ARCHEO - OMAGGIO A ENNIO FLAIANO, "UN MARZIALE A ROMA"
Antonella Amendola per "Oggi"
Saccheggiato. Stracitato. Anche a sproposito. Strapazzato dai presentatori televisivi che vogliono darsi un tono. Addirittura precettato dall'arguto Costanzo, nel cui salotto mediatico fa la parte del convitato di pietra. A 30 anni dalla morte lo scrittore Ennio Flaiano è più che vivo, ubiquo e instancabile presenzialista. «Ma pochi lo conoscono veramente», protesta il giornalista e scrittore Giovanni Russo, che gli fu amico e che ha appena dato alle stampe "Oh, Flaiano" (Avagliano editore). «La flaianite di maniera, epidermico collage delle battute più fortunate, fa velo al grande autore satirico, al finissimo moralista».
S'incontrarono nella redazione del Mondo, in via Campo Marzio a Roma, nel 1949. Flaiano sedeva su uno sgabello girevole, davanti a un cavalletto dove stava disegnando il menabò del settimanale diretto da Mario Pannunzio (sapeva dipingere e da ragazzo voleva laurearsi in architettura). «La prima cosa che devi fare è toglierti questi occhialetti d'oro perché sembri un democristiano», disse Flaiano al giovane Russo, arrivato fresco fresco da Potenza nel cenacolo dei laici. «Mi adeguai», ricorda Giovanni. «Lui era il redattore capo, esigentissimo. Come del resto Pannunzio. Ci dicevano che dovevamo scrivere come Flaubert, raccontare la realtà con uno stile curato, letterario. Senza però tradire il nostro ruolo di testimoni eticamente obiettivi. Quando gli portai l'articolo sull'Anno Santo mi disse una cosa terribile: "Esiste un crinale stretto tra Il Mondo e Il Momento sera. Tu l'hai superato"». Il neofita si piegò, masticando amaro, alla riscrittura. Del resto, aveva già scoperto l'assioma fondamentale del suo redattore capo: «Gli articoli migliorano con i tagli, se a tagliare sono io».
Nelle vesti di severo maestro di giornalismo, obbligato a un orario redazionale, Flaiano, non si sa come, miracolosamente, riuscì a resistere circa 3 anni. «Mi spezzo ma non m'impiego» era infatti il motto di questo talento individualista, malinconico e pigro che Leo Longanesi aveva spinto a scrivere un romanzo, Tempo di uccidere, dedicato alla guerra d'Etiopia, vincitore nel '47 del primo premio Strega. Fu il solo scritto dal passo lungo di un autore che ha dato il meglio di sé nello sprint dell'aforisma, del racconto breve, del serrato dialogo teatrale. «Quando Longanesi chiese ad Ennio di ripetere il successo iniziale con altri due titoli egli inizialmente non seppe dire di no», è la testimonianza della moglie Rosetta, ancora oggi, a 90 anni, custode attenta e lucida di tante memorie.
«Aveva troppa stima di Longanesi per respingere le sue avances. Ma poi si tirò indietro, scappò». Lo spaventava l'idea di dover lavorare tanto, lo respingeva quel sospetto di narcisistica autosufficienza intellettuale che c'è sempre in un romanzo. Nutrito dal dubbio, frenato dall' autocritica, non sapeva come sottrarsi alle pressioni di Longanesi, che gli scriveva lettere, lo minacciava, veniva a braccarlo a Roma. Flaiano arrivò a pregare un comune amico di recarsi a Milano, nell'ufficio del potente giornalista editore, e di buttar là una frase con noncuranza: «Lo sai chi è morto? Flaiano. Poveraccio, un colpo improvviso...»
