cafonalino libro veronesi chirico

CAFONALINO - ANNALISA CHIRICO PRESENTA LE ''CONFESSIONI DI UN ANTICONFORMISTA'', L'INCREDIBILE VITA DI UMBERTO VERONESI, DALLA FATICA NEI CAMPI AI VERTICI DELLA MEDICINA MONDIALE - INTERVENGONO IL FIGLIO PAOLO, AMATO, LETTA E LA PALOMBA - ESTRATTI DAL LIBRO: PERCHE' GLI SCIENZIATI NON POSSONO ESSERE CREDENTI, PERCHE' IL CANCRO È LA PROVA CHE DIO NON ESISTE

Estratto dal libro di Umberto Veronesi e Annalisa Chirico, ''Confessioni di un anticonformista'', edito da Marsilio

 

 

ANNALISA CHIRICO - LIBRO SU UMBERTO VERONESIANNALISA CHIRICO - LIBRO SU UMBERTO VERONESI

Torniamo alle giornate da infante bucolico.

Di giorno esploravo i campi con papà, adoravo avventurarmi per sentieri sconosciuti. E poi il colore della terra ti riconcilia con l’esistenza. Raccoglievo gli ortaggi, mungevo le pecore e da- vo il fieno ai cavalli. Mi appassionavano sopra ogni cosa i vitelli e i felini. Avevo una gatta di nome Billiciana con il pelo lungo   e marezzato di color giallo bruno. Mi faceva le fusa e mi teneva compagnia. Un giorno la trovai morta stecchita in cortile. Rimasi impalato a osservare quel corpo esanime per una manciata di secondi, poi mi voltai e rientrai di corsa in casa come se avessi visto un fantasma. Ero terrorizzato. Fu il mio primo contatto con la morte. Non volli uscire di casa fino al giorno seguente.

 

Diciamo la verità: da piccolo non eri esattamente un cuor di leone.

 

Ero un bambino introverso e pieno  di paure.  Ricordo che quando, una volta ogni tre, quattro mesi veniva a trovarci il dot- tor Oriani, il nostro medico di famiglia, lo seguivo incuriosito per tutto il tempo in cui si tratteneva a casa nostra. Lui era mol- to legato a mia madre, che lo trattava con ossequioso rispetto.  Il dottore arrivava in cascina al galoppo su un cavallo bianco, vestito di tutto punto, in nero con il suo immancabile papillon.

 

gianni letta e annalisa chiricogianni letta e annalisa chirico

Qualche volta indossava un cilindro. Era un uomo alto e austero. Noi bambini eravamo al tempo stesso intimoriti e affascinati dal- la sua presenza. Se c’era un malato da visitare, il dottor Oriani gli dava la precedenza. Poi si fermava a controllare il nostro stato di salute, ci faceva aprire la bocca, ci auscultava i polmoni percor- rendo il torace con lo stetoscopio… per fortuna, a parte qualche influenza, io e i miei fratelli eravamo sanissimi.

 

Oggi c’è una crescente diffidenza verso i vaccini. L’idea che certe malattie siano scomparse induce molti genitori a non sottoporre i figli alle vaccinazioni tradizionali.

 

È un grave errore dettato da una falsa credenza: i vaccini non fanno male, ma rinforzano l’organismo. Il virus all’origine di ma- lattie che noi crediamo debellate non è sparito dalla faccia della terra. Il fatto che la poliomielite non mieta più vittime nel nostro paese non è un dono di dio, ma il risultato delle vaccinazioni  cui si sono sottoposte due generazioni di italiani. Se nessuno si vaccina, la malattia ritorna.

 

gianni letta  paolo veronesi annalisa chiricogianni letta paolo veronesi annalisa chirico

Torniamo all’infanzia del timoroso bambino di campagna.

