
“L’ITALIA È UN PAESE VECCHIO, DI VECCHI” – IL CT DELL’ITALVOLLEY DONNE JULIO VELASCO, 73 ANNI, VA A RUOTA LIBERA ALLA VIGILIA DEL MONDIALE - "L’ITALIANO È TROPPO CONSERVATORE. IN QUESTO PAESE SI STA BENE, MALGRADO TUTTI SI LAMENTINO. E DOVE SI STA BENE, SI FATICA A CAMBIARE. NON È VERO CHE ALTROVE C'È PIÙ CULTURA SPORTIVA” – L'ORO OLIMPICO, L'ESPERIENZA DA DIRIGENTE NEL CALCIO, L'IDEA DI BERLUSCONI CHE LO VOLEVA PER IL DOPO CAPELLO, IL RIMPIANTO: "MI SPIACE AVER SMESSO DI BALLARE IL TANGO UNA VENTINA D’ANNI FA”…
julio velasco italvolley donne
Alla vigilia del Mondiale di pallavolo, la Gazzetta intervista Julio Velasco ct della Nazionale femminile.
Fra 5 giorni in Thailandia le azzurre cominciano il Mondiale. venerdì affronterà la Slovacchia nella prima partita. È sereno, consapevole di avere in mano una squadra fortissima. Non solo perché un anno fa vinse l’oro olimpico o perché viene da 29 vittorie di fila. E la prima curiosità parte proprio da lì, dallo storico trionfo di Parigi 2024.
Julio, come si ricrea la motivazione in una squadra che ha raggiunto il massimo?
«La motivazione non ha avuto bisogno di nulla. Le ragazze hanno addirittura fatto un patto tra loro. Sono motivate a dare il massimo per riportare in Italia un Mondiale che non vinciamo da 23 anni. E che questo gruppo non ha mai vinto. Sanno che se riescono a fare Olimpiadi, Nations League e Mondiale entrano nella storia. Non ho avuto bisogno di motivarle. È un gruppo fantastico, non ordinario. Ragazze speciali, non solo forti. Lavorare con loro è un piacere. Hanno tanta qualità».
julio velasco italvolley donne
«Penso sia importante fare bene il proprio lavoro. E io credo di fare bene il mio. Dicono che vinco perché creo il gruppo? Ma il gruppo si crea perché si vince. Se la squadra va bene, funziona. Ed è più facile che i rapporti fra le persone funzionino. Se non si gioca bene, allora non si crea il gruppo. Noi siamo progrediti in quei particolari, soprattutto tecnici, che dovevamo migliorare».
Cosa non le piace dell’Italia?
Velasco: «Non c’è nulla che non mi piaccia. Mi disturba solo un po’ che l’italiano sia troppo conservatore. L’Italia è un Paese vecchio, di vecchi. Dove si sta molto bene, malgrado tutti si lamentino. E, dove si sta bene, si fatica a cambiare. Poi mi dà fastidio che si veda sempre tutto negativo. Lo dico anche alle ragazze: vi rendete conto che vivete in uno dei Paesi più ricchi e più belli e dove si mangia meglio? Poi sì, c’è qualcosa che non funziona».
Come valuta il movimento sportivo italiano?
Velasco: «Penso che l’Italia sia cambiata molto nello sport. Pensate a quanto sono cresciuti il tennis, l’atletica, il nuoto… Il Coni ha fatto molto, i risultati nei grandi eventi sono figli di una nuova mentalità. Altri Paesi hanno più cultura sportiva? Non credo. Ma noi vediamo sempre l’erba del vicino più verde. Dovremmo solo arricchirci tra di noi un po’ di più. La contaminazione fra sport diversi è un valore: abbiamo eccellenze straordinarie e gente validissima ovunque».