Era nato a Pescara, nel 1910, figlio tardivo di una coppia ormai logorata dai dissapori, aveva sperimentato la solitudine dell'educazione in collegio, il palliativo protettivo di una quasi famiglia adottiva assai modesta. La vita gli fu matrigna, perché, nonostante il saldo rapporto con Rosetta Rota, brillante studiosa di matematica, soffrì indicibilmente per l'handicap mentale dell'unica figlia Luisa, minata dall'encefalite. «Flaiano», notò Manganelli, «da bravo miniaturista è attento a quel dolore portatile che può accompagnare una vita, che non è incompatibile col riso, con la noia, con la morte». A Roma, nella vetrina insidiosa e fascinosa di quegli anni ruggenti, che seppe raccontare come insostituibile sceneggiatore della Dolce vita, il capolavoro felliniano, offre il meglio del suo acume di scrittore di costume e del suo graffio satirico. Alla capitale lo lega un rapporto di odio amore, come fu per Orazio, per Giovenale, per Marziale; tra il Pincio, Piazza del Popolo e i caffé di via Veneto ambienta la sua pièce teatrale più celebre, "Un marziano a Roma", storia di un alieno, dapprima venerato come un messia e poi finito a vivere di espedienti nel sottobosco. «Il più interessante insuccesso degli anni Sessanta», pontificò, caustico, l'autore, dopo che la prima al Lirico di Milano, con Gassman ossigenato dal parrucchiere della Callas, si risolse in un fiasco.
«La sua Roma», annuncia l'autrice teatrale Gianna Volpi, «torna a celebrarlo con uno spettacolo di cui ogni battuta è tratta dai suoi testi. Lo rivedremo seduto al caffé, ironico e un po' nostalgico, sferzare la spocchia di certi intellettuali modaioli, scherzare sulla toponomastica, tener botta al giovanilismo aggressivo, rispondere a un'intervista per le rime, alzare il vessillo dell'ecologia e della poesia per la luna inquinata dalle missioni spaziali». Forse col tempo, conoscendoci peggio... (dal 16 gennaio al Teatro Flaiano, telefono 06-6796496), per la regia di Rossana Patrizia Siclari, è una sorta di carosello comico amaro tratto da quella miniera inesauribile che sono gli scritti postumi, in particolare Il cavastivale, La valigia delle Indie, Diario degli errori, La solitudine del satiro,
L'occhiale indiscreto, testi che sembrano un'unica sorprendente performance, l'approdo di un teatro puramente mentale.
Flaiano, il «cinghialotto», come lo chiamava Fellini. Tanti capelli neri e un mezzo sigaro toscano fra le labbra. Seduto al Caffé Greco, o da Doney, o alla Fiaschetteria Beltramme, in via della Croce, a tirar tardi con gli amici intellettuali, pittori, poeti, giornalisti come Vincenzo Cardarelli, Mino Maccari, Ercole Patti, Sandro De Feo, Vitaliano Brancati, Carlo Mazzarella, Vincenzo Talarico, Amerigo Bartoli, Marino Mazzacurati.
«Un pugno d'uomini indecisi a tutto», registrava il pittore Maccari, anche illustratore del Mondo. Fu lui l'amico più caro di Ennio, insieme combinavano scherzi feroci. Una volta scrissero una lettera anonima a un conoscente che aveva una moglie bruttissima: «In guardia. Vostra moglie non vi tradisce. Un amico fidato».
Per ognuno degli amici che condividevano l'osservatorio romano Flajano usava un soprannome. Vincenzo Cardarelli era il più grande poeta morente, perché portava sempre il cappotto anche d'inverno, Maccari il supercortomaggiore, per l'esigua altezza, Moravia l'amaro Gambarotta, per la zoppia, Alberto Savinio il brutto addormentato nel basco, per il berretto, Guttuso il Picazzo delle contesse, perché s'ispirava a Picasso e amoreggiava con nobildonne.
«Aveva chiamato l'onorevole Lupis, che ogni tanto si affacciava alla redazione del Mondo, l'abominevole uomo delle nevi, perchè era veramente orrendo», ricorda Giovanni Russo. «Non amava frequentare i politici, neanche quelli più vicini al giornale, come La Malfa. Era un vero liberal, antifascista e anticomunista. Una volta che il gruppo del giornale fu invitato a pranzo al Quirinale dal presidente Einaudi accadde un curioso episodio. Un maggiordomo bolso e grosso, che sembrava Hitchcock, servì un vassoio di enormi pere. Il presidente chiese ai coomensali se qualcuno volesse dividere un frutto con lui. Flaiano accettò e, finito il settenato di Einaudi, scrisse che era ormai cominciata la repubblica delle pere indivise».
