daniele de rossi

CALCIO DOTTO - “DE ROSSI CHE A 36 ANNI VA A CHIUDERE LA SUA CARRIERA DI CALCIATORE CON UN’ALTRA MAGLIA. CHI HA VOLUTO SCRIVERE QUESTO ORRIDO FINALE HA SBAGLIATO MESTIERE, NON SA NULLA DI VITA, NON SA NULLA DI LETTERATURA, NON SA DI CUORI E NON SA DI STRATEGIA AZIENDALE. IL SENTIMENTO DEI ROMANISTI IERI, MA LO SARÀ ANCORA OGGI, DOMANI E SEMPRE È QUELLO DI UNA COMUNITÀ VIOLATA. DE ROSSI LONTANO DALLA ROMA È SCANDALO PURO. NON PER QUELLI CHE GOVERNANO LA ROMA”

giancarlo dotto

Giancarlo Dotto per il “Corriere dello Sport”

 

Alla fine di un anno orribile, la notizia più orribile. Nel riferirci e nel ferirci, a poche ora dall’averlo saputo, Daniele De Rossi è stato gigantesco e ispirato. Come sempre. Più di sempre. Nel dire le cose, nel non dirle, e poi dirle quando non ti aspettavi più che le dicesse. Nel guardare e nel non guardare. Non guardare i compagni, tutti schierati e commossi, davanti a lui, “perché se li guardo scoppio…”.

 

UN GIOVANE DANIELE DE ROSSI

Tutto fluiva apparentemente calmo in quella scena irreale, in quella bestemmia di un addio che non ha senso. Le vene del ragazzo di Ostia restavano quiete nel loro fodero. A gonfiarsi questa volta era solo il cuore della gente romanista. Ma la tempesta, si capiva, era lì a un millimetro dalle tempie di Daniele, pronta ad abbattersi come una furia, a travolgere tutto e tutti in quella spazio troppo piccolo per una cosa così grande. E allora, in molti avrebbero pianto. Non vedevano l’ora di farlo. Non è accaduto ieri, accadrà la sera di Roma-Parma. Si chiama catarsi, da che l’uomo sente il bisogno di rappresentare il dolore e oltrepassarlo. A cominciare da Dzeko (uno dei più toccati) e compagni.

 

IL MURALE DI DANIELE DE ROSSI

Qualcuno, invece, avrebbe voluto sparire. Diventare invisibile. Guido Fienga avrebbe voluto sparire. Diventare invisibile. Un kamikaze vero, sedersi al fianco di Daniele, in nome e per conto della società, il giorno in cui si doveva spiegare l’inspiegabile, De Rossi che a 36 anni va a chiudere la sua carriera di calciatore con un’altra maglia. Chi ha voluto scrivere questo orrido finale ha sbagliato mestiere, non sa nulla di vita, non sa nulla di letteratura, non sa di cuori e non sa di strategia aziendale.

 

sarah felberbaum daniele de rossi

C’è solo una misteriosa perversione in questo finale che toglie brutalmente alla Roma e ai romanisti l’ultimo nome e l’ultima faccia cui aggrapparsi per sentirsi “orgogliosamente” romanisti. Fienga è stato mandato al massacro. Povero. Così inadeguato. Ha cercato di salvare il salvabile ma lo ha fatto maldestramente e l’impresa era troppo più grande di lui. La grandezza del ragazzo di Ostia si è vista anche qui. Non ha infierito.

 

Ha cercato di proteggere il meschino che gli farfugliava accanto. Un po’ perché ne percepiva l’invocazione pigolante, un po’ perché sapeva che non era lui il carnefice ma solo un’emanazione, molto perché Daniele è fatto così. Ha l’anima forte e generosa di chi protegge i deboli e gli indifesi.