VELASCO
julio velasco italvolley donne
Paolo Marabini per gazzetta.it - Estratti
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"La parola Olimpiade quest’estate non è mai stata nominata. Solo lunedì, a un anno esatto dall’oro di Parigi, io ho detto: dobbiamo pensare solamente al Mondiale, senza dimenticare che un anno fa abbiamo vinto l’oro olimpico. Stop".
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Lei anni fa disse: "Nella mia vita ho avuto molto culo". Eppure se ripensiamo alle due sconfitte degli uomini con l’Olanda alle Olimpiadi, nel ’92 di un punto nei quarti e nel ’96 di due in finale…
"Non è che avere culo vuol dire sempre vincere un’Olimpiade. Se uno sa guardarsi intorno, pensa prima di tutto alla salute. E lo dico pur avendo avuto nella mia vita molta morte attorno a me. Per quanto riguarda la mia carriera, invece, penso innanzitutto al Mondiale dell’82 in Argentina, quando io ero il vice della Nazionale del mio Paese, ma di fatto l’allenatore in palestra, e arrivammo terzi a sorpresa dopo che 4 anni prima eravamo arrivati 22esimi. Quel risultato mi permise di arrivare in Italia subito dopo. E poi, quando fui chiamato dalla Panini Modena… Io col mio curriculum non mi sarei mai chiamato. Poi è vero, non nascondo di essere stato anche bravo a sfruttare quell’occasione. Per dimostrare la propria bravura, spesso bisogna avere l’opportunità".
Si immaginava che sarebbe arrivato dove è?
"No, all’inizio quando ho cominciato partendo dai ragazzini a Buenos Aires, non avevo l’aspettativa di diventare campione olimpico o campione del mondo. Mi immaginavo ad allenare un paio di squadrette. Senza pensare troppo in grande".
La pallavolo ha sempre scandito la sua vita?
"È sempre stata una passione fortissima e l’ho coltivata sin da ragazzo con grande coinvolgimento. Ho avuto solo un periodo in cui è sparita, per tre anni, durante l’Università. Avevo la mente altrove, gli studi in filosofia e il mio impegno politico nel movimento studentesco... Poi sono tornato a giocare. La politica ti assorbe completamente, ti prosciuga, ne avevo bisogno"
Come deve essere un bravo allenatore?
"Innanzitutto deve aver giocato. Non importa a che livello, la specificità è fondamentale. Ma poi deve uccidere il giocatore che ha dentro di sé. Allenatore e giocatore sono due cose completamente differenti. Il giocatore, soprattutto quello molto forte, usa un circuito ben diverso rispetto a quello di un allenatore. Cosa è più facile? Non ci sono cose facili o difficili. Quello che è facile per me è difficile per un altro e viceversa"
Lei è nato in una famiglia multietnica: padre peruviano, mamma per metà spagnola e per metà italiana. Ha imparato presto a diventare un cittadino del mondo.
"Sì, ma l’Argentina è un po’ così. Un Paese di emigranti e di immigrati. L’identità che non è identità. La caratteristica culturale dell’Argentina, per esempio, è non avere una caratteristica ben definita. Comunque sì, questo melting pot mi piace tantissimo. Penso che la contaminazione, e non solo razziale, sia produttiva. Lo dice anche la storia dell’umanità".
giovanni malago con julio velasco
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Lei ha alle spalle un’esperienza nel calcio. Come d.g. della Lazio, poi come responsabile dell’area tecnica dell’Inter. Cosa non funzionò?
"Non potevo rifiutarla. Per motivi economici, certo. Ma prima di tutto perché sono un calciofilo. Fosse stato per me, io avrei giocato da numero 10 nell’Estudiantes de La Plata. Il mio idolo era Juan Ramon Veron, il padre di Juan Sebastian. Vincemmo tre volte la Libertadores. E l’Intercontinentale del ‘68 battendo il Manchester United. Eravamo una squadra come potrebbe essere l’Atalanta di qualche anno fa"
E perché Velasco nel calcio non ha funzionato?
