MARCO GIUSTI: 80 VOGLIA DI TOMAS MILIAN! - CUBANO DE ROMA, ROMANO DE CUBA. NESSUNO COME LUI, IN QUESTI ULTIMI 50 ANNI, È STATO COSÌ AMATO E RIAMATO DA FASCE GENERAZIONALI COSÌ DIVERSE. E PER MOTIVI DIVERSI - LA VERA RIVOLUZIONE DEL NOSTRO WESTERN FU PROPRIO USARE IL MESSICANO DI TOMAS MILIAN COME NUOVO EROE, ROVESCIANDO L’OTTICA AMERICANA E FACENDO DEL MESSICANO UN EROE DEL TERZO MONDO IN LOTTA COL CAPITALISMO…

Marco Giusti per Dagospia

Tomas Milian ha 80 anni. Difficile da credere. Per quel poco che l'ho conosciuto, e per quel tanto che ne ho sentito parlare, credo che Tomas Milian non sia mai diventato davvero adulto. Credo che abbia sempre giocato, col cinema, col teatro, con la canzone, con noi. A nascondersi nei panni di qualcun altro, a essere qualcun altro. Come molti attori.

Cubano de Roma, romano de Cuba. E' più Monnezza Quinto Gambi, lo scaricatore del mercato e stuntman di Tomas da cui nasce il personaggio, o è più Quinto Gambi Tomas Milian? E quanto c'è di Cujillo, il suo bandito rivoluzionario pre-68 svelto di coltello, in noi che ci rispecchiamo nel suo personaggio. Spesso è come se Tomas Milian facesse da specchio ai suoi stessi spettatori.

E da ragazzini, ricordo, cercavamo di tirare il coltello come Cujillo, pensavamo a una revolution da Tortilla Western come quella dei suoi film. Nessuno come lui, almeno in questi ultimi cinquant'anni, è stato così amato e riamato da fasce generazionali così diverse. E per motivi diversi. E Tomas ama sentirsi riamato. Al punto che soffrì moltissimo quando il suo idolo, Orson Welles, in "Tepepa" di Giulio Petroni, lo trattò da sudamericano qualsiasi.

"Dove mi metto, Orson, per ripeterti le battute?", gli chiese Milian. "Dove vuoi, basta che non ti veda la faccia", gli rispose secco il cattivo Welles. Salvo poi fare pace con lui e spiegargli la sua visione degli attori italiani. "In Italia sono tutti attori, i peggiori stanno sullo schermo". Povero Tomas, costretto a vivere in mondi così diversi e a non poter tornare nella sua, Cuba. "Magari adesso che siamo tutti e due vecchi e malati, ci torno a Cuba", mi disse un paio d'anni fa. Ma non c'è ancora andato. E Fidel è ancora vivo.

E ancora si ricorda del regista che tanti anni fa gli chiese in prestito i suoi dischi di Bola de Nieve, grande cantante cubano degli anni '50, e ancora non glieli ha restituiti. Anche della New York dell'Actor's Studio ha un ricordo nostalgico e lontano. Con James Dean, anzi col suo fantasma, ci ha parlato per tanti anni. E' stato il suo attore preferito da subito.

Invece dell'amico comune Dennis Hopper, col quale ha diviso una delle più grandi follie di Hollywood, "The Last Movie" (1971), un film post-"Easy Rider" dove erano tutti strafatti di peyote e droghe varie a spese della Universal, 40 ore di girato quasi ammontabili, non ha un buon ricordo.

Giura che aveva un gran ruolo positivo, poi lo drogarono subdolamente con una torta e anche il suo personaggio piombò nella più nera confusione. Ma i telegiornali del tempo lo vedono a Venezia assieme a Hopper bere e ridere come pazzi parlando del film come di un modello per un nuovo tipo di cinema rivoluzionario. Ah, il Tomas Milian rivoluzionario del cinema manca ai ragazzi che adorano Monnezza, ma noi c'eravamo cascati.

Lo avevamo visto anche in "I cannibali" di Liliana Cavani e nel film femminista di Dacia Maraini, "L'amore coniugale". Tomas poteva permettersi di tutto negli anni '60. Appena arrivato a Roma da New York, dove era scappato dopo l'arrivo di Fidel Castro, diventò subito uno degli attori giovani di punta del nostro cinema d'autore e d'impegno. Bello, bellissimo. Ottimo per i film letterari di Mauro Bolognini, ottimo come ricco rampollo milanese per Luchino Visconti, ottimo per il teatro di Fabio Mauri in coppia con Barbara Steele.

Ma anche per Florestano Vancini, Giuliano Montaldo, Franco Brusati, Renato Castellani, Alfredo Giannetti. La crema del nostro cinema, la serie A. Quando uscì "Il tormento e l'estasi" di Carol Reed, dove ha il ruolo di Raffaello e si contrappone a un Charlton Heston, che per noi era proprio Michelangelo, rimanemmo incantati. E quando uscì il suo primo spaghetti western, "The Bounty Killer", dello spagnolo Eugenio Martin, stavamo in sala per il primo spettacolo del primo girono di programmazione.

