vecchia sposa, lo sfascio di una famiglia, la reazione, una volta passate le elezioni, irresistibile della Dc? Che significava tutto questo per Andreotti, una volta conquistato il potere per fare il male come sempre ha fatto il male nella sua vita? Tutto questo non significava niente. (...) Andreotti sarebbe stato il padrone della Dc, anzi padrone della vita e della morte di democristiani e no". (...) Ho un immenso piacere di avervi perduti e mi auguro che tutti vi perdano con la stessa gioia con la quale io vi ho perduti".

Nella lettera scritta dal carcere delle Br e recapitata alla moglie Eleonora il 6 aprile, Moro dice: "Mia Carissima Noretta (...) Si può fare qualche cosa presso: Partiti (specie Dc, la più debole e cattiva), i movimenti femminili e giovanili, i movimenti culturali e religiosi. Bisogna vedere varie persone, specie Leone, Zaccagnini, Galloni, Piccoli, Bartolomei, Fanfani, Andreotti (vorrà poco impegnarsi) e Cossiga".

"L'UNICA COSA CHE VERAMENTE CONTA PER ME È LA FAMIGLIA, NON LA CARRIERA"

Il 29 aprile, a Flaminio Piccoli, presidente del Gruppo democristiano, scrive: "Importante è convincere Andreotti che non sta seguendo la strada vincente. (...) Conviene trattare". Lo stesso giorno, viene recapitata una lettera direttamente scritta ad Andreotti: "Caro Presidente, so bene che ormai il problema, nelle sue massime componenti, è nelle tue mani e tu ne porti altissima responsabilità.

Non sto a descriverti la mia condizione e le mie prospettive. Posso solo dirti la mia certezza che questa nuova fase politica, se comincia con un bagno di sangue e specie in contraddizione con un chiaro orientamento umanitario dei socialisti, non è apportatrice di bene né per il Paese né per il governo. (...) Quando ho concorso alla tua designazione e l'ho tenuta malgrado alcune opposizioni, speravo di darti un aiuto sostanzioso, onesto e sincero. Quel che posso fare, nelle presenti circostanze, è di beneaugurare al tuo sforzo e seguirlo con simpatia sulla base di una decisione che esprima il tuo spirito umanitario, il tuo animo fraterno, il tuo rispetto per la mia disgraziata famiglia. (...) Che Iddio ti illumini e ti benedica e ti faccia tramite dell'unica cosa che conti per me, non la carriera cioè, ma la famiglia".

Il giorno prima, 28 aprile, era stata recapitata una lettera scritta da Moro "alla Dc": "È noto che i gravissimi problemi della mia famiglia sono la ragione fondamentale della mia lotta contro la morte. In tanti anni e in tante vicende i desideri sono caduti e lo spirito si è purificato. E, pur con le mie tante colpe, credo di aver vissuto con generosità nascoste e delicate intenzioni. Muoio, se così deciderà il mio partito, nella pienezza della mia fede cristiana e nell'amore immenso per una famiglia esemplare che io adoro e spero di vigilare dall'alto dei cieli. Proprio ieri ho letto la tenera lettera di amore di mia moglie (...).

La pietà di chi mi recava la lettera ha escluso i contorni che dicevano la mia condanna, se non avverrà il miracolo del ritorno della Dc a se stessa e la sua assunzione di responsabilità. Ma questo bagno di sangue non andrà bene né per Zaccagnini, né per Andreotti, né per la Dc, né per il paese. Ciascuno porterà la sua responsabilità".

 

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