tanjevic

TUTTE LE CITTA’ HANNO UN CUORE, SOLO SARAJEVO HA UN’ANIMA – 25 ANNI FA L’INIZIO DELL’ASSEDIO ALLA CAPITALE BOSNIACA, I RICORDI DI BOSCIA TANJEVIC, EX CT DELL’ITALBASKET, OGGI ALLA GUIDA DEL MONTENEGRO: “PENSAVO CHE SARAJEVO FOSSE AL RIPARO DALLA GUERRA. CHE SCIOCCO CHE FUI - L’IMPRESA CON LA BOSNA FU FORSE SUPERIORE A QUELLA DEL LEICESTER – DZEKO? SE CI FOSSE STATA ANCORA LA JUGOSLAVIA NON SAREBBE DIVENTATO IL CAMPIONE CHE E’ OGGI”

Gigi Riva per la Repubblica

TANJEVICTANJEVIC

 

Cosa sia la gloria sportiva, e quanto sia più longeva di quella politica, lo si misura passeggiando con Boscia Tanjevic nella sua Sarajevo. Un selfie, una foto, un abbraccio, un bacio. Bascarsija, il centro della capitale della Bosnia, ai suoi piedi. Uno dei pochi, forse l' unico, a cui viene perdonato di non essere stato presente durante l' assedio (inizio 6 aprile 1992, giusto 25 anni fa). A cui non viene rivolta la fatale domanda: «Dov' eri quando c' era il peggio?».

 

Tanjevic vinse qui 38 anni fa la Coppa dei Campioni di basket, sconfitta in finale a Grenoble la leggendaria Emerson Varese di Dino Meneghin (96-93). Aveva 32 anni, avrebbe potuto ancora essere in campo ma aveva deciso, già otto anni prima: meglio diventare un numero uno in panchina che restare il buon giocatore di serie A quale era. Prese un club vergine di vittorie e lo portò prima sul trono di Jugoslavia poi su quello d' Europa, «per un' impresa forse maggiore di quella del Leicester, compiuta senza stranieri, senza poter comprar giocatori sul mercato jugoslavo, partendo dall' A2 e facendo affidamento solo sul vivaio».

 

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Quel successo del 1979 fu il prodromo del decennio d' oro di Sarajevo. Divenne la città più fashion, si direbbe oggi, dei Balcani. Nella musica spopolavano i "Bjielo Dugme" di Goran Bregovic; nel cinema muoveva i primi passi Emir Kusturica; Abdulah Sidran era il poeta di riferimento; era ancora vivo, prima di diventare immortale coi suoi romanzi, Mesa Selimovic colui che scrisse: "Tutte le città hanno un cuore, solo Sarajevo ha un' anima": uno slogan-manifesto. E siccome nei momenti magici dei luoghi tutto si tiene, l' Fk Sarajevo vinceva per la seconda volta nella storia il campionato di calcio (1985, non sarebbe più successo dopo). L' anno prima c' erano state le Olimpiadi invernali, con le piste di sci illuminate durante la notte ed era una primizia nel Vecchio Continente.

 

TANJEVICTANJEVIC

Boscia ripassa nella mente l' elenco di prodigi mentre gira lo sguardo ad abbracciare la città a 360 gradi e quasi si spaventa, a posteriori, per una certa incoscienza spavalda: «Ci sembrava normale poter organizzare i Giochi olimpici, non ne provavamo un orgoglio particolare perché pensavamo fosse scontata una cosa che oggi non è nemmeno immaginabile. La presunzione era la diretta conseguenza di quanto ci inculcavano a scuola fin da bambini. Eravamo uno Stato che contava nel mondo.

 

Washington e Mosca non facevano nulla senza consultare Belgrado. Il Paese era ricco di minerali, fiumi, montagne, mare. Eravamo i vincitori della Seconda guerra mondiale, i partigiani avevano battuto la Germania di Hitler partendo da un piccolo nucleo di diecimila combattenti. Dunque imparavamo che per noi non c' erano traguardi impossibili. Questo sentimento di essere superiori è eccellente, un buona base per radicare dentro di sé l' idea di vincere nello sport». Non sempre, non in tutti gli sport.

 

TANJEVIC TANJEVIC

Il basket ha fatto incetta di medaglie, il calcio molto meno, nonostante una larga messe di talenti. Tanjevic riflette sulle opposte fortune dei due sport più amati e trova una causa remota politicamente scorretta, come è consuetudine del personaggio. «Il basket ha sempre reclutato fra gente più educata. E l' educazione è importante. Ai calciatori mancava la scuola.

