
MOSTRATE AI PRO-PAL CHE INNEGGIANO AL 7 OTTOBRE, IL LIBRO FOTOGRAFICO DI ZIV KOREN CHE RACCONTA L’ORRORE DEGLI ATTACCHI DUE ANNI FA DI QUEI MACELLAI DI HAMAS: "HANNO BRUCIATO INTERE FAMIGLIE, GIUSTIZIATO CHI SI NASCONDEVA. ALL’ESTERO ARRIVANO SOLO LE IMMAGINI DI GAZA. IN DUE ANNI HO VISTO DONNE, BAMBINI, ANZIANI, MA NON HO MAI VISTO NEI REPORTAGE CHE ESCONO DA GAZA UN MILITANTE DI HAMAS, UN FUCILE AK-47 O UN TUNNEL. EPPURE AL MONDO VA BENE COSÌ, LA MINACCIA ESISTENZIALE CHE GRAVA SU ISRAELE È UN DETTAGLIO...”
Francesca Paci per “la Stampa” - Estratti
Tra i tanti tabù d'Israele c'è in queste settimane un libro con la copertina nera, The October 7 War, oltre 300 scatti di Ziv Koren, il primo fotografo ad arrivare sui luoghi del massacro il 7 ottobre di due anni fa: tutti lo vogliono ma nessuno ha lo stomaco di sfogliarlo.
Da quel giorno Koren, pluripremiato cronista di guerra e di pace, non ha più smesso di documentare le mille sfaccettature del dolore nazionale, distillato nel sangue dei kibbutz. Quasi che immortalarne la densità, di cui è carico il suo studio a due piani, fosse terapeutico.
Sarà il turno della pace? Trump tirerà Israele fuori dal tunnel imboccato nel 2023?
«Non lo so, lo spero, ma è assurdo che dopo settecento giorni le famiglie abbiano trovato negli Stati Uniti l'ascolto negato loro da Netanyahu. Oggi va bene chiunque concluda un accordo di pace».
Flashback 7 ottobre. Cosa ricorda dell'attimo in cui le sirene hanno squassato l'alba e nulla è più stato com'era?
«La scena è nitidissima, un presente senza tempo. Gli sms si moltiplicano e capisco che non si tratta del solito allarme. C'è mia figlia che dorme da me, mi vergogno ma penso che devo accompagnarla il più velocemente possibile dalla mia ex moglie e andare a vedere, sebbene non sappia ancora dove.
Alle 8, nonostante il secondo round di missili contro Tel Aviv, è chiaro che il problema è al Sud. Chiamo i militari, gli amici di Ashkelon: nessuno risponde. Cominciano a circolare i video dei pickup di Hamas dentro Sderot. Devo correre, prendo la macchina fotografica, il giubbetto antiproiettile e spingo la moto al massimo diretto all'inferno».
Cosa ha visto sul fronte di quella guerra sconosciuta?
«Sono arrivato al bivio di Sderot e c'era l'inimmaginabile. Oltre quel punto non si andava, la strada numero 4 era chiusa, al di là si combatteva selvaggiamente. Ho preso allora per i campi, aggiravo la guerra, dappertutto si sparava. All'ingresso di Sderot l'avanzata dei terroristi era segnata dai morti lasciati lungo la strada, morti nostri, loro, volanti della polizia di traverso come barricate.
La battaglia è proseguita per ore, gli uomini di Hamas erano in ogni angolo, coprivano decine di chilometri lungo tutto il confine di Gaza. Ho incontrato un collega di Ap e per proseguire al sicuro sono salito in auto con lui, si è fatto buio e ci siamo ritrovati sulla linea del fuoco: ci sono voluti venti eterni minuti prima che l'esercito intervenisse e sono vivo».
Poi è entrato nei kibbutz.
«Non so trovare parole adeguate, mi vengono in mente solo immagini. Hanno bruciato intere famiglie, hanno giustiziato chi si nascondeva. Ho lavorato tra le macerie dei terremoti, in Ucraina, conosco come si presentano i crimini di guerra ma non ricordo nulla di equiparabile a quelle camere da letto violate, sono entrati e hanno finito chi dormiva».