A Russo, diventato prestigioso inviato del Corriere della Sera Flaiano dedicò uno spassoso epigramma:
La poesiola fece il giro del mondo, si fa per dire, tanto che Russo per un intervista allo Scià di Persia fu accolto a Teheran con le parole: alle cinque della sera...
Come ha fatto il giro del mondo colto la storia del litigio di Fellini e Flaiano su cui ancora intervengono a vario titolo, per puntualizzare, intellettuali di ogni calibro (ultimo in ordine di tempo, favorevole a Fellini, Tullio Kezich).
Flaiano, che aveva sceneggiato per il maestro riminese Lo sceicco bianco, Le notti di Cabiria, I vitelloni, La strada, La dolce vita, Otto e mezzo, si sentiva ridotto a semplice portatore d'acqua del genio accentratore, poco rispettato, persino derubato.
«Mi ha trattato come fossi una bottiglia di Coca Cola, lui tira dalla cannuccia e aspira» scrisse Flaiano, amareggiato.
Dopo il viaggio in America per l'Oscar a "Otto e mezzo" ruppero perché lo scrittore viaggiò in classe turistica e il regista in business. Flaiano se ne adombrò e a nulla valsero le scuse di Fellini che attribuì al produttore la gaffe.
«Flaiano era un uomo che capiva tutto e non approvava niente» sentenziò Cesare Zavattini. Era un solitario, melanconico e ombroso, un abbruzzese con un grande senso del decoro, un intellettuale veramente libero. All'ultimo intervistatore che venne a trovarlo, quando era già infartuato, e che celiava: « Maestro, che sta scrivendo ?», rispose: «Sto rivedendo la mia lapide».
Sosteneva Hofmannsthal che la profondità va accuratamente nascosta alla superficie. Flaiano, facendo suo il suggerimento, cela nel brillio estemporaneo, epidermico delle fuggevoli battute un tesoro di pensiero critico. «Ci resta il dubbio», annotò, già malato, in uno dei suoi tanti foglietti volanti, «di essere soltanto una muffa spontanea del pianeta terra».
FLAIANITE
Sono troppo serio per essere un dilettante, ma non abbastanza per essere un professionista.
L'insuccesso mi ha dato alla testa.
Non posso prendere impegni superiori alle mie debolezze.
È afflitto da un complesso di parità, non si sente inferiore a nessuno.
Alla morte ogni fesso ci arriva.
Si arriva a una certa età nella vita e ci si accorge che i momenti migliori li abbiamo avuti per sbaglio. Non erano diretti a noi.
La vecchiaia è una realtà che deve esserti comunicata, da solo non si riesce mai a intenderla.
Quando la vanità si placa, l'uomo è pronto per morire e comincia a pensarci.
La serietà è apprezzabile soltanto nei fanciulli. Negli uomini saggi è il riflesso della rinuncia.
Condannato alla pena di vivere. La grazia respinta.
Chi rinuncia al sogno si masturba con la realtà.
Conosci te stesso. Dopodiché non ti sarà più possibile vivere insieme con te stesso.
L'avarizia è la forma più sensuale di castità.
La prostituzione ci interessa perché è la nostra condizione. Il delitto perché è la nostra aspirazione.
Gli uomini cambiano. Da spietati diventano ragionevoli proprio quando la ragione li ha abbandonati.
Il prossimo è troppo occupato coi propri delitti per accorgersi dei nostri.
La vita di società ha questo di buffo, che ognuno crede di recitarvi la parte principale.
A 20 anni si tenta la poesia. A 50 si pensa che bisogna insistere.
Oggi anche gli ultimi imbecilli impiegano il tempo libero.
Uno scrittore professionista fa ribrezzo, perché tutto quello che mangia lo trasforma in carta.
Chi apre un periodo lo chiuda.
Leggere è niente, il difficile è dimenticare ciò che si è letto.
Il mio gatto fa quello che io vorrei fare con meno letteratura.
Il peggio che può capitare a un genio è di essere compreso.
Oggi il cretino è specializzato.
Chi mi ama mi preceda.
In amore gli scritti volano e le parole restano.