"Ci ho provato, ma il ruolo di dirigente non faceva per me. Però ho imparato che criticare il calcio è sbagliato. Il calcio è molto molto molto difficile. Ho tanto rispetto per la gente del calcio. Tutto quello che fa l’azienda calcio è incredibile, qualunque altra azienda che dovesse vivere le stesse situazioni imploderebbe nel giro di un mese".
È vero che Berlusconi nel 1998 la voleva al Milan per il dopo Capello?
"Non andò esattamente così. In una conferenza stampa, gli chiesero se era vero che avesse pensato a me per rimpiazzare Fabio. Lui confermò. Però non ci fu un contatto diretto. Ovviamente, subito mi chiamarono tutti. E siccome io credo nella specificità della conoscenza, il discorso finì lì. Un conto era occuparmi dell’organizzazione sportiva di un club. Ma per fare l’allenatore devi aver giocato a calcio. Non importa se in Serie A. Ma devi aver giocato. Io al massimo ho giocato con gli amici. E non è certo la stessa cosa"
L’ultima partitella a quando risale?
"Quando ero a Modena, tra il 2004 e il 2006, ogni mercoledì ci trovavamo a giocare a calcetto con gli allenatori di un po’ tuti gli sport. Bellissimo, un’esperienza straordinaria. Da lì conosco Pioli, che allenava il Modena. Di tanto in tanto veniva anche Scariolo, che stava a Bologna. Alla fine si mangiava insieme e ci scambiavamo le rispettive esperienze. Parlavamo di sport, tutto. Contaminazioni. Arricchimenti".
Dopo la finale di Atlanta ’96, persa in quel modo, lei pianse? Ebbe un momento di rilascio emotivo?
JULIO VELASCO DOPO LA VITTORIA DELLA NAZIONALE FEMMINILE DI PALLAVOLO ALLE OLIMPIADI
"Lì per lì no, perché ero insieme ai giocatori, che erano distrutti. E non volevo aggiungere il mio carico. Però non ricordo se ho pianto successivamente per conto mio. Ero molto triste, questo sì"
Fu peggio perdere di due punti la finale di Atlanta o di uno i quarti di Barcellona, sempre con l’Olanda?
"Atlanta, decisamente. Prima di Barcellona noi avevamo avuto un biennio difficile. Non perché avevamo vinto il primo Mondiale, nel ’90. Ma perché erano entrati nella pallavolo le grandi aziende, i giocatori cominciavano a guadagnare anche dieci volte di più. Fu molto complicato. Ricordo che andai a parlare con tre allenatori di calcio, per capire meglio, per chiedere consigli. Nevio Scala, perché era a Parma; Trapattoni, perché era un mito; e Sacchi, perché era un altro mito. A tutti e tre chiesi: come si fa a gestire ragazzi che guadagnano tanti soldi? Insomma, non fu un periodo semplice. Diverso il ’96. Peraltro ci furono anche un po’ di infortuni. Ai tempi non lo dissi, sembrava quasi di cercare un alibi e non mi è mai piaciuto farlo. Oggi lo posso dire".
Più complicato allenare le donne o gli uomini?
"Le donne rendono le cose molto più facili. Sono molto disciplinate, concentrate, obbedienti. Gli uomini si distraggono più facilmente. Per un uomo è più complicato allenare le donne proprio perché è un uomo. E porta in panchina la sua esperienza: da ragazzo, da giocatore, da persona. Le donne funzionano in modo molto diverso da noi, in tantissime cose. E allora dobbiamo parlare un’altra lingua. Con loro non possiamo usare 'Ogni maledetta domenica'. Quindi diventa più difficile. Cosa prenderei da un giocatore maschio? L’uomo dubita meno, si giudica meno. La donna, invece, è la prima che si giudica. Cosa prenderei da una giocatrice donna? La caparbietà, la capacità di stare sul pezzo, di non mollare mai, anche quando è stanca. Alle mie giocatrici lo dico spesso: sapete quale è il vostro nemico? Il dubbio. Non si può giocare con il dubbio, bisogna decidere in centesimi di secondo e farlo".