 

Tu esageri: non ero un totale pappamolle. A soli quattro anni ero un esperto tagliatore d’erba, sapevo ammassare il fieno in cumuli più alti di me. Il fieno è un nutrimento portentoso per  le mucche. Noi, invece, mangiavamo polenta in gran quantità. Di pasta se ne vedeva poca, ogni tanto comparivano a tavola dei formaggi locali accompagnati da una marmellata preparata in casa. Per i dolcetti bisognava aspettare Natale e Pasqua. La vita di campagna scorreva placidamente all’insegna della   frugalità.

 

 

I mezzi erano esigui, le rinunce innumerevoli. Tuttavia, se mi guardo indietro, ho di me il ricordo di un bambino felice. Vive- vo attorniato da pecore, puledri, vitelli, e quella realtà bucolica mi faceva sentire appagato, come se non avessi bisogno di altro, come se fossi in pace con il mondo. Un grande cambiamento rivoluzionò le nostre vite quando nel piccolo bagno al piano superiore, l’unico della casa, il gabinetto fece la sua prima apparizione.

sala gianfranco imperatorisala gianfranco imperatori

 

Papà per lungo tempo non volle avvalersi della moderna diavoleria, la guardava con diffidenza e poi si recava in giardino per consegnare alla terra, secondo consolidate usanze, i propri bisogni corporali. Io invece ne apprezzai subito la comodità, sebbene d’inverno la tavoletta del water fosse ghiacciata. C’era però un problema: il bagno, come ti dicevo, si trovava al piano superiore, illuminato dalla luce fioca di due lampadine (di cui una era sistematicamente fulminata). Perciò chiedevo a mio fra- tello Antonio di scortarmi fin su, perché avevo paura del buio. «Ti  giuro che faccio presto,  tu però rimani là», lo     imploravo.

 

«Certo, Umberto, vedi la mia scarpa? Fin quando la vedi, io so- no qua», mi rassicurava il malandrino. Puntualmente scoprivo che Antonio aveva abbandonato lì la scarpa ed era sgattaiolato via. La sera, prima di andare a letto, si celebrava una processio- ne con mamma Erminia in capo e noi figlioletti in coda, uno dietro l’altro. La chioccia raccoglieva la brace del camino e la disponeva in un pentolone di rame dal manico lungo e i bordi bucherellati. Salivamo su per le scale al piano superiore.

 

gianni letta  giuliano amatogianni letta giuliano amato

Una volta giunti ai piedi del letto, la mamma metteva sotto le co- perte il pentolone rovente per qualche secondo; non appena lo aveva estratto, io e i miei fratelli ci infilavamo a turno nel letto intiepidito. D’inverno la temperatura scendeva a tal punto che di primo mattino il bicchiere d’acqua sul comodino si rivestiva di ghiaccio, ma in quei casi la mamma si premurava di sostituir- lo con un altro prima del risveglio. Qualche volta piazzava nel letto il prevost, una specie di gabbia di legno che conteneva all’interno  un  cubo  di  terracotta  colmo  di  brace. 

 

Insomma, escogitava mille rimedi per attenuare il gelo della campagna invernale. Chi mitizza «i bei tempi antichi», come dici tu, pensa ai casali di campagna di oggi, dove tra riscaldamento e WiFi ci godiamo pezzi di città immersi nel verde.

gianni letta  giuliano amato paolo veronesi  annalisa chirico barbara palombelligianni letta giuliano amato paolo veronesi annalisa chirico barbara palombelli

 

 

All’epoca non c’era neanche l’acqua calda, figuriamoci il WiFi. La campagna degli anni trenta era miseria. E la miseria porta con sé il ritorno a una barbarie primitiva. La nostalgia     è un sentimento che può concedersi soltanto  chi non  abbia mai conosciuto la fame. Se nelle campagne di allora moriva un figlio, il commento frequente dei genitori si esauriva in un lapi- dario: «La croce ci ha aiutato». Non per un gusto macabro di morte, ma per una necessità vitale: dividere un piatto di polenta in quattro anziché in cinque faceva differenza. La morte di  uno poteva valere la sopravvivenza di un altro. Ricordo che un giorno mia madre rincasò visibilmente sconvolta.

