Gemma Gaetani per Liberoquotidiano.it
Alle 14:33 del 16 agosto del1977 la Memphis Fire Station n. 29 ricevette una richiesta di pronto soccorso al 3754 di Elvis Presley Boulevard. Un uomo faticava a respirare. I due tecnici di emergenza medica accorsi lo trovarono steso a terra nella sua enorme stanza da bagno, circondato di persone.
Chi tentava il massaggio cardiaco, chi la respirazione bocca a bocca. Quell’uomo era Elvis, oltre che cianotico: la sua pelle, chiara quasi come il latte, era neroblu e Charles Crosby e Ulysses Jones, mentre falcavano concitati i passi che li avvicinavano a quel corpo, pensarono che appartenesse ad un uomo di colore.
In un certo senso Elvis Aaron Presley un po’ lo era, nell’animo. Gli ascoltatori delle sue prime canzoni in onda sulle radio locali di Memphis, a metà anni Cinquanta, telefonavano per chiedere chi fosse quel negro che cantava country o quel bianco che cantava blues. Pazzo per la musica fin da bambino, siera abbeverato a quella di grandi neri come Arthur Crudup and Rufus Thomas.
Divenuto celebre, aveva spesso ribadito il suo astio per la segregazione razziale che ancora perdurava. Se la comunità afroamericana lo amava, quella bianca, cui apparteneva, in parte lo odiava. Oltre a rinfacciargli la «presunzione» di un bianco non ostile ai neri, i bigotti accusavano la sua musica così fisica di volgarità, per via del modo «erotico» in cui Elvis la ballava performando.
Frank Sinatra lo detestava come un vecchio re può detestare quello nuovo, ma spacciava la sua invidia per questione morale: «È la più brutale, brutta, disperata, perversa forma di espressione che io abbia avuto la sfortuna di ascoltare...». Ma My way cantata da Elvis nell’Aloha from Hawaii, il primo live trasmesso via satellite in mondovisione e seguito più dell’allunaggio, il 14 gennaio 1973, aveva uno spessore drammatico, e insieme potente, che Frank non gli aveva mai saputo dare.
Elvis ruggiva «I’ve faced it all», «Ho fronteggiato tutto», come un leone. Era conscio di star camminando verso la fine. Dal glaucoma al coma, aveva già avuto di tutto. Erano gli ultimi suoi anni e lo sapeva. Nelfebbraio del 1972 si era separato da Priscilla, conosciuta nel 1959 a Wiesbaden (dove stanziava come soldato dell’esercito statunitense), sposata nel 1967, resa madre di Lisa Marie nel 1968.
elvis e priscilla nel sessantanove
Elvis, dopo Priscilla, era un uomo solo. Always on my mind, la meno patetica richiesta di scuse che maschio abbia mai cantato, venne dedicata a lei, che non sopportò tradimenti, sbalzi d’umore, tour. La cricca di collaboratori profumatamente stipendiati da Elvis venne definita Memphis Mafia da chi, in seguito, la criticò per non aver fatto nulla per aiutarlo.
lettera di elvis preasley a richard nixon
«Giuro su Dio, nessuno sa quanto io mi senta solo, vuoto e come mi sento veramente dentro», diceva al suo parrucchiere Larry Geller, racconta una delle sue innumerevoli biografie. Solo e sullo scivolo dell’autodistruzione, soltanto cantando riacquistava luce nello sguardo e quel sardonico sorriso su quelle labbra un po’ a forma di cuore.
mostra elvis a londra vestito da 7mila dollari per il greatest hits del 1959
In uno degli ultimi concerti, imbolsito da un regime alimentare da bulimico e imbottito di eccitanti, tranquillanti, antidolorifici che il medico di di fiducia pagato a peso d’oro George Nichopoulosgli prescriveva a profusione, dimentica le parole di Are you lonesome tonight. Una, due, tre volte. È la fase del declino. Nessuno, nel pubblico, osa fiatare. Né deriderlo. Ma ne ride lui.
mostra elvis a londra il trench verde che indosso quando era militare in germania
Guardarne il video immalinconisce, ma al contempo fa brillare gli occhi di rispetto per un mito unico della canzone che, in scena, ironizzava sulla sua condizione ormai malferma con un atteggiamento molto più rock e punk del rock e punk che sarebbero diventati miti dopo.
Venne dichiarato morto, dopo l’inutile corsa dell’ambulanza al Baptist Memorial Hospital, alle 15:30. Il mondo, letteralmente, si fermò. Aveva 42 anni e quella era la volta in cui la frase finale dei suoi show «Elvis has left the building», «Elvis ha lasciato il palazzo», sarebbe stata vera per sempre perché era uscito dal palazzo della vita.
«La morte di Elvis Presley priva il nostro Paese di una parte di sé stesso. Era unico ed irripetibile. È stato un simbolo, per le persone nel mondo, della vitalità, dell’intraprendenza e del buon umore di questo Paese»,disse Jimmy Carter, l’allora presidente. Quando s’innamorò diPriscilla, ancora minorenne, si impegnò coi futuri suoceri che, portandola a Memphis, sarebbe stata ospite dei suoi.
Così fu, e fino al matrimonio non volle neanche consumare rapporti completi. LisaMarie sposò Michael Jackson - fanatico di Elvis - ma, come la madre Priscilla per Elvis, non riuscì ad essere la colonna portante della sua vita. Michael Jackson è morto consunto dai farmaci, come Elvis. L’8 gennaio di quest’anno avrebbe compiuto ottant’anni e Priscilla, in concomitanza col trentottesimo anniversario della sua precoce scomparsa, ha annunciato che a fine ottobre uscirà If I Can Dream: Elvis Presley With the Royal Philharmonic Orchestra, album in cui la voce del Re è affiancata dagli strumenti di un’intera orchestra. Ha detto: «Credo che Elvis avrebbe voluto realizzare questo album». Secondo noi, sì.