Lei ha vinto tanto. Quali sono i successi che le hanno dato più soddisfazione?
"Alla pari metto l’oro l’olimpico e il primo Mondiale vinto con l’Italia maschile (1990, ndr). E poi il secondo scudetto con la Panini, giocando senza stranieri, in un’epoca in cui senza stranieri era impossibile vincere".
Lei ha allenato anche la nazionale dell’Iran. Rifarebbe quell’esperienza?
"Oggi come oggi no. Ma è stata bellissima, formativa, in un Paese molto affascinante, a prescindere dalla situazione politica. Lavorai molto bene, arrivarono anche risultati importanti".
Diventare ct dell’Argentina era il suo sogno?
"Beh, sì. Sono stato molto bene e avrei continuato oltre quei quattro anni, se mia figlia non avesse avuto problemi di salute, fortunatamente risolti"
Dopo l’oro di Parigi avrebbe potuto lasciare. Aveva vinto il massimo…
"Per la verità non ho avuto mai molti dubbi. Ho pensato giusto alle condizioni a venire, a quali programmi avesse la Federazione. Ma la mia preoccupazione era – anzi, è – non andare in pensione. Uno come me, abituato da sempre a lavorare molto, che cosa farebbe tutto il giorno?
Certo, voglio avere il mio tempo libero, ma non posso stare con le mani in mano. Dove mi vedo dopo Los Angeles? Non so, non mi dispiacerebbe lavorare un po’ in Argentina e un po’ in Italia. O tornare a fare il direttore tecnico delle giovanili. Ma di sicuro c’è che voglio lavorare sino all’ultimo dei miei giorni. C’è chi mi vede alla guida del Coni? Ma io non saprei manco da che parte girarmi, non scherziamo"
Lei ha ancora un sogno nel cassetto?
"Il mio vero sogno è che le persone a me care stiano bene, in primis i miei quattro nipoti, che sono molto giovani e hanno una vita intera davanti".
Ha paura della morte?
"No. Morire mi fa girare le scatole, chiaro. Ma sono fatalista, prima o poi si muore. E non ne sono spaventato. Non vorrei però morire dopo una lunga malattia. Ecco, potessi scegliere vorrei che mi portasse via un infarto secco dopo aver fatto qualcosa di importante, con l’adrenalina addosso".
Quale è, o quale è stata, la persona più importante della sua vita?
"Le compagne che ho avuto al fianco negli anni. Ma soprattutto mia madre. Che mi ha fatto anche da padre. Ha fatto una vita durissima, solo per noi fratelli. Era insegnante, non ha avuto una vita sua".
Ha sofferto molto per aver perso suo padre quando aveva solo sei anni?
"No, forse perché ero piccolo e me ne sono reso conto fino a un certo punto. E poi non temere le avversità, ma affrontarle, è da sempre un po’ la mia caratteristica. Però mi rendo conto che quella perdita mi ha lasciato addosso delle cose. Io e mio fratello maggiore, che aveva un anno più di me, volevamo diventare grandi in fretta. E infatti entrambi abbiamo avuto una vita da adulti sin da giovani"
Dovesse naufragare su un’isola deserta, chi vorrebbe trovare al posto di Wilson, il pallone di Tom Hanks?
"La donna che amo".
La pallavolo l’ha obbligata a qualche rinuncia che un po’ ha faticato ad accettare?
"Mi spiace aver smesso di ballare il tango una ventina d’anni fa. Grazie al tango, tra l’altro, ho conosciuto la mia seconda moglie, Roberta. Sì, vorrei riprendere. Non è mai troppo tardi. Per il lavoro, invece, è un peccato aver perso la continuità di certi rapporti. Ma non ho perso il piacere di andare ogni anno in Argentina a ritrovare i vecchi amici".