Non è il matrimonio la tomba dell'amore, ma è l'amore la tomba del matrimonio.
Gli uomini credono di sposare la propria fidanzata, poi si accorgono di aver sposato la moglie.
Chi non lascia la moglie oggigiorno? Soltanto quelli che ne hanno due.
Il traffico ha reso impossibile l'adulterio nelle ore di punta.
In amore bisogna essere senza scrupoli, non rispettare nessuno. All'occorrenza essere capaci di andare a letto con la propria moglie.
L'unico modo di trattare una donna alla pari è di desiderarla come uomo.
Se temete la solitudine non sposatevi.
Se non si è di sinistra a 20 anni e di destra a 50, non si è capito nulla della vita.
Io comunista? Non posso permettermelo. Non ho i mezzi.
Lei è comunista, io aristocratico, tutte e due odiamo il popolo: la differenza è che lei riesce a farlo lavorare.
L'italiano ha un solo vero nemico: l'arbitro delle partite di calcio, perché emette un giudizio.
L'italiano è mosso da un bisogno sfrenato d'ingiustizia.
In Italia non esiste la verità. La linea più breve tra due punti è l'arabesco. Viviamo in una rete di arabeschi.
Gli italiani corrono sempre in soccorso del vincitore.
Fra 30 anni l'Italia sarà non come l'avranno fatta i governi, ma come l'avrà fatta la televisione.
Può darsi che mi abbia creato Dio. Ma Dio ha creato anche il ministro Mattarella e il ministro Andreotti, e questo spegne un poco il mio entusiamo.
Se avessi ancora mezzora di vita, la impiegherei a credere almeno nell'immortalità dell'anima.
Dagospia.com 21 Gennaio 2002
Saccheggiato. Stracitato. Anche a sproposito. Strapazzato dai presentatori televisivi che vogliono darsi un tono. Addirittura precettato dall'arguto Costanzo, nel cui salotto mediatico fa la parte del convitato di pietra. A 30 anni dalla morte lo scrittore Ennio Flaiano è più che vivo, ubiquo e instancabile presenzialista. «Ma pochi lo conoscono veramente», protesta il giornalista e scrittore Giovanni Russo, che gli fu amico e che ha appena dato alle stampe "Oh, Flaiano" (Avagliano editore). «La flaianite di maniera, epidermico collage delle battute più fortunate, fa velo al grande autore satirico, al finissimo moralista».
S'incontrarono nella redazione del Mondo, in via Campo Marzio a Roma, nel 1949. Flaiano sedeva su uno sgabello girevole, davanti a un cavalletto dove stava disegnando il menabò del settimanale diretto da Mario Pannunzio (sapeva dipingere e da ragazzo voleva laurearsi in architettura). «La prima cosa che devi fare è toglierti questi occhialetti d'oro perché sembri un democristiano», disse Flaiano al giovane Russo, arrivato fresco fresco da Potenza nel cenacolo dei laici. «Mi adeguai», ricorda Giovanni. «Lui era il redattore capo, esigentissimo. Come del resto Pannunzio. Ci dicevano che dovevamo scrivere come Flaubert, raccontare la realtà con uno stile curato, letterario. Senza però tradire il nostro ruolo di testimoni eticamente obiettivi. Quando gli portai l'articolo sull'Anno Santo mi disse una cosa terribile: "Esiste un crinale stretto tra Il Mondo e Il Momento sera. Tu l'hai superato"». Il neofita si piegò, masticando amaro, alla riscrittura. Del resto, aveva già scoperto l'assioma fondamentale del suo redattore capo: «Gli articoli migliorano con i tagli, se a tagliare sono io».
(Ennio Flaiano e una giovane Sophia Loren)
Nelle vesti di severo maestro di giornalismo, obbligato a un orario redazionale, Flaiano, non si sa come, miracolosamente, riuscì a resistere circa 3 anni. «Mi spezzo ma non m'impiego» era infatti il motto di questo talento individualista, malinconico e pigro che Leo Longanesi aveva spinto a scrivere un romanzo, Tempo di uccidere, dedicato alla guerra d'Etiopia, vincitore nel '47 del primo premio Strega. Fu il solo scritto dal passo lungo di un autore che ha dato il meglio di sé nello sprint dell'aforisma, del racconto breve, del serrato dialogo teatrale. «Quando Longanesi chiese ad Ennio di ripetere il successo iniziale con altri due titoli egli inizialmente non seppe dire di no», è la testimonianza della moglie Rosetta, ancora oggi, a 90 anni, custode attenta e lucida di tante memorie.