Si mangia in un sol boccone l'inutile protagonista, l'americano Richard Wyler, e si lancia come messicano cattivo. Ma la vera rivoluzione del nostro western fu proprio usare il messicano di Tomas Milian, il peone povero o il banditello Cujillo, come nuovo eroe del genere. Film come "La resa dei conti", "Corri uomo corri", "Tepepa", rovesciano l'ottica americana e fanno del messicano un eroe del terzo mondo in lotta col capitalismo.

In "Se sei vivo spara" di Giulio Questi, scritto assieme a Kim Arcalli, Tomas è addirittura una specie di fantasma vendicativo dei massacri indiani secondo un'ottica politica e visionaria molto nouvelle vague. Se "Tepepa" di Giulio Petroni, scritto da Ivan Dalla Mea e Franco Solinas, sarà invece un film militante e seriamente politico, "Vamos a matar, companeros" di Sergio Corbucci diventerà il film bandiera di Lotta Continua, epico e rivoluzionario.

Sono le contraddizioni di Tomas, anticastrista nella vita e poi rivoluzionario nei film. E il suo personaggio fece il giro del mondo. Ovunque, tranne in Messico, dove gli spaghetti western erano malvisti perché pensavano, in gran parte sbagliando, che noi li usassimo come gli indiani cattivi dei film yankee.

Una volta diventato icona di un genere popolare, come lo spaghetti western, Tomas Milian passò rapidamente a altri generi popolari di successo, come il noir e il poliziesco. Poteva fare indifferentemente sia il sadico, proprio cattivissimo, sia il poliziotto. Era perfetto in entrambi i ruoli. Ovvio che con l'arrivo del comico e la fine dei generi, Tomas Milian si ritrovi sia nel western che nel poliziesco in qualche modo contaminato con la commedia.

Ma se il suo "penitenza" nel western non sarà proprio un personaggio convincente, il suo Monnezza, come il suo Nico Giraldi, sorta di Serpico di borgata, saranno personaggi della fine di un genere, ma comunque fortissimi nell'immaginario del tempo. Non è solo la fine di un'epoca, ma anche quella di un'utopia cinematografica e politica che trova in Monnezza e nei suoi fratelli coatti quel po' di vitalità rimasta al nostro cinema.

Una sorta di volgarizzazione parolacciara, certo, ma anche un modo per rimanere in contatto col pubblico più genuino. A un certo punto, qualsiasi cosa interpretasse, fosse il pesantissimo "Il figlio dello sceicco" ("Abullì abdullà, nun rompe er cazzo e pensa a cagà"), l'ancor più pesante "Messalina, Messalina", girato con i set di "Caligola", o "Il Lupo e l'agnello", dove divide la scena con uno stupito Michel Serrault, ripete sempre gli sterotipi di Monnezza, come fossero una maschera, come il cappello e la barba che gli coprono sempre il volto.

In fondo, i film "seri" di Tomas Milian dei primi anni '80, penso soprattutto a "Identificazione di una donna" di Michelangelo Antonioni, ma anche a "La luna" di Bernardo Bertolucci, sembrano sfruttarlo quasi come una macchina vuota, il corpo di un attore celebre e popolare che sembra quasi svuotato lontano dal genere.

Anche in tv, quando lo vediamo con Pippo Baudo a "Domenica In", Tomas Milian sembra un altro, un lontano parente di quel che vediamo al cinema. Quasi senza identità, pronto a partire per l'India dietro al Santone o a andarsene proprio lontano da tutto. Ma non c'è stato nessun altro attore della sua popolarità, che abbia fatto la sua stessa scelta.

Tornare in America e ricominciare da capo come se fosse stato un giovane attore un'altra carriera. Quando lo vedevamo negli anni '90 in piccoli e meno piccoli ruoli di cattivo nei film americani, anche grosse produzioni come "JFK" di Oliver Stone, "Amistad" di Steven Spielberg, "Havana" di Sidney Pollack, fino al ruolo maggiore in "Traffic" di Steven Soderbergh, ci siamo sempre chiesti perché Tomas avesse preferito rigiocarsi tutto in America che invecchiare in Italia.

Stravaganze di star, magari, desiderio di non farsi vedere invecchiare, calvo e con le rughe, perdendosi dentro un cinema talmente grande dove potesse esserci spazio anche per lui. Però quando è tornato a Roma un paio d'anni fa, per girare un film di Giuseppe Ferrara rimasto sotto sequestro per motivi complessi, abbiamo capito quanto fosse legato al nostro cinema e a questa città. Quanto gli pesasse starsene lontano da Roma, forse più che da Cuba, e da un cinema che lo ha accolto come una star.

 

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