QUEL “TEPPISTA” DI GODARD – ‘’IL DISPREZZO’’ DI MORAVIA? “UN ROMANZO FERROVIARIO MA È DA QUESTI ROMANZI CHE SI RICAVANO I FILM MIGLIORI”

1. LA PELLICOLA-CULTO NELLA VERSIONE ORIGINALE (CON TESTIMONIANZE INEDITE)
Da "Il Giornale"

A 50 anni dall'uscita nelle sale italiane, il Premio «Malaparte» rende omaggio al film «Le Mépris» («Il disprezzo») di Godard, tratto dal libro di Alberto Moravia, presentando per la prima volta in Italia la versione senza censure (20 minuti in più).

Il film - con Brigitte Bardot, Michel Piccoli, Jack Palance e il regista Fritz Lang nella parte di se stesso, e girato a Capri e a Villa Malaparte - sarà proiettato a Capri sabato 8 giugno. Per l'occasione viene pubblicato il volume «I differenti. Capri 1963,Il disprezzo» (Skira) con testi inediti di Godard, Moravia e Michel Piccoli (che anticipiamo in questa pagina).

2. GODARD E MORAVIA: UNA PICCOLA PERFIDIA
Emanuele Trevi per "Il Corriere della Sera"

Non è esagerato festeggiare i cinquant'anni di un capolavoro della storia del cinema come Il disprezzo di Godard come in questi giorni si fa a Capri, dove è stata girata buona parte del film. Anche la Capri che vediamo nel film, per inciso, è trattata come un'attrice, visto che interpreta il ruolo di Itaca, e meriterebbe di figurare nel cast a fianco di Brigitte Bardot, Michel Piccoli, Jack Palance.

Nel prezioso libretto curato da Adriano Aprà e Patrizia Pistagnesi per l'occasione, sono davvero notevoli le Note di Godard, una serie di ritratti dei personaggi del film degne di un grande romanziere. Ne estraggo solo una scheggia tra le tante, poche righe dedicate a Fritz Lang, che nel film recita la parte di se stesso: «Un vecchio capo indiano, saggio, sereno, che ha meditato a lungo e infine ha compreso il mondo, e che abbandona il sentiero di guerra ai giovani e turbolenti poeti». Nel 1963 Godard era giovane, e turbolento lo è sempre rimasto.

Con Il disprezzo di Alberto Moravia, uscito da Bompiani nove anni prima, gli piacque ostentare una certa perfidia, non smentendo la sua fama di raffinato teppista. Ecco le parole esatte, stampate sui «Cahiers du Cinéma», che a quei tempi era uno dei più rispettati organi ufficiali della turbolenza artistica. «Il romanzo di Moravia è un volgare e grazioso romanzo da stazione, pieno di sentimenti classici e fuori moda, nonostante la modernità delle situazioni». Però, aggiungeva subito dopo Godard, è proprio da questi romanzi ferroviari che si ricavano i film migliori...

Come si vede, il ragionamento è molto più importante dell'invettiva in sé, giusta o ingiusta che sia. Godard ha molto da insegnare a tutti quei registi che, al momento di portare un libro sullo schermo, se ne accollano anche il punto di vista, il peso morale, la visione del mondo. Nella testa di Godard, invece, non c'è abbastanza spazio per questa specie di forzata convivenza umanistica del regista e dello scrittore. E allora, cosa chiede a Moravia? Niente di più di quello che un romanzo, ai suoi occhi, può offrirgli: una trama.

Questa trama può anche essere seguita con un certo grado di fedeltà. Ma questo non è affatto l'indizio di un'adesione di tipo spirituale, di una qualche forma di complicità. E perché mai Godard dovrebbe essere complice di Moravia, e non di se stesso? Si limita a usarne una storia. Ma le storie, in fondo, si assomigliano tutte. Non hanno un significato particolare. Sono un semplice pretesto.

Jim Thompson, il grande maestro del noir americano, diceva che tutte le storie possibili si possono riassumere in sette parole: «Le cose non sono quelle che sembrano». Si potrebbe dire che per un regista come Godard, come per tutti i grandi registi, il cinema comincia esattamente dove finiscono le storie scritte, dove il potere di suggestione della lettura cede il passo a tutt'altro tipo di fantasmi, quelli dell'inquadratura e del montaggio.
Ma a questo punto entra in scena un terzo protagonista.

Alle figure dello scrittore e del regista se ne affianca un'altra, ugualmente archetipica: quella del produttore. Perché Carlo Ponti, di fronte al risultato di Godard, rimase inorridito. Voleva la versione cinematografica di un romanzo del 1954 e si trovò di fronte un'opera completamente diversa, del tutto al di fuori degli schemi della letteratura, piena di emozioni inaudite, di eros, di dissacrante nichilismo. Il produttore si rimboccò le maniche, rimontando il film a modo suo. È ormai proverbiale l'incomprensibile pasticcio che ne venne fuori.

È come se Ponti si fosse illuso che, nascosto dentro un film del 1963, ci fosse un film del 1954, da servire a un pubblico che non avrebbe apprezzato il primo. Ma sarebbe stato molto più facile girare un film del tutto nuovo con un altro regista. Godard aveva completamente fagocitato la storia di Moravia. Non sarebbe bastato né togliere i nudi di Brigitte Bardot né cambiare l'ordine degli episodi per ritrovare il romanzo perduto. Il tempo era tutto dalla parte di Godard e dei «Cahiers du Cinéma», con buona pace di chi ci aveva messo (e rimesso) i soldi. Si poteva tentare di chiudere la stalla, ma tutti i buoi erano già scappati altrove.