barbara palombelli e annalisa chiricobarbara palombelli e annalisa chirico

 

I miei fratelli le chiesero perché fosse così turbata e lei ci raccontò la storia   di cui era appena venuta a conoscenza. Nei pressi della nostra cascina abitava un uomo che  era  caduto  in disgrazia.  Dopo un gran da fare, era riuscito a chiudere un buon affare per la vendita dell’unica mucca che gli era rimasta. Così, dopo aver intascato l’agognata somma e averla riposta sul tavolo, l’uomo era uscito per accompagnare l’acquirente all’esterno della di- mora.

 

Rientrato si accorse subito che i soldi non erano più sul tavolo, si voltò e vide il suo bambino di cinque anni che gettava le banconote, una a una, tra le fiamme del camino. L’uomo per- se il senno e si avventò sulla creatura inerme con una violenza inaudita. Il bambino era stato ritrovato quella stessa mattina carbonizzato. La mamma parlava e singhiozzava, non riusciva a trattenere le lacrime. Io conoscevo quel bambino, avevo giocato con lui qualche volta. Rimasi in silenzio, con lo sguardo fisso nel vuoto.

 

Come trascorrevate le ore sottratte al lavoro nei campi?

 

 

annalisa chirico e paolo veronesiannalisa chirico e paolo veronesi

Nel tempo libero si stava in famiglia, riuniti attorno alla brace. In casa si parlava il dialetto milanese: se a qualcuno scappava  per caso una parola in italiano, tutti gli altri si voltavano    a guardarlo con un misto di spaesamento e disapprovazione. L’italiano era lingua straniera. E la scuola era nemica della cam- pagna. Tranne che per i miei genitori, che avevano frequentato fino alla quinta elementare, all’epoca un autentico demarcatore sociale, e volevano perciò che i propri figli andassero a scuola a tutti i costi. Quasi ogni giorno mio padre acquistava una copia del «Corriere della Sera».

 

Dopo una giornata di lavoro, quando la famiglia si radunava attorno al grande tavolo nel salone princi- pale riscaldato dal camino, le quattro pagine del «Corriere», che allora non aveva la foliazione attuale, costituivano la principale attrazione. Tutte le sere si recitava il rosario: l’incipit spettava puntualmente a mamma Erminia: Ave Maria, gratia plena; noi figli rispondevamo in coro: Sancta Maria, Mater Dei… Era una recita collettiva alla quale mi prestavo, pur non comprenden- done a pieno il significato, tantomeno in lingua latina.

 

Quelle parole antiche e criptiche conferivano al rito collettivo un’aura mistica, mi facevano sentire parte di un gruppo. Con il passare degli anni avrei presto abbandonato le pratiche religiose per muovermi verso altri lidi, quelli della razionalità scientifica. A quindici anni ho cominciato a leggere i grandi antropologi, tra cui Ernesto De Martino e, più tardi, Claude Lévi-Strauss.

 

gianni letta con giuliano amatogianni letta con giuliano amato

Sono arrivato presto alla conclusione che la religione è una nostra pro- iezione e che, in molti casi, risponde a un bisogno consolatorio che soltanto la fede nella trascendenza può offrire. A diciotto an- ni ero completamente agnostico, termine che preferisco a quello di «ateo»: non posso affermare la non esistenza di dio, non ne ho alcuna prova. Mi reputo piuttosto un uomo che non sa e che vive serenamente alla ricerca continua del significato del mondo fuori e dentro di noi.

 

 

Eppure recentemente hai scritto che, «allo stesso modo di Auschwitz, il cancro è la prova della non esistenza di dio». Il fisico Antonino Zichichi ti ha risposto per le rime, affermando che la scienza non ha mai scoperto nulla che sia in contrasto con l’esistenza di dio, e che dietro a stelle e galassie c’è una logica rigorosa. E dunque un Autore.