Da quel giorno immortala frammenti di morte e di vita che i suoi connazionali faticano a guardare. Per dire cosa?
«Israele è ancora un Paese traumatizzato. Ha visto la brutalità folle, consapevolmente spietata. Perfino la sinistra ha ridimensionato il sogno della coesistenza con i palestinesi.
(...)
A quell'orrore si sono sovrapposte le vittime civili di Gaza che molti, compreso l'ex premier israeliano Ehud Olmert, giudicano ormai vendetta. Come vive quelle immagini?
«È complicato capire cosa sia successo in questi due anni nella Gaza ostaggio di una organizzazione terrorista. Anche le cifre fornite dal ministero della Salute, controllato da Hamas, non sono verificabili.
Ricordo quando un missile colpì l'ospedale Shifa a Gaza City e Hamas accusò subito Israele delle 500 vittime del raid, salvo eclissarsi poi alla notizia che la responsabilità era della Jihad Islamica e i morti meno di dieci.
Chi si occupa della verità? Non i palestinesi, per cui la propria causa vale una notizia falsa e costa meno. Non Netanyahu, che se avesse voluto riportare a casa gli ostaggi vivi avrebbe finito la guerra e liberato i prigionieri palestinesi. E neppure l'opinione pubblica mondiale, che non capisco cosa si aspetti da Israele».
Ha pensato di andare a fotografare "i giovani delle colline" che in questi mesi imperversano in Cisgiordania?
«Possiamo tranquillamente chiamarli coloni, lo sono. Ma da due anni i miei obiettivi sono gli occhi del 7 ottobre».
Ha parlato delle sue foto con cittadini arabi-israeliani?
Le foto sono esposte al Centro Peres per la Pace che si trova a Jaffa, un quartiere arabo. E ci sono arabi-israeliani nell'esercito, come ci sono beduini. Ho ascoltato diversi di loro dirmi quanto Hamas debba essere sterminato così come ci sono gli israeliani che denunciano il genocidio a Gaza. È l'enigma della democrazia».
L'impressione fuori è che Israele non voglia vedere il dolore degli altri, i palestinesi. Cosa vedrebbe a Gaza?
«Non chiederei di meglio che andare a Gaza. Le guerre però, come prova l'Ucraina, si riescono a raccontare quasi sempre da una parte sola. Vorrei dare un volto alle storie dei civili di Gaza e alla loro sofferenza sconfinata per riscattarle da Hamas che le usa a beneficio della propria narrativa, per segnare un punto contro Israele. E lo segna, ahimè».
Crede che, sconvolto dalla guerra a Gaza, il mondo abbia dimenticato il 7 ottobre?
«Al di fuori di Israele del 7 ottobre restano solo le immagini di Gaza. Durissime, ma colte in assenza di democrazia. In due anni ho visto donne, bambini, anziani, ma non ho mai visto nei reportage che escono da Gaza un militante di Hamas, un fucile AK-47, un tunnel. Ho visto solo civili devastati, perché è Hamas a decidere cosa svelare al mondo. Eppure al mondo va bene così, la minaccia esistenziale che grava su Israele è un dettaglio».
Siete condannati alla guerra?
«Penso che Hamas non deporrà mai davvero le armi, deve essere estromesso dal potere per la sopravvivenza d'Israele e dei palestinesi. Voterei anche io per il riconoscimento dello Stato palestinese se solo fosse dehamasizzato».
Naftali Bennett ha detto: "Tra vedere i miei figli vivi ed essere impopolare e vederli morti ed essere amato dal mondo, preferisco l'impopolarità».
«Sono per una via di mezzo.Anche vivere nel vuoto delle relazioni pubbliche è una forma di morte civile. Se rinunciamo a spiegare al mondo la complessità, l'avrà vinta Hamas e le immagini dell'orrore di due anni fa non diventeranno storia ma leggenda».