“LA CAPITANERIA FERMÒ I SOCCORSI: SONO TUTTI MORTI” – LE NUOVE CARTE SUL DISASTRO DELLA "MOBY PRINCE" RIVELANO UNA MONTAGNA DI BUGIE, OMISSIONI, FALSITA’ DELLO SCONTRO TRA IL TRAGHETTO E LA PETROLIERA AGIP ABRUZZO CHE FECE 140 MORTI – LA TESTIMONIANZA DEL MOZZO: “MOLTI DEI MIEI COMPAGNI POTEVANO ESSERE SALVATI. MA NESSUNO LI ANDÒ MAI A CERCARE. E NESSUNO HA MAI PAGATO PER QUESTO”

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Marco Imarisio per il “Corriere della Sera”

 

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Quando è già tempo di memoria senza che mai sia stata fatta giustizia, ecco che dall' armadio spuntano delle novità. Anche trent' anni dopo, anniversario tondo, che poi è la ragione dell' attuale e temporaneo fascio di luce su uno dei più misconosciuti misteri italiani.

 

Pensiamo di sapere tutto, della tragedia della notte della Moby Prince. Dieci aprile 1991, il traghetto che si schianta contro la petroliera Agip Abruzzo all' uscita dal porto di Livorno. Centoquaranta morti. Un processo da operetta. Nessun responsabile. La ricerca della verità lasciata solo ai familiari delle vittime. Come se quella tragedia immane dovesse essere destinata a restare una questione privata. È stato così fin dall' inizio.

 

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Ancora nel 2017, la Commissione parlamentare di inchiesta, che ha svolto un lavoro importante, si dichiarava stupita del fatto che molte dichiarazioni rese durante le audizioni fossero «convergenti nel negare evidenze o nel fornire versioni inverosimili dell' accaduto».

 

Una montagna di bugie, di omissioni e di falsità. Non importa se costruite per coprire negligenze oppure segreti internazionali, resta una pagina orrenda della nostra storia recente. Oggi sappiamo che la nebbia «tropicale, che tutto avvolgeva» fu un evento «sopravvalutatissimo» come riferì un perito di allora alla Commissione. Sappiamo che la Agip Abruzzo si trovava nel triangolo d' acqua all' uscita del porto, zona con divieto di ancoraggio per non intralciare il percorso delle altre navi.

 

«La petroliera non doveva essere lì», titolava La Nazione il 15 aprile 1991. Quell' articolo è l' unico a non essere mai stato inserito nella vasta rassegna stampa allegata agli atti del primo processo. Ma ci sono volute due decadi abbondanti per dimostrarlo, grazie al lavoro sull' archivio satellitare svolto da Gabriele Bardazza, l' ingegnere milanese che da anni presta consulenza al Comitato delle vittime.

 

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Pensiamo di sapere, e invece non sappiamo niente, perché fino a quando non salta fuori una prova, una pezza di appoggio, anche le evidenze dei fatti rimangono allo stato di pure ipotesi. Prendiamo uno degli snodi fondamentali della vicenda. I soccorsi furono disastrosi, un tragico trionfo di lentezza, incompetenza e in seguito di opacità.

 

Succede che la Regione Toscana istituisca un armadio della memoria, per non dimenticare le stragi della Moby Prince, di Viareggio e della Costa Concordia. Un bravo archivista cataloga ogni documento. Dalla cartelletta di un avvocato del primo processo, emergono fogli che mai erano finiti agli atti. Sono firmati dai vertici del Comando operativo dell' Aeronautica militare, che riepilogano attimo per attimo la notte del 10 aprile 1991. Loro erano pronti a intervenire. Alle 00.10 la Capitaneria di porto, che secondo la legge è responsabile dei soccorsi, dà l' allarme. Probabile collisione tra due petroliere, nessuna notizia sui dispersi. La nostra aviazione si attiva subito.

 

Stanno per levarsi in volo mezzi dalle basi di Linate, Istrana e Ciampino, al massimo un' ora e cinquanta minuti il tempo di intervento dalla base più lontana, «comprensivo dei 30 minuti di approntamento».

 

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Ma quegli aerei ed elicotteri, nove in tutto, non partiranno mai. Alle 00.17 la Capitaneria di porto dice che non c' è bisogno, «comunicando che da quello che si sapeva i naufraghi erano morti, nella zona c' era nebbia, che la Marina stava provvedendo». Mezzanotte e 17. Mezz' ora prima, sulla tolda della Moby Prince viene ritrovato vivo quello che diventerà l' unico superstite della strage, Alessio Bertrand, il mozzo, che all' epoca aveva solo 23 anni. E da allora non ha mai smesso di ripetere la stessa versione dei fatti.

 

«Molti dei miei compagni potevano essere salvati. Ma nessuno li andò mai a cercare. E nessuno ha mai pagato per questo». La Marina militare, che secondo la Capitaneria di Porto aveva preso il comando delle operazioni, arrivò sulla scena del disastro la mattina dopo. Quella comunicata all' Aeronautica fu una inesattezza, o forse peggio.

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Con un tale livello di caos, con indagini giocate in casa e al ribasso, tese a dare la colpa a un uomo solo, il comandante della Moby Prince Ugo Chessa, che tanto non poteva più parlare, una volta caduto il velo delle menzogne sono fiorite tesi di ogni genere. Già la sera del 12 aprile 1991 si sapeva che nel locale eliche di prua, proprio sotto il garage, era avvenuta una esplosione.

 

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Ancora oggi non c' è sicurezza sul fatto che fosse dovuta a una miscela di gas frutto dell' urto tra le due navi, e non già il risultato di un esplosivo ad alto potenziale, come sostenne una discussa perizia degli esperti della Procura, che nel 1992 salirono sul relitto. Il consulente della Commissione Paride Minervini scrive che «al fine di fugare i molti dubbi», sarebbe necessaria una analisi dei reperti ritrovati in tribunale, «per la ricerca delle tracce di esplosivi alla luce delle nuove tecnologie».

 

Cosa fare, lo deciderà il procuratore di Livorno. C' è una nuova indagine per strage a carico di ignoti. Ci sarà una nuova commissione d' inchiesta, proposta da Pd, M5S e Lega, per far luce sulle cause della collisione, sul mancato coordinamento dei soccorsi.

E su come sia stato possibile questa nebbia durata 30 anni.

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C' è da capirlo, Angelo Chessa, figlio del comandante, che ha dedicato la vita a ridare l' onore a suo padre ricostruendo quel che era davvero successo quella notte. «Ho dato tutto, e rifarei tutto. Ci è capitato di essere trattati in modo vergognoso nella aule di tribunale, di venire liquidati con un' alzata di spalle. Ma ne è valsa la pena. Perché infine tutti hanno capito. Abbiamo una verità storica. Adesso sarebbe bello avere anche una verità giudiziaria».

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