«Aveva troppa stima di Longanesi per respingere le sue avances. Ma poi si tirò indietro, scappò». Lo spaventava l'idea di dover lavorare tanto, lo respingeva quel sospetto di narcisistica autosufficienza intellettuale che c'è sempre in un romanzo. Nutrito dal dubbio, frenato dall' autocritica, non sapeva come sottrarsi alle pressioni di Longanesi, che gli scriveva lettere, lo minacciava, veniva a braccarlo a Roma. Flaiano arrivò a pregare un comune amico di recarsi a Milano, nell'ufficio del potente giornalista editore, e di buttar là una frase con noncuranza: «Lo sai chi è morto? Flaiano. Poveraccio, un colpo improvviso...»
Era nato a Pescara, nel 1910, figlio tardivo di una coppia ormai logorata dai dissapori, aveva sperimentato la solitudine dell'educazione in collegio, il palliativo protettivo di una quasi famiglia adottiva assai modesta. La vita gli fu matrigna, perché, nonostante il saldo rapporto con Rosetta Rota, brillante studiosa di matematica, soffrì indicibilmente per l'handicap mentale dell'unica figlia Luisa, minata dall'encefalite. «Flaiano», notò Manganelli, «da bravo miniaturista è attento a quel dolore portatile che può accompagnare una vita, che non è incompatibile col riso, con la noia, con la morte». A Roma, nella vetrina insidiosa e fascinosa di quegli anni ruggenti, che seppe raccontare come insostituibile sceneggiatore della Dolce vita, il capolavoro felliniano, offre il meglio del suo acume di scrittore di costume e del suo graffio satirico. Alla capitale lo lega un rapporto di odio amore, come fu per Orazio, per Giovenale, per Marziale; tra il Pincio, Piazza del Popolo e i caffé di via Veneto ambienta la sua pièce teatrale più celebre, "Un marziano a Roma", storia di un alieno, dapprima venerato come un messia e poi finito a vivere di espedienti nel sottobosco. «Il più interessante insuccesso degli anni Sessanta», pontificò, caustico, l'autore, dopo che la prima al Lirico di Milano, con Gassman ossigenato dal parrucchiere della Callas, si risolse in un fiasco.
«La sua Roma», annuncia l'autrice teatrale Gianna Volpi, «torna a celebrarlo con uno spettacolo di cui ogni battuta è tratta dai suoi testi. Lo rivedremo seduto al caffé, ironico e un po' nostalgico, sferzare la spocchia di certi intellettuali modaioli, scherzare sulla toponomastica, tener botta al giovanilismo aggressivo, rispondere a un'intervista per le rime, alzare il vessillo dell'ecologia e della poesia per la luna inquinata dalle missioni spaziali». Forse col tempo, conoscendoci peggio... (dal 16 gennaio al Teatro Flaiano, telefono 06-6796496), per la regia di Rossana Patrizia Siclari, è una sorta di carosello comico amaro tratto da quella miniera inesauribile che sono gli scritti postumi, in particolare Il cavastivale, La valigia delle Indie, Diario degli errori, La solitudine del satiro,
L'occhiale indiscreto, testi che sembrano un'unica sorprendente performance, l'approdo di un teatro puramente mentale.
Flaiano, il «cinghialotto», come lo chiamava Fellini. Tanti capelli neri e un mezzo sigaro toscano fra le labbra. Seduto al Caffé Greco, o da Doney, o alla Fiaschetteria Beltramme, in via della Croce, a tirar tardi con gli amici intellettuali, pittori, poeti, giornalisti come Vincenzo Cardarelli, Mino Maccari, Ercole Patti, Sandro De Feo, Vitaliano Brancati, Carlo Mazzarella, Vincenzo Talarico, Amerigo Bartoli, Marino Mazzacurati.