 

 

 

giuliano amato  gianni lettagiuliano amato gianni letta

Non ritengo di avere prove della non esistenza di dio. Credo soltanto nelle cose che posso dimostrare attraverso l’esperienza. Ciò non toglie che ho difficoltà a pensare che, se un dio esistesse, permetterebbe atrocità inaudite come lo sterminio degli ebrei. All’Istituto nazionale tumori visitavo spesso il reparto di pedia- tria e, quando vedi un bambino invaso da cellule maligne che  lo consumano giorno dopo giorno, non puoi più credere nella Provvidenza o nell’amore divino.

 

È questo il senso autentico del- le mie parole che hanno destato scalpore. Zichichi mi ha risposto da uomo di fede qual è. Ma io non credo che dietro a stelle e galassie ci sia un Autore divino. Studiando medicina le mie con- vinzioni si sono rafforzate, noi esseri umani non siamo altro che animali evoluti con un cervello straordinariamente sviluppato e in continua trasformazione.

 

Un uomo di scienza può essere anche un uomo di fede? Se si studia Darwin come si può credere nella Creazione?

 

Ho diversi colleghi – non moltissimi – che sono scienziati e credenti. Alcuni di loro sono mossi da una fede autentica, altri   si adattano a una convenzione. La fede viene inculcata sin da bambini e non è facile liberarsene. Quel che è certo è che scienza e fede non vanno d’accordo. La fede comporta una rinuncia alla verifica; la fede è cieca. Chi è credente e ha fede non può che essere un fondamentalista, perché crede in una serie di dogmi.  Il fedele è per definizione un fondamentalista. Lo scienziato, invece, è un possibilista. Lo scienziato vive nel dubbio; il dubbio è la sua forza. Mettere insieme fondamentalismo e possibilismo è un pasticcio. Lo scienziato credente è un’anomalia.

 

giuliano amato e gianni lettagiuliano amato e gianni letta

Il tuo distacco dalla fede è stato fonte di dolore per tua madre che vi imponeva il rosario tutte le sere.

 

 

Mia madre avrebbe sofferto a non vederci tutti partecipi. E nella mia vita ho cercato di non farla soffrire. Non sempre ci sono riuscito. La domenica era una gran festa: non c’era soltanto la messa alla quale non potevo sottrarmi (a me, alla stregua dei miei fratelli, è toccato fare il chierichetto), ma il settimo giorno della settimana era soprattutto il giorno della «Domenica del Corriere», il «settimanale degli italiani» che apriva una finestra sull’Italia e sul mondo. In edicola costava dieci centesimi, era  un lusso che papà poteva concedersi.

 

Credo che i miei occhi incuriositi lo ripagassero di ogni sforzo. La prima e l’ultima di copertina erano illustrate da un disegnatore, allora sconosciuto, di nome Achille Beltrame. In prima veniva immortalato l’evento della settimana: l’affondamento di una nave, il record battuto da un atleta, il primo volo di un aereo pilotato da una donna. Dopo la scomparsa di Beltrame, nel 1945, lo avrebbe sostituito Walter Molino. Era imperdibile il racconto giallo dal titolo La realtà romanzesca. Non mancavano mai le pagine internazionali che ac- cendevano i riflettori su una carestia in India o su un’epidemia in Africa. E poi c’era la pagina ripiegata che voleva dire «vietato».

giuliano amato e paolo veronesigiuliano amato e paolo veronesi

 

Di solito era una ballerina scollacciata o una donna africana a seno nudo smagrita dalla fame. Mia madre ci proibiva di guar- darla. Ogni tanto davo una sbirciatina di nascosto. Negli anni venti e trenta la «Domenica del Corriere» divenne il periodico più venduto in Italia, uno dei principali strumenti d’informazio- ne non solo per la borghesia colta, ma anche per ampi strati della popolazione alfabetizzata.

 

È un po’ difficile immaginarti nelle vesti di chierichetto.

 

Eppure ero un chierichetto inappuntabile, cosa credi. Non mi perdevo mai una messa né un rosario, mi presentavo sempre in perfetto orario e la mia tunichina era la più linda di tutte. Il prete che mi seguiva si chiamava don Giovanni, gli ero molto   legato.

