1. DA PIROMANE A POMPIERE, DA MANGIAPRETI ALLA COMUNIONE, DA PEPPONE A DON CAMILLO, BENIGNI PENSIONA IL CARDINALE RAVASI: ‘’NOI STASERA DOBBIAMO CREDERE IN DIO’’ 2. ED E’ SUBITO BOOM! 33,23 DI SHARE PER 9 MILIONI 104 MILA FEDELI PER I “10 COMANDAMENTI” 3. L’ESTASI DI BENIGNI: “MA C’È QUALCOSA DI PIÙ BELLO?”. “MA NON È MERAVIGLIOSO?”. “MA SENTITE QUANTA LUCE ESCE DA QUESTE PAROLE?”. “SAREMO SPERSI NEL SOGNO DI DIO” 4. LA METAMORFOSI: NEL 1983, IN “TUTTOBENIGNI”, 32 ANNI FA, ROBERTACCIO ERA CAPELLONE E IRRIVERENTE E DICEVA A DIO CHE I SETTE VIZI CAPITALI CE LI AVEVA TUTTI E SETTE, PERFINO LA LUSSURIA PERCHÉ “SIAMO TUTTI FIGLI DI DIO”, E ANCHE L’IRA, CON TUTTE LE SCENATE PER UNA MELA, E L’AVARIZIA, “PERCHÉ SAPPIAMO CHI È IL SUO POPOLO ELETTO”). ADESSO INVECE È TUTTO BELLISSIMO, TUTTO MERAVIGLIOSO (LA COSTITUZIONE PIÙ BELLA DEL MONDO, LA DIVINA COMMEDIA, L’INNO DI MAMELI, I DIECI COMANDAMENTI)

1. BENIGNI, SHOW TV SUI COMANDAMENTI CON IRONIE SU MAFIA CAPITALE - LA METAMORFOSI DEL PREMIO OSCAR: “STASERA CREDIAMO IN DIO”

Mattia Feltri per “La Stampa

 

roberto benigni i 10 comandamenti 9roberto benigni i 10 comandamenti 9

Infinito Roberto, facci il saltino. Fatto. Anzi, rifatto, e rifatto tutto, lo sguardo estasiato per gioia e stupore, i medesimi riservati alla Costituzione «più bella del mondo», alla Divina commedia e all’inno scritto da Goffredo Mameli ventenne col cuore gonfio – come ce l’ha Roberto – per l’amore che mosse i mangiapreti del Risorgimento, le terzine di Dante Alighieri, quel conclave di sommo laicismo che fu l’assemblea costituente; e rifatto il catalogo degli aggettivi irresistibili, dei superlativi annunciati in prologo, l’elenco delle domande retoriche e consolanti.

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«Ma c’è qualcosa di più bello?». «Ma non è meraviglioso?». «Ma sentite quanta luce esce da queste parole?». Rifatto l’ammicco al pubblico, inaugurato sotto la gonna di Raffaella Carrà: «Vi leccherei tutti». Rifatto l’umorismo di cronaca sui permessi ottenuti dalla Banda della Magliana, e le luminarie natalizie diventate blu sulle auto della polizia.

 

Rifatta l’espressione epifanica dell’uomo che dice di essere cresciuto, ed è giusto così: non è più il ragazzaccio di un tempo, non è più lo scamiciato che dal palco mimava gli schiaffetti che avrebbe mollato a «Wojtilaccio» – così troppo anticomunista - che in Tuttobenigni del 1983 vedeva nei Dieci comandamenti il codice del «coprifuoco e della dittatura», e nel Creatore il portatore insano dei Sette vizi capitali, a cominciare dalla superbia: uno si chiamava Buddha, quell’altro Allah e soltanto lui si chiamava Dio, «che se si chiamava Guido era pure più simpatico».

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Si cambia – se Dio vuole – e il Benigni della maturità va in un crescendo estatico, riconosce i capolavori della terra e del cielo, a cominciare dai testi sacri e dalla legge di Javhé che fa bene all’anima e al corpo – dice – e ha a che fare con il passato, con il futuro, con la vita attuale e con la vita eterna.  

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E dunque evviva Roberto. «Noi stasera dobbiamo credere in Dio», non ci sono storie, un Dio molto attuale, interpretato benignamente come il sommo nemico del sommo peccato – non rubare – in un irresistibile passaggio al peccato di taschetta, dal peccato di braghetta, che trenta e quaranta anni fa era il peccato infamante di tutto un mondo che Benigni spernacchiava, lui così Peppone; e oggi - evviva il tempo che ci porta lungo i suoi tortuosi tornanti – meno uomo di mondo di don Camillo.

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«Saremo spersi nel sogno di Dio», dice, e come si fa a non essere trascinati da quest’uomo in perenne saliscendi fra l’infanzia e la saggezza, capace di non steccare mai da dantista, da costituzionalista, da storico, da filologo di tutte le epoche, infine teologo in prima serata alle prese con Sant’Agostino, ossia divulgatore sfericamente perfetto di ogni parola scolpita nella pietra, e dunque incontrovertibile per editto.

