
UN FILM CHE OGGI TUTTI DOVREBBERO VEDERE PER CAPIRE COS'E' LA GUERRA - QUANDO JOHN HUSTON NEL 1944 FU INCARICATO DI GIRARE UN DOCUMENTARIO INCENTRATO NON SULLE BATTAGLIE MA SULLE TERAPIE MENTALI CON CUI NEGLI OSPEDALI MILITARI SI CURAVANO I DISORDINI PSICHICI DEI REDUCI, GIRO’ “LET THERE BE THE LIGHT”: “NEI CASI DI SCHIZOFRENICI ERA USATO L'ELETTROSHOCK. IL PAZIENTE INARCAVA COSÌ VIOLENTEMENTE IL CORPO, CHE DOVEVANO ESSERCI CINQUE PERSONE A TENERLO PERCHÉ NON SI SPEZZASSE LA SCHIENA. CONTEMPORANEAMENTE EMETTEVA UNA SORTA DI URLO PRIMITIVO CHE FACEVA LETTERALMENTE RABBRIVIDIRE’’ – IL FILM FU GETTATO NEL CESTINO DAI VERTICI MILITARI PER 35 ANNI: VIDE LA LUCE SOLO NEL 1981 AL FESTIVAL DI CANNES – IL VIDEO-FILM
Let There Be Light - Full Movie | Walter Huston, John Huston
CIAK, TE LA DO’ IO LA GUERRA… - NELL’AUTUNNO DEL 1943 IL GRANDE REGISTA JOHN HUSTON RAGGIUNSE A NAPOLI LA V ARMATA STATUNITENSE PER SEGUIRE, CON UNA TROUPE CINEMATOGRAFICA, LA SUA AVANZATA VERSO ROMA - CRUDO E REALISTICO, ‘’THE BATTLE OF SAN PIETRO’’ FU BOCCIATO DAI VERTICI MILITARI E HUSTON ACCUSATO DI AVER FATTO UN FILM CONTRO LA GUERRA: FU PRESENTATO SOLO NEL 1945 – HUSTON RICORDA: ‘’NAPOLI ERA COME UNA PUTTANA MALMENATA DA UN BRUTO… UN POPOLO AFFAMATO, DISPERATO, DISPOSTO A FARE DI TUTTO PER SOPRAVVIVERE. I BAMBINI OFFRIVANO SORELLE E MADRI IN VENDITA. ERA VERAMENTE UNA CITTÀ SENZA DIO…” - VIDEO
JOHN HUSTON, ARMATO DI CINEPRESA, VA ALLA GUERRA/2 – ‘’A MONTECASSINO FURONO ORDINATI UN ASSALTO FRONTALE DOPO L'ALTRO, QUANDO ERA EVIDENTE CHE QUESTO METODO D'ATTACCO ERA DISPERATO E SENZA SCOPO. TUTTO CIÒ CHE RIUSCIMMO A FARE FU DISTRUGGERE SENZA NECESSITÀ LA BIBLIOTECA DEL 1500, UNA DELLE MAGGIORI DEL MONDO, E ASSOLUTAMENTE INSOSTITUIBILE – QUANDO HUMPHERY BOGART GIUNSE A NAPOLI PER ESIBIRSI PER LE TRUPPE, RIUSCÌ SUBITO A METTERSI NEI PASTICCI. GLI PIACEVA BERE E GIOCARE A FARE IL DURO E IMPROVVISÒ NELLA SUA STANZA UNA FESTA PER UN FOLTO GRUPPO DI RECLUTE E LA COSA SFUGGÌ DI MANO. UN GENERALE PROTESTÒ PER IL BACCANO, AL CHE BOGART GIUSTAMENTE RISPOSE: "VAFFANCULO!". FU IMBARCATO E RIMPATRIATO…’’ - VIDEO
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Da “Un libro aperto” – l’autobiografia di John Huston (ed. La nave di Teseo)
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Alla presentazione di La battaglia di San Pietro assistevano molti alti ufficiali dell'esercito, compreso un generale con tre stelle. A tre quarti del film, il generale si alzò e lasciò la sala di proiezione.