3. GODARD LANG E LA BARDOT, CHE AVVENTURA QUEL FILM
Michel Piccoli per "il Giornale"

Il mio incontro con Fritz Lang è stato magnifico: l'ho conosciuto quando era attore. Non era il Fritz Lang regista. Era strano vedere il giovane Godard affascinato davanti al maestro, e Lang affascinato da Godard.

Perché vedendo lavorare Jean-Luc mi diceva di rivedersi giovane. Era di una capacità di ascolto e di una disciplina formidabili. Il suo personaggio aveva un bell'essere Fritz Lang, mai che facesse un'osservazione o si permettesse di dare un consiglio. A volte sui dialoghi... Poteva capitare che Jean-Luc gli chiedesse di inventare in tedesco un certo dialogo. Era come un giovane attore debuttante e meravigliato. Essendo anch'io un giovane attore debuttante e meravigliato, abbiamo fatto coppia.

Posso dunque dire di averlo conosciuto come un amico, un po' della stessa generazione. Non mi rendevo veramente conto di avere davanti a me il grande Fritz Lang. Era un signore che aveva una specie di grazia, di autorità, di humour, del tutto calmo, tranquillo. Vivevamo nello stesso hotel a Capri e tutte le mattine facevamo 25 minuti a piedi per raggiungere Villa Malaparte dove Jean-Luc girava.

Il ricordo di queste passeggiate con Lang lungo i faraglioni per andare a fare del cinema è un'immagine stravagante. Era una totale felicità. D'altronde era assai silenzioso. Molto silenzioso. La sera talvolta mi diceva: «Vedi, non dico niente a Jean-Luc, ma avevo voglia di dirgli:"Perché non fai un primo piano in questa scena?". Ma non ho osato». I rapporti fra Lang e lui erano dell'ordine del non detto. Del resto, con Godard non c'è altro che il non detto. Godard non ha mai chiesto il minimo consiglio a Lang, che si sarebbe ben guardato dal darne.

C'erano, per così dire, tre clan su Le Mépris, o tre famiglie. Diciamo che Fritz, Jean-Luc e io eravamo in connivenza nel non detto. Brigitte Bardot, all'inizio, era tutta meravigliata di girare con Jean-Luc e poi, dato che era una persona per nulla appassionata al suo mestiere di attrice o al cinema, si è a poco a poco isolata. La terza famiglia era Jack Palance, da solo. Godard non poteva soffrirlo. Fritz Lang era contento, diceva: «Ha ragione, è un attore talmente stupido».

Malgrado questi tre clan, Jean-Luc è riuscito - è del resto il soggetto del film - a creare un'osmosi perfetta. Ho capito presto che recitavo il ruolo di Jean-Luc. Mi ha forse aiutato vederlo lavorare. L'ho un po' imitato, copiato. Ma non me lo ha mai spiegato. Mi ha semplicemente detto: «È un personaggio di Un dollaro di onore (1959, di Howard Hawks, ndr) che recita in un film di Alain Resnais». Lang e io, nel film, siamo una sorta di mostro a due teste: il doppio di Godard. Lang amava enormemente Le Mépris ed era molto fiero di recitare il proprio ruolo in un film di Godard. Per lui era l'apoteosi.

Fino alla fine della sua vita siamo restati amici: ero uno dei rari che, quando era di passaggio a Parigi, andava ad accoglierlo. Sono perfino andato a Los Angeles, giusto per vederlo. Quando giravo laggiù e dicevo che sarei andato a Longridge Drive per vedere Fritz Lang, gli americani mi rispondevano: «Ma sei pazzo, è morto!». Era un uomo completamente isolato.

Abitava a Beverly Hills in un appartamento modesto, niente a che vedere con ciò che si immagina a Hollywood. Viveva con una pensione datagli dal governo tedesco e con le conferenze che faceva nelle università americane. Ma viveva sempre con eleganza, come un gran signore per nulla decaduto. Un giorno mi ha fatto visitare non so più quale studio, che non era più tale, e mi parlava di tutto ciò che aveva fatto in quello studio, della morte del cinema.

Parlavamo poco di cinema ed era molto discreto sulla sua opera, come sulla sua gloria passata. Ero un po' il suo confidente, come un nipotino o un lontano cugino che continuava a essergli fedele. Mi chiedeva notizie di Jean-Luc, che non gliene dava, cosa che lo rattristava.

Mi ricordo che quando Jean-Luc ebbe il suo terribile incidente in moto (il 9 giugno 1971, ndr) siamo andati entrambi a trovarlo in ospedale. Jean-Luc aveva delle circostanze attenuanti per non avere l'aria molto allegra nel vederci. Voglio dire che non ha fatto sforzi come di solito sa farne: è restato silenzioso nel suo letto. Ma Lang voleva vederlo. Credo che dopo Le Mépris, a parte Lotte Eisner e Henri Langlois, non vedesse più nessuno.

Dopo Le Mépris Claude Chabrol ha voluto produrre o far produrre un film di Lang. Ma Lang invecchiava, cominciava a perdere la vista. Non avrebbe sopportato di non essere più Fritz Lang in tutto il suo splendore. Non aveva rinunciato ma diceva: «Non posso più».

 

 

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