“SE IMPARASSIMO A NON SPECIFICARE IL COLORE DELLA PELLE SAREBBE UN PASSO IN AVANTI” – STEVEN YEUN, PROTAGONISTA DI “MINARI” E PRIMO ASIATICO CANDIDATO AGLI OSCAR COME MIGLIORE ATTORE PROTAGONISTA: “IL FILM RACCONTA LA STORIA DELLA MIA FAMIGLIA EMIGRATA DALLA COREA IN AMERICA" - SARÀ IL PRIMO FILM NELLE SALE IN ITALIA, ALLA RIAPERTURA, IL 26 APRILE E CONFERMA L'OTTIMO MOMENTO PER IL CINEMA COREANO DOPO IL SUCCESSO DI ''PARASITE'' LO SCORSO ANNO - VIDEO

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Francesca Scorcucchi per il “Corriere della Sera”

 

 

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Sarà il primo film nelle sale in Italia, alla riapertura, il 26 aprile e forse non poteva essere scelta una storia migliore, con il suo racconto di resilienza, perseveranza e tenacia. Minari, candidato a sei Oscar tra cui miglior film, conferma l' ottimo momento per il cinema coreano dopo il successo di Parasite lo scorso anno. La trama però è diversa.

 

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Prodotto da Plan B, la casa cinematografica di Brad Pitt, e già vincitore di molti premi, (Golden Globe, Sundance e Bafta), Minari è la storia vera della famiglia del regista Lee Isaac Chung, figlio di immigrati dalla Corea del Sud, cresciuto in Arkansas. Il titolo prende spunto da una pianta acquatica coreana, resistente come il prezzemolo e dal sapore piccante. Una volta trapiantato sembra non attecchire ma l' anno successivo torna a crescere spontaneo, senza bisogno di grandi cure.

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Chung, al suo quarto lungometraggio, usa questa metafora per descrivere il processo di integrazione della sua famiglia, arrivata negli anni Ottanta in America.

 

Nel ruolo del protagonista, Jacob, ha voluto il cugino, Steven Yeun, che il pubblico italiano ha conosciuto in «The Walking Dead» e «Burning - L' amore brucia»: chi è Jacob?

«Un uomo tenace che, come la pianta di Minari fa fatica ma vive e permette alla generazione successiva, ai suoi figli di prosperare, di realizzare il sogno americano».

 

E la generazione successiva quel sogno lo ha realizzato. Due cugini, lei e il regista Lee Isaac Chung, avete fatto carriera a Hollywood, uno indipendentemente dall' altro.

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«Prima di questo film ci si incontrava ai matrimoni, non si è mai parlato di lavoro. Poi mi è arrivato il copione, l' ho letto e sono rimasto affascinato dal racconto della mia stessa famiglia. È una storia coraggiosa e fresca perché non è mitigata, non strizza l' occhio al pubblico occidentale».

 

Però al pubblico occidentale e agli addetti ai lavori è piaciuta. Lei è il primo interprete di origini asiatiche ad essere candidato nella categoria migliore attore protagonista. Come ha reagito alla notizia?

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«Con gioia, naturalmente, ma anche con un certo disagio. Non mi piace il fatto che venga sottolineato che sono il primo asiatico nella categoria. Io sono un attore, non un attore asiatico. Se imparassimo a non specificare sempre la provenienza e il colore della pelle, in qualsiasi settore e argomento, sarebbe un grande passo avanti».

 

Il regista, suo cugino, ha pensato a questo film quando si è reso conto di voler raccontare alla figlia quali sacrifici avevano dovuto fare i suoi genitori per venire negli Usa. Anche le è figlio di immigrati.

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«Il fatto di essere cresciuto in America mi creava dubbi. Stavamo raccontando la storia dei nostri genitori e mi chiedevo se fossi in grado di farlo, se fossi in grado di capire davvero cosa avessero dovuto sopportare, in termini di sacrifici e lavoro, i nostri genitori per permettere a noi figli di vivere il sogno americano».

 

Come ha dissipato i dubbi?

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«Mi sono aggrappato ai racconti di mio padre. Felice e pieno di aspettative appena arrivato in America e poi sopraffatto da un mondo così diverso e a tratti ostile. Era un architetto in Corea, qui non era niente. Dovette ricominciare da zero, montava scatole per il negozio di jeans di mio zio. Per interpretare Jacob ho fatto riferimento alla sua figura e ai suoi racconti».

 

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Non è facile capire l' America appena arrivati...

«È una terra, questa, costruita sull' immigrazione ma le forme di questa immigrazione sono state molto diverse nel tempo e nelle situazioni. C' è chi è venuto qui per spirito di avventura, chi con la forza, chi sperando in una vita migliore, chi per fuggire a guerre e persecuzioni. Tutti però con una mentalità da emigrante, che è in qualche modo una mentalità artistica, capace di costruire qualcosa dal niente. Quasi sempre chi arriva soffre, ma i figli, come la pianta di Minari, crescono e si integrano bene».

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