Se ne dedusse naturalmente che fosse scontento di ciò che aveva visto e il resto dei presenti si sentì in dovere di manifestare lo stesso scontento. Ma naturalmente dovevano farlo secondo il grado, come richiede il protocollo. Non era corretto per un tenente colonnello uscire tutto impettito prima di un generale di brigata.
Il generale fu seguito dopo circa un minuto dall'ufficiale più prossimo di grado, e quindi uno a uno sfilarono tutti fuori, con quello del grado più basso che chiudeva la retroguardia. Scossi la testa e pensai: "Che branco di coglioni! Tanti saluti a San Pietro”.
Come c'era da aspettarsi, appena fui tornato alla mia scrivania, cominciarono ad arrivare furiose proteste. Il dipartimento della guerra rifiutava il film in blocco. Mi fu detto da uno dei portavoce che il film era "contro la guerra". Io replicai pomposamente che se mai avessi fatto un film a favore della guerra speravo che qualcuno mi prendesse e mi fucilasse. Il tipo mi guardò come stesse pensando proprio di farlo.
Il film fu classificato come "segreto" e archiviato, a evitare che fosse visto da militari di leva. L'esercito pensava che il film fosse demoralizzante per chi andava in guerra per la prima volta.
Tuttavia si conquistò una certa popolarità all'interno dell'establishment militare e forse per questa ragione il generale dell'esercito George C. Marshall chiese di vederlo. Il suo commento ufficiale, una volta visto il film, fu: "Questo film dovrebbe essere visto da tutti i soldati americani in addestramento. Non li scoraggerà ma piuttosto li preparerà allo shock iniziale della guerra”.
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Con questo la situazione cambiò totalmente. Il gregge si allineò. Lodarono tutti il film. Fui decorato e promosso maggiore. La vita a New York contrastava vivacemente con la mia esistenza degli ultimi mesi. Il mondo del conflitto nella zona italiana - che era stato fra i più duri della guerra - e quello della vita newyorkese non avevano nulla in comune. Ogni tanto mi colpiva il pensiero della mia sbalorditiva fortuna: essere vivo anziché morto. Per mesi avevo vissuto in un mondo di morti.
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Non avevo mai visto prima tanti morti insieme, e per uno cresciuto in un'America tradizionale, a cui era stato insegnato ad aborrire la violenza e a credere che uccidere fosse un peccato mortale, la cosa era profondamente traumatizzante. Ma sentivo che mi ero adattato. Ricordo che un giorno in Italia mi dissi che ormai ero realmente maturato, ero un vero soldato. La stessa notte mi svegliai urlando "Mamma". Davvero non sappiamo
cosa succede sotto la superficie.
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A New York alloggiavo al St. Regis Hotel. Non riuscivo a dormire. Mi svegliavo nel cuore della notte, mi agitavo, mi rigiravo per un po' e quindi generalmente mi alzavo, mi vestivo e uscivo a fare una passeggiata o a bere qualcosa. Allora a New York c'era l'illuminazione ridotta e i giornali riportavano di un proliferare di rapine a Central Park.
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Nelle mie passeggiate mi trovavo a vagare attraverso il parco con una 45 alla cintura e la segreta speranza che qualche disgraziato provasse ad assalirmi. All'improvviso tutto mi si chiarì. A livello emotivo ero ancora in Italia, in zona di combattimento. Non riuscivo a dormire perché non c'erano cannoni che sparavano.
Avevo vissuto per mesi con il rumore dell'artiglieria in lontananza, ogni notte e per tutta la notte. In Italia, quando i cannoni cessavano, ti svegliavi e restavi in ascolto. Qui avvertivo la loro assenza nel sonno. Soffrivo di una leggera forma di nevrosi ansiosa.
Il mio ultimo film documentario per l'esercito fu Che sia la luce: lo scopo era mostrare come gli uomini che sotto le armi avevano subito danni psichici non dovevano essere dimenticati ma potevano essere aiutati con un trattamento adeguato.
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Visitai una quantità di ospedali dell'esercito, e finalmente misi le tende al Mason General Hospital di Long Island, che mi pareva il posto migliore per girarci il film. Era il più grande dell'est e ufficiali e medici erano cordiali e disponibili. Se si eccettua una superficiale conoscenza delle idee di Freud, Jung e Adler, ero completamente ignorante nei confronti della nuova scienza della psichiatria. Ma i medici erano sempre pronti a rispondere alle mie domande.