 

Lo ha fatto con i compagni sempre, lo ha fatto con Fienga ieri. Ma quando l’emotività stitica del burocrate non avvezzo a maneggiare scene così estreme e dati tanto sensibili, non ha saputo altro che rimestare la storiella poveraccia del De Rossi “dirigente” che “tutti aspettiamo” (“Poteva diventare da subito il mio vice”, è riuscito a dire Fienga, sì!) lì se l’è proprio cercata.

daniele de rossi sarah felberbaum

 

“Se davvero fossi quel bravo dirigente che dite, io non mi sarei mai mandato via”. L’avete sentito anche voi il tonfo. Il suono inconfondibile del corpo che cade al tappeto. Quello di Fienga. Il sentimento dei romanisti ieri, ma lo sarà ancora oggi, domani e sempre è quello di una comunità violata. Se i tifosi potessero mettere insieme una specie di opera autoconsolatoria con tutte le imprese di Daniele in diciotto anni di Roma, no, non sarebbero i tanti gol, le infinite prodezze, i recuperi bava alla bocca, sarebbero le assurde anamorfosi del suo corpo romanista che si trasforma nell’esultanza, nella rabbia, nel dolore. Sarebbe questo il manifesto dell’amore. Le vene che si gonfiano o si chiudono.

 

giancarlo dotto

La follia del dover essere allo stesso tempo, nello stesso corpo e nella stessa persona, calciatore e tifoso. Fioccano i paragoni con l’addio di Del Piero alla Juve e quello di Totti. Non reggono. De Rossi alla Roma non è Del Piero alla Juve. La differenza, un abisso. Del Piero è stato un pezzo importante della storia bianconera, uno dei tanti. Del Piero esiste benissimo oltre la Juve, ne fa benissimo a meno, civetta fighettuolo a destra e a manca, con gli uccellini degli spot, gli attori di Hollywood e i colleghi di Sky. De Rossi è pura carne romanista. Continuerà a giocare altrove, a New York o a Tokio, sarà grande e stimatissimo ovunque, ma la Roma resterà sempre il suo braccio amputato.

l esultanza di daniele de rossi

 

Fino al giorno in cui un illuminato non lo rimetterà al suo posto. I romanisti hanno amato perdutamente Francesco Totti come un figlio. Hanno moltiplicato le loro mammelle per allattarlo anche quando non ne aveva bisogno, figuriamoci il giorno del suo addio. Come un figlio l’hanno idolatrato per le sue virtù, trascurandone i difetti. Daniele De Rossi è stato amato come un fratello. A volte minore, quasi sempre maggiore. Un’identità forte, saggia, onesta in cui riconosci la storia della famiglia.

daniele de rossi

 

Una guida per il giovane che entra in questa storia, una carezza per te che questa storia ti piace sentirtela raccontare da una vita. Un fratello cui non sono stati perdonati errori e difetti, veri e immaginari, salvo poi riconoscere, anche quelli accecati dall’odio preventivo, che anche i suoi errori erano parte della sua grandezza. Amato, sputato, osannato, diffamato e poi solo amato.

 

De Rossi che incita i compagni ad andare sotto la Sud anche quando la Sud è vuota, il tributo più poetico mai avvenuto in uno stadio, De Rossi che esce palla al piede come Franz Beckenbauer, De Rossi non più giovane, il corpo grave che lo tiene a terra, che rischia tutto in una spaccata. La perdita di De Rossi è incommensurabile, il campo è l’ultima cosa, se lo spogliatoio potesse parlare.

TAMARA PISNOLI - DANIELE DE ROSSI

 

De Rossi amato e ammirato da allenatori, compagni e rivali. Qualcosa vorrà dire. Non per chi decide nella Roma. Il pallone continuerà a rotolare con la sua incorporata e magnifica ottusità, ma non sarà più lo stesso. De Rossi lontano dalla Roma è scandalo puro. Non per quelli che governano la Roma. Nel giorno in cui arriva la prima flebile ammissione (“Sì, sono stati fatti degli errori” e chi l’ha voluto il “Monchi Horror Show”? Prima o poi si dovrà sapere), si consuma l’errore più grande, questo sì imperdonabile.

 

inaugurazione della boutique philipp plein a roma daniele de rossi

E un sospetto sempre più acuto. Che l’emotività della gente romanista sia per questa proprietà solo un trascurabile disordine di massa da trasformare un giorno in valore economico. Hanno sfrattato da casa sua il calciatore più romanista della storia. Si chiama pragmatismo. Si chiama cecità. Si chiama autolesionismo. Un giorno tornerà, questo è sicuro. E non per fare il vice di Fienga.

 

DANIELE DE ROSSI jpeg

 

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