«Un pugno d'uomini indecisi a tutto», registrava il pittore Maccari, anche illustratore del Mondo. Fu lui l'amico più caro di Ennio, insieme combinavano scherzi feroci. Una volta scrissero una lettera anonima a un conoscente che aveva una moglie bruttissima: «In guardia. Vostra moglie non vi tradisce. Un amico fidato».
Per ognuno degli amici che condividevano l'osservatorio romano Flajano usava un soprannome. Vincenzo Cardarelli era il più grande poeta morente, perché portava sempre il cappotto anche d'inverno, Maccari il supercortomaggiore, per l'esigua altezza, Moravia l'amaro Gambarotta, per la zoppia, Alberto Savinio il brutto addormentato nel basco, per il berretto, Guttuso il Picazzo delle contesse, perché s'ispirava a Picasso e amoreggiava con nobildonne.
«Aveva chiamato l'onorevole Lupis, che ogni tanto si affacciava alla redazione del Mondo, l'abominevole uomo delle nevi, perchè era veramente orrendo», ricorda Giovanni Russo. «Non amava frequentare i politici, neanche quelli più vicini al giornale, come La Malfa. Era un vero liberal, antifascista e anticomunista. Una volta che il gruppo del giornale fu invitato a pranzo al Quirinale dal presidente Einaudi accadde un curioso episodio. Un maggiordomo bolso e grosso, che sembrava Hitchcock, servì un vassoio di enormi pere. Il presidente chiese ai coomensali se qualcuno volesse dividere un frutto con lui. Flaiano accettò e, finito il settenato di Einaudi, scrisse che era ormai cominciata la repubblica delle pere indivise».
A Russo, diventato prestigioso inviato del Corriere della Sera Flaiano dedicò uno spassoso epigramma:
Alle cinque della sera
sulla piazza di Matera
da una milleccento lusso
scende Giovannino Russo
redattore viaggiante del Corriere della Sera
Coro di contadini:
«Che successo! Che carriera!».
sulla piazza di Matera
da una milleccento lusso
scende Giovannino Russo
redattore viaggiante del Corriere della Sera
Coro di contadini:
«Che successo! Che carriera!».
La poesiola fece il giro del mondo, si fa per dire, tanto che Russo per un intervista allo Scià di Persia fu accolto a Teheran con le parole: alle cinque della sera...
Come ha fatto il giro del mondo colto la storia del litigio di Fellini e Flaiano su cui ancora intervengono a vario titolo, per puntualizzare, intellettuali di ogni calibro (ultimo in ordine di tempo, favorevole a Fellini, Tullio Kezich).
Flaiano, che aveva sceneggiato per il maestro riminese Lo sceicco bianco, Le notti di Cabiria, I vitelloni, La strada, La dolce vita, Otto e mezzo, si sentiva ridotto a semplice portatore d'acqua del genio accentratore, poco rispettato, persino derubato.
«Mi ha trattato come fossi una bottiglia di Coca Cola, lui tira dalla cannuccia e aspira» scrisse Flaiano, amareggiato.
Dopo il viaggio in America per l'Oscar a "Otto e mezzo" ruppero perché lo scrittore viaggiò in classe turistica e il regista in business. Flaiano se ne adombrò e a nulla valsero le scuse di Fellini che attribuì al produttore la gaffe.
«Flaiano era un uomo che capiva tutto e non approvava niente» sentenziò Cesare Zavattini. Era un solitario, melanconico e ombroso, un abbruzzese con un grande senso del decoro, un intellettuale veramente libero. All'ultimo intervistatore che venne a trovarlo, quando era già infartuato, e che celiava: « Maestro, che sta scrivendo ?», rispose: «Sto rivedendo la mia lapide».
(Cesare Zavattini)
Sosteneva Hofmannsthal che la profondità va accuratamente nascosta alla superficie. Flaiano, facendo suo il suggerimento, cela nel brillio estemporaneo, epidermico delle fuggevoli battute un tesoro di pensiero critico. «Ci resta il dubbio», annotò, già malato, in uno dei suoi tanti foglietti volanti, «di essere soltanto una muffa spontanea del pianeta terra».
FLAIANITE
Dagospia.com 21 Gennaio 2002