 

I cestisti non potevano nemmeno immaginarsi di fare carriera e soldi con la loro disciplina. Si stava ore e ore a massacrarsi di allenamenti però sempre con l' idea che bisognava laurearsi per progettare il futuro. E poi c' è l' aiuto della genetica. Noi abbiamo la catena dinarica, che scende fino al Montenegro, dove crescono uomini di 2,10 metri. Non solo alti, ma anche con buona coordinazione, sanno andare a destra e sinistra senza cadere. Siccome siamo pure, di base, dei truffatori sappiamo fare le finte che ci fanno diventare imprevedibili, disorientano l' avversario. Infine, decisivo, il sistema scolastico.

 

TANJEVIC ITALABASKETTANJEVIC ITALABASKET

Fin dalla prima elementare si faceva ginnastica due-tre volte la settimana, con professori laureati, il nostro Isef durava quattro anni. Quando si costruiva un complesso scolastico lo si prevedeva già con la palestra, altrimenti non si poteva aprire ».

 

Venne il 6 aprile 1992 e Boscia stava in Italia a «inseguire i miei sogni», a «innamorarmi delle mie squadre, prima Caserta, poi Trieste, poi Milano». A dispetto della storia e della letteratura che la sublima (basta leggere il premio Nobel Ivo Andric) non credeva, l' allenatore già diventato mito anche da noi, che la guerra fosse possibile a Sarajevo, come se la città godesse di un' immunità speciale nonostante la geografia la ponesse al centro del disastro, su quella faglia di frattura di universi entrati in collisioni. L' abitudine a vivere assieme, anziché l' antidoto, fu il propellente di un rincaro di violenza.

 

EMIR KUSTURICAEMIR KUSTURICA

«Ma la tragedia», ricorda Tanjevic, «per me si era già aperta prima col conflitto in Croazia. L' unico evento che mi ha ferito più della morte di mio padre perché significava la distruzione della mia Jugoslavia». Il 25 giugno del 1991, data della proclamazione d' indipendenza di Slovenia e Croazia, era ricoverato in un ospedale sloveno. Kresimir Cosic, «il più grande giocatore di basket europeo di tutti i tempi » nel suo giudizio, era andato a trovarlo e aveva passato la notte nel lettino accanto a lui.

 

L' indomani, con un amico, si prese l' incarico di riportarlo in auto a Trieste. Incontrarono le prime barricate, passarono da fortunose strade secondarie sino al confine. Uno shock. Eppure l' ostinazione naif nel considerare la Bosnia al riparo. «Che sciocco che fui. Stavano preparando il conflitto da tempo. Durante le prime elezioni cosiddette democratiche, i tre leader Alija Izetbegovic, musulmano, Stjepan Kljuic, croato, e Radovan Karadzic, serbo, avevano promesso: mangerete con cucchiai d' oro». Per pudore non aggiunge di quale materia fossero fatti quei cucchiai metafora di benessere.

 

SARAJEVOSARAJEVO

Originario di un villaggio di montagna montenegrino, Pljevlja, Tanjevic si era inurbato da bambino a Sarajevo al seguito del padre militare, ufficiale della Jna, eleggendola da subito città dello spirito. «Fin dal primo giorno ero affascinato dalle grandi vetrine del centro, dalle librerie piene di volumi». Seguendo questo suo itinerario della memoria, passiamo davanti alla prima abitazione, ora proprietà del Vaticano, la scuola elementare con la facciata ancora bucherellata dalle pallottole e dalle granate, la seconda casa, il liceo, la biblioteca moresca ricostruita che gli strappa un ooh di meraviglia, i caffè del dolce ozio.

 

GIGI RIVAGIGI RIVA

Sul filo dei ricordi, emerge, prepotente, quello del trionfo in Coppa dei Campioni. «Non eravamo un Paese ricco. Il budget della squadra era di 300 mila marchi, diciamo un milione, massimo un milione e mezzo di oggi. Ma dietro c' era un sistema, sentivamo di farne parte, giocavamo non solo per la città, per lo Stato. Quando abbiamo vinto, abbiamo mandato un telegramma al presidente Tito.

 

Non abbiamo avuto l' onore della risposta. Io so, dal suo capo di gabinetto, il generale Bere Badurina mio vicino di casa, che avevano visto la partita insieme, avevano esultato. Badurina gli propose di mandarci un telegramma di risposta con le congratulazioni, ma il maresciallo disse di no, perché poco prima la Stella Rossa femminile aveva pure vinto la Coppa dei Campioni e non lo avevano fatto. Sarebbe suonata come una discriminazione. Tito aveva 87 anni, sarebbe morto un anno dopo. Da questo dettaglio si capisce come fosse rimasto lucido fino alla fine».