 

Si comincia da Adamo ed Eva – e dimenticate quell’irresistibile monello che immaginava Caino invaghito di Abele poiché il suo nome finiva per «o» come quello del padre, e Abele finiva per «e», quasi quasi come mamma, e quando Caino si ritrovò all’Inferno, al cospetto di Satana (Satana-a), gli si illuminò un concupiscente sguardo – e si comincia da Mosè, che udì la voce del Padreterno: «Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio al di fuori di me…».

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Ecco l’intero l’Esodo, il faraone, gli ebrei vessati, pare di rivedere le illustrazioni dei libri di bambini, e le rivede anche Benigni che da piccino avrebbe tanto desiderato essere Mosè, il prescelto da Dio. Sono le vette della storia dell’umanità, dice, e si dovrà dire che sono le vette della storia della tv, in una serata in cui Benigni è stato il Mosè moderno: il punto d’incontro tra la parola di Dio e il dopocena.

 

2. SCOMANDAMENTI

Annalena Benini per “il Foglio

 

roberto benigni i 10 comandamenti 5roberto benigni i 10 comandamenti 5

In un fantastico monologo di vent’anni fa, Roberto Benigni faceva Dio che si arrabbiava con Mosè e con Pietro per come avevano scritto i Dieci Comandamenti (lui ne aveva dettati nove): “Dieci: non desiderare la donna d’altri? Ma avete qualche problema con le donne? Ma che razza di comandamento è? E’ come fare un comandamento solo per una categoria, solo per gli elettricisti: non rubare le lampadine da cento watt. Qui avete fatto un casino”.

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Dio/Benigni si infuriava, diceva che a leggere la Bibbia c’era da diventare buddisti, che Mosè era sordo e non aveva capito niente, e intanto Noè era pieno di acciacchi per via del diluvio e per aver dovuto controllare il sesso dei bisonti e delle formiche, e perché sull’arca “trombavano tutti” tranne lui, che camminava tutto il tempo rasente la nave.

 

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Non era una lezione dall’alto, anche se c’era moltissimo da imparare, era un divertimento, e la Bibbia era “quel best seller” pasticciato dai santi, a Dio scappavano le parolacce contro Eva: ne venivano fuori un’umanità e perfino una divinità alla nostra altezza, così così ma sorprendente (nel 1983, in “TuttoBenigni”, trentadue anni fa, Benigni era capellone e irriverente e diceva a Dio che i sette vizi capitali ce li aveva tutti e sette, perfino la lussuria perché “siamo tutti figli di Dio”, e anche l’ira, con tutte le scenate per una mela renetta, e l’avarizia, “perché sappiamo chi è il suo popolo eletto”).

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Adesso che invece è tutto bellissimo, tutto meraviglioso (la Costituzione più bella del mondo, la Divina Commedia, l’inno di Mameli), adesso che ogni cosa come una freccia ci tocca il cuore nel profondo e ci chiede di stupirci assieme a Roberto Benigni e sentirci migliori e felici con i regali di Natale di migliaia di anni fa in prima serata su Rai Uno, l’idea del grande spettacolo che si misura con l’immensità è meno liberatoria, troppo infiocchettata.

 

“Per la prima volta ci vengono date delle regole, regole così attuali da impressionare. Diventano legge i sentimenti, l’amore, la fedeltà, il futuro, il tempo”, ha spiegato Benigni esultante e contagioso, deciso a spiegarci l’anima e “la via per la felicità” con i modi da fanciullino saggio, e deciso anche a insegnarci, questa sera, con la seconda metà dei “Dieci Comandamenti”, che la corruzione è il punto più basso dell’umanità, e che “Non rubare” è l’insegnamento più attuale, che ci riguarda molto da vicino.

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“Siamo sbandati, non sappiamo dove andare, siamo in basso in basso in basso, con politici che si fanno comprare come un oggetto, non siamo più uomini, quando qualcuno compra un altro e la tua anima diventa l’anima di un ladro”.

 

Leggendo i giornali, guardando quello che succede, non sembra quasi mai essere questo il punto più basso dell’umanità, e nemmeno il peggiore. Anche ragionando per assoluti, e conservando lo stupore per il mondo con addosso i panni di un bambino, sappiamo dire che la corruzione è un male, certo che lo è, e i ladri sono ladri, ma non è mai tutto uguale e limpido, e Abramo Lincoln dovette comprare parecchi senatori per riuscire ad abolire la schiavitù in America: fu un momento alto per l’umanità.

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Ci fu qualcuno disposto a farsi comprare, insomma, a disobbedire a: “Non rubare”, e il mondo, questo posto stupefacente, è diventato migliore, e chiede allora di essere guardato con occhi attenti, disposti a cogliere e abbracciare l’imprecisione, l’inciampo e il mistero dell’umanità, dentro le parole più essenziali della storia del mondo. Come quando Benigni diceva a Dio: si scherza, dài, non mandarmi un fulmine.

 

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