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IL DADA E’ TRATTO: MAN RAY IN ITALIA – SE LA VITA DEVE ESSERE PROVACAZIONE, LA PROVOCAZIONE DEVE ESSERE ARTE – ‘’UN OCCHIO CHE TENDE A GUARDARE AL PROPRIO INTERNO PIÙ CHE ALL’ESTERNO’’

1- MAN RAY L’ARTISTA CHE DIVENNE UNO, NESSUNO, CENTOMILA

Michele Smargiassi per “la Repubblica

 

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Tic- toc, tic-toc... Incollato al ritmo perfetto dell’asta di un metronomo, l’occhio dell’amante perduta oscillava, persecutore. La storia è nota: era la foto di un occhio della bellissima Lee Miller, e Man Ray esorcizzava così, nel 1932, il dolore dell’abbandono. Secondo i suoi stessi piani avrebbe dovuto distruggerla, quell’opera auto-terapeutica, con un «colpo ben mirato di martello», quando il suo rintocco l’avesse esasperato del tutto.

 

Lo fece solo nel 1957. Man Ray aveva un alto grado di sopportazione. Più che un’opera, il metronomo è un’autobiografia. L’esistenza dell’“uomo-raggio”, ineffabile attraversatore di avanguardie del Novecento, fu un movimento pendolare tra eccitazione e delusione, gioia e sofferenza, bohème e lusso, volontà e caso; fra Parigi e l’America, fra pittura e fotografia, fra arte e vita.

 

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Ogni volta che si cerca di ricostruirla, come fa la grande retrospettiva a Villa Manin (a cura di Guido Comis e Antonio Giusa, fino all’11 gennaio 2015), bisogna fare i conti con l’evidenza: la più coerente opera di Man Ray fu Man Ray. Era un ragazzo sveglio, il figlio di immigrati ebrei russi Emmanuel Radnitzky di Philadelphia, aveva le idee chiare: voleva fare il pittore. Ma il destino aveva le idee più chiare di lui e non glielo lasciò del tutto fare.

 

Fu la fotografia a dargli la fama e i soldi che aveva sognato nella stamberga della comunità proto-hippy di Ridgefield, New Jersey, pasticciando con i pennelli, affascinato dal cubismo. E questo un po’ lo contrariò. Il suo celebre epigramma, «dipingo quello che non posso fotografare, fotografo quello che non voglio dipingere», è assai tardivo (lo scrisse per una mostra a Torino, nel ‘74, due anni prima di morire) e suona più rassegnazione che proposito. 

 

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La fotografia l’aveva incontrata nelle gallerie di Alfred Stieglitz, il pontefice newyorkese del bianco e nero, ma voleva servirsene solo per riprodurre i suoi quadri. Tuttavia, quando nel 1921, trentunenne, stufo di incomprensione in patria, con cento franchi in tasca e un baule di dipinti sbarcò a Parigi, la fotocamera gli si offrì come mezzo di sostentamento. Il sarto Poiret lo scritturò per fotografare le sue creazioni.

 

I suoi ritratti piacevano agli artisti e alle gentildonne. Sapeva poco o nulla di tecnica, ma quelli erano anni strani. Una botta inavvertita al cavalletto, e la contessa Casati si ritrovò con due paia di occhi. «Meraviglioso! È il ritratto della mia anima! » trillò la nobildonna, e retribuì profumatamente.

 

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Era arrivato a Parigi con tre propositi: parlare francese, fare fotografie e imparare la danza. Raggiunti tutti e tre. Decisamente basso ma proporzionato, quell’ometto gradevole che aveva scelto uno pseudonimo da fumetto faceva furore in società. Di più, l’americano a Parigi piaceva alle donne, moltissimo.

 

Non riusciva ad avere solo modelle: amanti. Colse la perla più ambita, la chanteuse Kiki di Montparnasse, regina del tabarin, curve morbide e boccuccia a cuore. La rimpiazzò poi con una biondina americana esile e algida che si era presentata al suo studio dicendo: «mi chiamo Lee Miller, lei non lo sa ma sono la sua nuova assistente». Insieme fecero follie, erano la perfetta coppia da cronaca mondana, al ricevimento elegante dei Pecci Blunt si presentarono in divisa da tennisti.

 

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La vita era provocazione, la provocazione era arte, Dada impazzava. L’amico Duchamp aveva presentato a Man Ray una truppa di irregolari, Aragon, Soupault, Breton, Éluard, era il surrealismo in fasce e Man Ray ci saltò dentro a piè pari. Voleva essere il pittore del movimento. Ne fu il fotografo, un po’ renitente.

 

Raccontò sempre le sue celebri invenzioni in camera oscura come scoperte casuali: i rayogrammi, perché gli capitò di lasciare oggetti su un foglio di carta sensibile e quelli vi impressero le loro magiche ombre bianche; le solarizzazioni, perché Lee, spaventata da un topo, accese la luce in laboratorio prima del fissaggio di un ritratto, e quello si circonfuse d’una strana aureola.