Di particolare aiuto era il colonnello Benjamin Simon, che guidava le mie letture e spesso illustrava qualche punto teorico con un esempio dal vivo. Sedevo accanto al colonnello Simon nella sala accettazione, osservando i pazienti. Dal loro aspetto d'insieme egli azzardava diagnosi preliminari.
John Huston - Let there be the light
All'inizio ero scettico nei confronti di questo metodo e prendevo appunti per poter fare un raffronto man mano che procedeva la terapia. Invariabilmente aveva ragione lui. Atteggiamento, espressione e gesti gli avevano detto di quale particolare forma soffrisse il paziente.
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L'ospedale accoglieva due gruppi di settantacinque pazienti ogni settimana e l'obiettivo era di risanare questi uomini fisicamente, mentalmente ed emotivamente nello spazio di sei-otto settimane, così che potessero essere restituiti alla società in condizioni altrettanto buone - o quasi - di quando erano entrati nell'esercito.
Non si pretendeva di ottenere guarigioni complete e definitive, che si possono conseguire soltanto con la psicoanalisi, poiché la causa profonda di una nevrosi generalmente risale all'infanzia.
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Quando i pazienti arrivavano erano in varie condizioni di disagio psichico. Alcuni avevano tic, altri erano paralizzati, un paziente su dieci era psicopatico. La maggior parte veniva catalogata sotto la definizione generica di "nevrosi d'ansia".
Decisi che il modo migliore di fare il film era di seguire un singolo gruppo dal giorno del suo arrivo a quello della dimissione. Sistemammo le cineprese nella sala accettazione, illuminata in maniera particolare per l'occasione, e iniziammo a filmare mano a mano che i pazienti venivano registrati.
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Questi ultimi venivano informati dall'impiegato dell'accettazione che li stavamo riprendendo e che la loro cura sarebbe stata seguita dalle cineprese. La cosa li lasciava completamente indifferenti. Ogni uomo era immerso nella sua angoscia e dimentico di tutto il resto. Altre macchine da presa filmavano i colloqui individuali tra medico e paziente.
Erano sempre in funzione: una riprendeva il paziente, l'altra il medico.
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Girammo migliaia di metri di pellicola - la maggior parte della quale non poté essere usata nel film - solo per essere sicuri di cogliere i cambiamenti straordinari e assolutamente imprevedibili che si verificavano in certi casi. Man mano che cominciavano a stare meglio, gli uomini accettavano le cineprese come parte della cura. Gli stessi medici notarono che queste ultime sembravano avere un effetto stimolante e che i pazienti che venivano ripresi mostravano un progresso maggiore rispetto a quelli degli altri gruppi.
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Ciò che vedevamo accadere sembrava miracoloso. Uomini che non riuscivano a camminare riacquistavano l'uso delle gambe, e uomini che non riuscivano a parlare ritrovavano la voce.
Naturalmente questi handicap erano sintomi di isteria e occorreva controllare attentamente il miglioramento. Teoricamente, un paziente a cui era stato ridato l'uso delle gambe poteva andare a una finestra e saltare di sotto; o poteva presentarsi al posto del primo sintomo un altro sintomo ancora più grave.
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Nei casi di psicotici - schizofrenici e catatonici - era immancabilmente usato l'elettroshock. Sapevo che non potevamo mostrarlo nel film: non rientrava in ciò che stavamo facendo.
Ma pensavo che fosse qualcosa da documentare. Allora la terapia da shock era molto più energica di oggi. Di regola il paziente inarcava così violentemente il corpo, che dovevano esserci cinque persone a tenerlo perché non si spezzasse la schiena.
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Contemporaneamente emetteva un suono - una sorta di urlo primitivo - che faceva letteralmente rabbrividire.