 

 

giuliano amatogiuliano amato

Mi elevò al grado di «paggetto», una vera e propria onorificenza ecclesiale. Don Giovanni veniva a trovarci nella nostra cascina. Arrivava in bicicletta, sempre un po’ trafelato dalla lunga pedala- ta, che, per un uomo grasso come lui, non era una passeggiata di salute. Devo dire che il suo aspetto era gradevole e, soprattutto, gli conferiva carisma: alto e robusto, il viso rubizzo con due occhi di colore blu intenso. Era un abile affabulatore, un persuaso- re professionista, sapeva usare le parole giuste e calibrare la voce per ottenere l’effetto desiderato, a seconda che volesse infondere fiducia nel suo interlocutore, consolarlo oppure dare un consi- glio con tono perentorio.

 

Partiva dalla parrocchia del Redentore, all’epoca periferia di Milano, in zona Loreto, dove oggi c’è anche una fermata della metropolitana. Spesso restava a mangiare con noi. Quando poi in primavera celebravamo la festa degli aspara- gi, lui diventava l’ospite d’onore e si teneva un grande pranzo. Io di solito stavo in cucina con le donne che preparavano il cibo per «i signori uomini», come diceva mia madre in tono polemico.

 

invitatiinvitati

Mi piaceva osservarle mentre armeggiavano tra uova e farina, smi- nuzzavano le verdure, impastavano, mischiavano gli ingredienti e mestavano la polenta. Poi, dopo il nostro trasferimento in città, ci perdemmo di vista per anni, fin quando un giorno don Giovanni mi ricomparve davanti agli occhi in un luogo dove avrei preferito non incontrarlo mai, l’Istituto nazionale tumori.

 

Lavoravo lì e mi toccò assisterlo in una serie di esami dai quali scoprimmo che aveva un tumore al colon in stadio piuttosto avanzato. Mi chiese di operarlo personalmente. Non mi tirai indietro. In quei giorni di ricovero gli rivelai che avevo perso la fede. Esitò a crederci, poi capì che parlavo sul serio e non mi nascose una profonda amarezza.

 

libro presentatolibro presentato

L’intervento andò bene e il giorno delle dimissioni don Giovanni mi fece promettere che sarei andato a trovarlo  una volta ogni quattro mesi nella nuova parrocchia dove si era trasferito, in un paesino di campagna vicino Milano. Io rispettai l’accordo e da lì cominciammo a incontrarci sporadicamente per conversare sul senso della vita e della fede, per aggiornarci  sul suo stato di salute e sulla mia carriera. Don Giovanni era un uomo di letture colte; insieme leggevamo poesie e fu lui a ini- ziarmi alle opere di Vladimir Majakovskij ed Emily Dickinson.

 

melania rizzoli  chicco testa e raffaella manginimelania rizzoli chicco testa e raffaella mangini

Bevevamo vino rosso che, diceva don Giovanni, era «un elisir  di lunga vita», e ci tenevamo compagnia ricordando i tempi in cui lui arrivava in cascina in bicicletta e io ero solo un timido bambino di campagna. Dopo un paio d’anni che ci eravamo ritrovati, purtroppo il male ricomparve. Lo visitai e scoprii che una massa dura e voluminosa si era riformata nell’addome. Era una metastasi al fegato che all’epoca non avevamo i mezzi per trattare efficacemente.

 

melania rizzolimelania rizzoli

A quel punto gli feci l’ultima promessa, gli dissi che non avrebbe sofferto. E lui apprezzò, perché non fa- ceva parte di quei credenti che praticano il culto del dolore nella speranza che li avvicini a dio. Lui non voleva soffrire. Rifiutava  il dolore. L’ultima sera insieme, prima di salutarci, mi disse: «Ti ringrazio per la carità che dimostri pur non avendo la fede. C’è tanta fede senza carità». Fu il nostro ultimo saluto.

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