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CLIC! MCCURRY, IL NOSTRO AGENTE A L’AVANA - ANZIANI, AUTO D’EPOCA, ARCHITETTURE, LE “FOTO-SKETCH” DI CUBA DEL GRANDE STEVE MCCURRY: “IN CERTI MOMENTI SEMBRA DI ESSERE NEGLI ANNI ‘50 - MANCA LA CUBA POLITICA? NON SONO ANDATO A FARE UN LAVORO GIORNALISTICO''

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Alberto Flores d’Arcais per “la Repubblica”

 

«Sono andato a Cuba senza un obiettivo preciso, sono stato in giro per strade e stradine, ho passeggiato molto, ho fotografato le cose che più mi ispiravano. Queste foto nascono così, nel più semplice dei modi».

 

Steve Mc-Curry sorseggia il suo caffè, si scusa per la location ( «Le avrei mostrato volentieri il mio studio a Queens, ma oggi non era proprio possibile ») e guarda con curiosità dalla grande finestra del coffee shop quella fila interminabile di gente che a passo svelto affolla Columbus Circle.

 

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Guarda, sorride e riflette: «Ecco, una cosa simile a quella che ho fatto all’Avana la potrei fare anche qui, nel cuore dell’Upper West Side e della democrazia americana. E farei lo stesso anche a Roma, perché l’ispirazione non ha confini».

 

McCurry è uno dei più grandi fotografi contemporanei (la sua Ragazza afgana, immortalata in una copertina del National Geographic del 1985, è diventata un’icona globale), con alle spalle quarant’anni e più di una carriera che lo ha portato in ogni angolo del mondo, tra guerre e conflitti civili, culture e religioni, volti e luoghi fissati per sempre dalla sua macchina. Cuba è il suo ultimo progetto.

 

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Come è nata l’idea?

«Ho sempre pensato a Cuba come a un posto affascinante, un luogo dove puoi ritrovarti quasi per magia nel passato. Nel 2010 mi sono deciso e ci ho messo piede per la prima volta. Poi, negli anni seguenti ci sono tornato altre tre volte. Ma non avevo nessun progetto: solo quello di andarmene in giro, di osservare e semmai di fotografare».

 

E lo ha ritrovato il passato?

«Sì, ci sono davvero cose che sembrano ancora ferme al 1959, l’anno in cui Castro prese il potere. Penso ovviamente all’architettura, alle auto d’epoca, al modo in cui la gente si comporta, persino a come cammina, in certi momenti sembra veramente di essere negli anni Cinquanta».

 

E la Cuba di oggi?

«Le cose stanno cambiando rapidamente, sono cambiate anche tra la mia prima e ultima visita, a soli pochi anni di distanza. Hanno adottato una versione molto particolare di socialismo, un buon sistema sanitario e scolastico, ma un controllo rigido. Non è facile avere internet, ci sono pochi cellulari. Però i cubani hanno anche una loro cultura, che è molto ricca, penso alla musica, alla pittura, alla letteratura.

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Forse la cosa che la rende unica è proprio questo suo rapporto costante con il passato. I suoi antichi legami coloniali con la Spagna, l’amore- odio con gli Stati Uniti, il lungo periodo filosovietico. È una piccola nazione che ha giocato un ruolo da protagonista nel grande palcoscenico del mondo. In genere di paesi piccoli come Cuba non si sente mai parlare».

 

Ha avuto problemi in quanto americano?

«Nessun problema, sono stati sempre tutti molto amichevoli. Anzi, mi pare di aver capito che il problema vero in tutta questa storia non sono i cubani, ma i cubani-americani, quelli che sono fuggiti, quelli della Florida che si sentono ancora in guerra contro Castro.

 

A Cuba amano la cultura americana, amano la nostra musica. Il vero nemico, semmai, è stato il governo degli Stati Uniti. Del resto credo che se fossi cubano anche io non apprezzerai affatto l’embargo».

 

E con l’assenza di democrazia, come la mettiamo?

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«Non c’è, tutto vero. Però abbiamo come alleati altri cento paesi in cui la democrazia non esiste eppure in quei casi non ce ne preoccupiamo. Perché? Perché è più importante il loro peso economico, il fatto che possono esserci politicamente utili come alleati. No, quello contro Cuba è un game ed è durato anche troppo a lungo».

 

Nelle sue foto cubane, le vediamo in queste pagine, manca la Cuba “politica”. Ha ritratto anziani, ragazzi, auto d’epoca, architetture di un tempo lontano. E solo all’Avana. Una scelta precisa?

«Non sono andato a Cuba per fare un lavoro giornalistico. Quello che ho fatto è stato davvero passeggiare qua e là per L’Avana, senza una meta precisa, la maggior parte del tempo a piedi. In realtà sono stato anche a Trinidad, ma effettivamente le foto sono quasi tutte della capitale.

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Per settimane ho fissato quello che trovavo più affascinante, non avevo intenzione di mostrare la società cubana. Ho fatto foto che definisco sketch, disegni, o forse poesie, seguendo le sensazioni che avevo camminando. Non mi interessava affatto poter dire: ecco questa è Cuba».

 

Un approccio molto diverso da quello tenuto nel corso dei conflitti che ha illustrato in passato...

«In paesi come l’Afghanistan attraverso le immagini raccontavo storie, cercavo di mostrare qualcosa di immediato, di reale. Se vai a fare foto per un magazine o per un quotidiano ti chiedono di raccontare la società, l’economia, lo sport, la politica, le cose che rappresentano tutto lo spettro di vita di un paese. È un lavoro più simile a quello del documentarista. A Cuba non avevo vincoli, se vedevo qualcosa che mi intrigava, che colpiva il mio occhio, la mia immaginazione, scattavo».

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Nelle sue foto il colore è un elemento decisivo. Avrebbero lo stesso impatto in bianco e nero?

«Per me usare il colore è una questione di logica, perché la realtà, il mondo, sono a colori. Ci sono immagini, penso alle foto scattate in Asia durante feste buddiste e induiste, dove il colore è parte essenziale del racconto. Ma naturalmente in bianco e nero si possono fare foto straordinarie, basti pensare a Henri Cartier-Bresson».

 

Dopo oltre quattro decenni di fotografie di ogni genere come si autodefinisce? Fotografo, fotoreporter, artista?

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«C’è una frase gergale in America, che dice “camminare e insieme masticare un chewing-gum”. Tu puoi fare un giorno un reportage e il giorno dopo dei ritratti, puoi creare un determinato tipo di cose e in un altro periodo della vita fare cose totalmente diverse. È quello che accade in letteratura, nel cinema, nella pittura, e può essere riassunto in una parola sola: creatività. Penso che un fotografo nell’arco della vita sia in grado di documentare, ma anche di interpretare. Di avere una visione personale e in qualche modo, sì, artistica».

 

La “Afghan Girl” è la sua foto più famosa. È la più bella o solo quella scattata nel posto giusto al momento giusto?

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«Non posso dire sia la più bella in assoluto, di nessuna foto darei questa definizione. Certamente è stata quella scattata al momento giusto, ma soprattutto con la giusta luce e anche la giusta emozione».

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