Non c'è dubbio che il Mason General Hospital potesse essere sconvolgente. Molti psicotici ricoverati credevano di essere il messia o quantomeno di essere direttamente agli ordini di Dio. lo avevo avuto un lasciapassare che mi permetteva di entrare in ogni reparto dell'ospedale e Charles Kaufman, che collaborava con me al testo, suggerì beffardamente che una notte, a mezzanotte, facessi il giro delle corsie più agitate con scatole di fiammiferi e rasoi affilati e li consegnassi ai pazienti dicendo: "Hai Dio davanti a te. Va' e fa' ciò che resta da fare..."
Dopo di allora, Charlie iniziava sempre le lettere che mi scriveva con "Caro Dio".
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Il colonnello Simon era un esperto ipnotista. Soltanto un paio di altri medici sapevano usare l'ipnosi e nessuno era bravo come lui. Simon non si serviva di espedienti quali il pendolo ei prismi; stava faccia a faccia con il soggetto e parlava in frasi corte, misurate. Spesso ipnotizzava un paziente in meno di un minuto; due o tre minuti erano molto. Io lo osservai attentamente e appresi la sua tecnica. Quando sentii di essermi impadronito del ritmo, gli chiesi di lasciarmi provare. Fu davvero semplicissimo.
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Mi capitò un buon soggetto, che cadde in trance rapidamente. Divenni veramente abile e con il passare del tempo cominciarono a chiamarmi per ipnotizzare un paziente quando Simon era occupato altrove. Dopo averlo fatto, passavo il paziente a un medico perché lo interrogasse. Molti casi erano appassionanti come un giallo.
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Ricordo quello di un giovane violoncellista. Era stato nell'esercito solo per poco. Suo padre era morto quando lui era bambino, e lui era stato tirato su dalla mamma che per dargli un'educazione musicale lavorava come donna delle pulizie.
Il ragazzo aveva un profondo affetto per la madre e un grande senso di responsabilità nei suoi confronti, per ciò che lei aveva fatto per lui. Ero presente quando la storia di questo paziente venne fuori sotto narcosintesi, punto per punto in risposta alle domande del medico.
Era stato in licenza a New York per far visita a sua madre, la licenza era scaduta e lui stava tornando al fronte. Scendeva le scale della Grand Central Station: era questa l'ultima cosa che ricordava. In apparenza era svenuto. Ma non c'erano abrasioni né alcun segno di urto violento. Era un classico caso di amnesia.
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In stato di narcosintesi iniziò a ricordare ogni cosa secondo una continuità. Ricordava di aver salito i gradini su cui era caduto e di aver camminato per strada, ma non aveva il senso di chi o dove fosse.
Alla fine era stato abbordato da un guardiamarina della marina statunitense e portato in un albergo. Il guardiamarina lo aveva spogliato, si era spogliato anche lui e aveva tentato di violentarlo. Apparentemente il ragazzo aveva respinto e messo a terra il marinaio. Dopo di che, non sapendo quali erano i suoi vestiti, si era messo per sbaglio la divisa del guardiamarina ed era uscito.
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Aveva vagato per le strade per un paio di giorni e infine era passato davanti a un night-club sulla Cinquantaduesima strada, dove aveva sentito suonare un'orche-stra. Nell'orchestra c'era un violoncello. Entrò. In qualche modo ricordava che anche lui sapeva suonare il violoncello e chiese di poter provare.
Lo lasciarono fare, probabilmente perché era in divisa, e risultò che era bravissimo. Il direttore del club immaginò che fosse in licenza e lo ingaggiò seduta stante per sostituire l'altro violoncello. E fu lì che lo presero una settimana il violoncello e viveva con quel che gli davano dopo, ancora vestito da guardiamarina, mentre suonava beato.
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Con molta dolcezza questo giovane fu riportato alla coscienza della sua identità. Sua madre fu informata e 10 ero presente quando si riabbracciarono. Dopo la guerra, un giorno, ho rivisto quel giovane in televisione. Suonava il violoncello nell'orchestra sinfonica della NBC diretta da Toscanini.
Nell'insieme, il tempo trascorso al Mason General Hospital ebbe su di me un effetto simile a quello di un'esperienza religiosa. Cominciai a capire che l'ingrediente primario per la salute psicologica è l'amore: la capacità di dare amore e di riceverne.