 

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Miracolose serendipità non progettate. Come se Man Ray resistesse all’idea di essere diventato celebre grazie a un’arte che non aveva scelto, e la tenesse a distanza. «La fotografia non è un’arte», continuò a ripetere. «Del resto», aggiungeva beffardo, «l’arte non è fotografia». Tic-toc, oscillò Per decenni come un metronomo fra le due, sovrapponendole fino a «completare il circolo di confusione». Molto dada. Geloso delle sue pitture e ossessionato dal perderle, era indifferente alla sorte delle sue foto, che lasciava ristampare a volontà (per il caos delle expertise e la gioia dei falsari).

 

Completò altri circoli. Assaggiò il cinema, con cortometraggi d’avanguardia (recuperati e visibili in mostra a cura di Carlo Montanaro, bella sorpresa). Tornò in Usa quando i cieli di Parigi si corrugarono di guerra, e scelse Hollywood, nientemeno. Comprò una macchina sportiva, pigiava l’acceleratore come un teddy boy.

 

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Si godeva la fama. Ma dopo la guerra tornò per la seconda volta a vivere sotto la Tour Eiffel, e si dedicò alla sua nuova passione per gli oggetti engmatici. Fu forse più ammirato che amato, ma amò molto. Le sue opere, le sue donne. Juliet Browner, ballerina, fu l’ultima, la più fedele, la più adorata. Le dedicò un’ossessiva infinità di ritratti. Tutti fotografici. Tic-toc.

 

2 - L’ALTRO DUCHAMP CHE GETTÒ OMBRE E DUBBI SULLA REALTÀ

Achille Bonito Oliva per “la Repubblica

 

Man Ray è l’artista dadaista che ha con la realtà un rapporto per interposta persona, attraverso il diaframma dell’occhio fotografico. Un occhio che tende a guardare più che all’esterno al proprio interno, nel senso di un procedimento che vuole svelare più se stesso che l’oggetto fotografato. Quando l’artista cattura l’oggetto esterno, lo interdice ricoprendolo materialmente di mistero e di un alone che lo rende indeterminato, cioè poco adatto a essere oggetto di uno sguardo statistico sulla realtà. 

 

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Così Man Ray fotografa e intitola Il mistero di Isidore Ducasse un lavoro in cui attraverso la macchina fotografica riprende il paradigma di Latréamont: una macchina da cucire e un ombrello messi vicino su un tavolo anatomico. Ma gli oggetti non sono fotografati come li dichiara il poeta francese nei suoi Canti di Maldoror. Qui gli oggetti sono occultati e interdetti alla vista da una coperta tenuta ferma da una corda che impacchetta l’associazione poetica. Ora scatta un nuovo paradosso.

 

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Generalmente il procedimento fotografico è una sorta di macchina del cannibalismo, nel senso che fagocita e introietta tutto quello che registra. Il fuori diventa dentro, l’oggetto viene decontestualizzato dalle relazioni funzionali che lo accompagnano nella sua vita quotidiana e assorbito dentro la macchina oscura. Il paradosso consiste nel dare la conoscenza dell’oggetto non attraverso la fotografia, bensì attraverso il titolo, un intervento extra fotografico che dà l’informazione interdetta.

 

Questo significa che l’artista non usa il mezzo fotografico nella sua patetica certezza, ma, con intenzione maligna, ne esibisce la falsa frontalità, capovolgendola mediante l’obliquo intervento di un’intelligenza critica.

 

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Man Ray ci fa altri regali, presenta altri paradossi visivi che sono sempre una messa in scacco dei normali processi di conoscenza. Esemplare è l’opera intitolata Cadeau, un oggetto- regalo che consiste nella presentazione di un comune ferro da stiro, rafforzato dalla presenza di una fila di chiodi.

 

Ora il ferro da stiro non stira più, lacererebbe ogni cosa. Ora l’oggetto è assolutamente defunzionalizzato, dirottato dalla sua funzione abituale a quella della propria esibizione formale. Ancora una volta l’artista promuove la messa in opera di un’indeterminatezza, contraria alla certezza visiva a cui tende normalmente la fotografia che ci dà sempre una quantità d’informazioni sulla realtà.

 

Perciò l’artista, anche quando presenta oggetti e opere oggettuali successivamente li fotografa, proprio perché egli intende privilegiare un uso inedito del procedimento fotografico. Anche i rayogrammes rispondono alla stessa esigenza, anzi proprio in quanto scavalcano alcuni passaggi del normale procedimento fotografico, ne amplificano la portata.

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Man Ray, americano contagiato dall’intelligenza paradossale di Duchamp, applica il pragmatismo tipico della sua cultura per privilegiare non l’oggetto ma il processo, non il fatto ma il fare. Il fare di questo artista smaterializza l’arte e costituisce al suo posto il privilegio dell’ombra e del dubbio. Il procedimento dell’ombra consiste nel rimandare e nell’affermare non la realtà ma il suo doppio, non il tempo statico di una conoscenza cartesiana ma il tempo problematico di un’intelligenza critica che tutto conosce ma nulla riconosce.

 

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