 

SARAJEVOSARAJEVO

La Jugoslavia è sopravvissuta al suo padre riconosciuto per dieci anni. Poi l' implosione. Lo sport usato dalla politica. Il basket stesso nell' occhio del ciclone quando sul podio più alto dei Mondiali del 1990, il serbo Vlade Divac strappò di mano a un tifoso la bandiera croata che stava sventolando, procurandosi il rancore dell' amico Drazen Petrovic. «Fu un episodio usato dai croati per fomentare le divisioni. Divac voleva solo significare che lì aveva vinto la Jugoslavia, non una sua parte. Penso avrebbe fatto la stessa cosa con una bandiera serba. E poi in Argentina ci sono gli eredi degli ustascia che scapparono in Sudamerica dopo la fine del regime, lo stesso Ante Pavelic andò laggiù. Benché più giovane di Petrovic, Divac era il leader carismatico di quella squadra, aveva imposto la sua leadership.

 

Era come Dino Meneghin che magari a tavola lasciava che fosse Premier a parlare ma era lui che contava. Esercitava uno charme silenzioso. Ci sono atleti che hanno quel dono».

Si torna all' assedio, alla sua assenza perdonata. «L' amore della gente ha giocato un ruolo.

Si è sparsa la voce che ho salvato mille persone. Cosa che non è vera. È vero soltanto che, a Trieste, dove mi trovavo, ho accolto tutti coloro che ne avevano bisogno, non solo di Sarajevo, anche di Zagabria o di Belgrado. Ho risolto problemi burocratici alla dogana, alloggiato molti amici, o amici degli amici, comprato vestiario per chi non ne aveva, borse grandi per chi scappava verso l' Australia o il Canada, e andava via per sempre, lungo una strada a senso unico».

SARAJEVO 1SARAJEVO 1

Venne il momento del ritorno. «Rimandavo. Provavo un senso di vergogna perché mi sentivo colpevole per non aver fatto nulla contro il disastro.

Ma nel 1997 la società Bosna mi chiamò per darmi un' onorificenza. Non potevo rifiutare. Accanto alla vergogna provai l' esaltazione di essere finalmente qui di nuovo. Scherzavo, raccontavo barzellette, condividevo l' ottimismo dei sopravvissuti».

 

Senza mai pensare di rifondarsi a Sarajevo? «No, non si torna sui propri passi, non si torna dove si è fatto bene. Non sento più nemmeno tanto amore per la Jugoslavia. Fa parte della psicologia dell' uomo, si chiama dolore dolce. Ci si ricorda di questo dolore per goderselo».

 

Molti fanno degli esercizi ipotetici. Si immaginano che esista ancora la Jugoslavia per concludere quanto forte potrebbe essere nel basket come nel calcio. «Non vorrei essere l' allenatore di una squadra simile. Con tutti i cestisti che oggi ci sono in Nba o in Europa dovrei fare delle scelte micidiali.

 

C' è stata una volta che le Repubbliche della ex Jugoslavia avevano sei formazioni alla finale dell' Europeo Però non è vero che uniti si potrebbe fare una formazione molto più forte. Tanti atleti hanno potuto emergere perché c' erano più posti disponibili, più possibilità di misurarsi nel contesto internazionale in partite che fanno crescere. Prendiamo Edin Dzeko. Non avrebbe mai potuto giocare nella Jugoslavia, non sarebbe entrato nella selezione, non avrebbe potuto diventare il campione che è oggi nella Roma».

DZEKODZEKO

 

Del resto una Jugoslavia è un periodo ipotetico dell' irrealtà. «Nel 1999, da campione d' Europa con la nazionale italiana, decisi con Dejan Bodiroga di organizzare una partita amichevole in ricordo di Kresimir Cosic, l' uomo che aveva portato il basket europeo nel futuro e che era morto prematuramente. Vennero tutti meno i croati Vrankovic, Kukoc, Radja, Komazec. Vrankovic sosteneva che quella mia invenzione era il tentativo di ricostruire la Jugoslavia... ».

 

 

Dunque Trieste resta il suo buen ritiro. «Pensare che a Trieste non ci sarei mai voluto andare ad abitare. Lì ci chiamavano "sciavi", schiavi. Anche se portavamo miliardi nei loro negozi. Ma proprio con la guerra ho vinto il pregiudizio, ho potuto apprezzare il grande cuore dei triestini». Ora allena il Montenegro. «Anche se avrei ancora l' energia di stare in palestra molto più di tanti colleghi giovani, per ora va bene così. Quattro mesi di lavoro e otto mesi per la famiglia che ho trascurato per tutta la vita. Il problema è che a Trieste non c' è gente che abbia tutto questo tempo libero. Mentre a Sarajevo ho la giornata strapiena di appuntamenti con gli amici, per perdere tempo nei locali a parlare di sport e di politica». Ha appena compiuto 70 anni. Metà vissuti in Jugoslavia, metà in Italia. Fa il pendolo tra le sue identità, spaccate in due come una mela.

TANJEVIC SARAJEVOTANJEVIC SARAJEVO

 

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