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Kaufman e io scrivemmo il testo man mano che il film veniva girato: il modo ideale, per me, di realizzare un documentario.
Era finito, montato e sistemato, con mio padre che faceva la voce narrante. Ma di nuovo il Dipartimento della guerra scelse di non distribuirlo.
La spiegazione data fu che il film violava la privacy dei pazienti in esso rappresentati. Non penso che fosse la ragione vera. Gli uomini che apparivano nel film - i pazienti della cui guarigione eravamo stati testimoni - erano orgogliosi di ciò che vedevano di sé stessi sullo schermo.
Per formalità, avevamo chiesto loro di firmare un'autorizzazione a riprenderli ed essi lo avevano fatto con piacere. Facemmo presente questa cosa al Dipartimento della guerra, ma quando ci chiesero le autorizzazioni scoprimmo che erano misteriosamente scomparse.
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Un giorno erano negli archivi ad Astoria e il giorno dopo non c'erano più. Facemmo allora presente che, sebbene il film rappresentasse un'indagine profondamente personale nella vita più intima di quegli uomini, nulla vi si rivelava che potesse causare loro imbarazzo. Proponemmo di chiedere a ognuno di loro una lettera, ma il Dipartimento della guerra disse no. Le autorità avevano deciso.
Penso che tutto dipendesse dal fatto che si voleva mantenere il mito del "guerriero", secondo cui i nostri soldati andavano in guerra e tornavano tanto più forti per l'esperienza, a testa alta e orgogliosi di aver servito bene il proprio Paese. Soltanto pochi, fisicamente inadatti, cadevano lungo la strada. Erano tutti eroi, e c'erano medaglie e nastrini a provarlo. Potevano morire o essere feriti, ma il loro spirito restava intatto.
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Parlando del Dipartimento della guerra dico "loro", perché in quella palude burocratica attribuire una responsabilità è impossibile. Avevo chiesto e ricevuto dall'Ufficio pubbliche relazioni dell'esercito il permesso di proiettare ‘’Che sia la luce’’ al Museum of Modern Art di New York, ma il pomeriggio della proiezione - pochi minuti prima che le immagini apparissero sullo schermo - arrivarono due della polizia militare e pretesero che gli fosse consegnata la copia. Naturalmente la ebbero.
A proposito di questo fatto Archer Winsten commentò sul "New York Post": “L'esercito ha mandato una guardia armata a togliere di mezzo il film di John Huston sui malati psichici, “Che sia la luce”. Non vengono date spiegazioni. Nessuna motivazione. È solo l'ultimo episodio del genere che abbiamo visto. Una spiegazione è che l'esercito, ormai sostanzialmente ridotto agli squallidi alti dirigenti del periodo prebellico, si stia rimbarcando in una politica del non-fare, non-dire, non-pensare.
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Ci si può consolare con il fatto che il film non è perduto, che tutti gli ufficiali vanno in pensione o muoiono prima o poi, e che un giorno finalmente le rinunce non saranno più necessarie. Al pubblico futuro è assicurata non solo una bella esperienza di cinema ma anche la certezza che la sua generazione avrà più buonsenso della nostra...”
La fiducia di Winsten nelle generazioni future si è fino a oggi dimostrata ingiustificata. Nel 1970 - ventiquattro anni dopo che il film è stato terminato - gli Archivi del film americano di Washington hanno preparato una rassegna di tutti i miei documentari. Gli Archivi sono un ufficio governativo, ma anche in questo caso è stata rifiutata una copia di “Che sia la luce”.
A tutt’oggi non so chi siano stati o siano i nemici di questo film, ma di sicuro sono stati irremovibili nella loro decisione che esso non debba esser visto. Ha funzionato qui la stessa mentalità che si vide alla presentazione di ‘’La battaglia di San Pietro’’.
Sfortunatamente, non si è trovato nessun George C. Marshall a salvare quest'altro film.
Le due bombe atomiche lanciate sul Giappone segnarono la fine della guerra. Andai a Fort Monmouth e ottenni il congedo. Mi ero preparato per quel giorno. Il mio sarto di New York aveva tre abiti già pronti per me. Dopo quattro anni di uniforme, fu come vestirmi per un ballo in maschera.
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