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ENZO MARI, DESIGNER – ‘’OGGI NELL’ARTE SI PRODUCE SOPRATTUTTO MERDA’’ – “ORMAI SI DICONO SOLO CAZZATE. LA CREAZIONE È UN ATTO DI GUERRA NON UN ARMISTIZIO CON LA REALTÀ’’ – ‘’NON SI PUÒ SOVRAPPORRE LA BELLEZZA ALLE SITUAZIONI DI VITA. ED È LA VITA CHE CONTA‘’

Antonio Gnoli per “la Repubblica”

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La faccia scavata e in parte coperta da una barba bianca, i capelli leggermente arruffati e lo sguardo severo e perso. Enzo Mari somiglia a Ezra Pound: «Dopo gli ottant’anni tutti i vecchi somigliano a Pound», dice con leggero sarcasmo. Siede su un divano, disegnato da lui. Gli sono accanto. Incollato da sentirne il respiro, le pause, la disperazione: «Non è un divano. È la mia nave. Ci vivo da anni. Salgo a bordo la mattina e scendo la sera. Qualche breve intervallo. Pisciare. Mangiare. Rispondere a qualche scocciatore. Dormire. Io e questo cazzo di divano siamo diventati una cosa sola. Potrei ancora progettare da qui; richiamarmi alla realtà, il solo tabernacolo al quale mi inchino. Ma so che è tutto inutile. Superata una certa soglia mentale tutto diventa inutile».

 

Qual è la parola meno inutile che conosce o che oggi impiegherebbe?

«È la parola “cazzate”. Ormai si dicono solo cazzate. Conosce per caso discorsi seri, argomentati, convincenti in grado di spiegare il nostro presente?».

 

Cosa intende per “cazzate”?

«È la nostra inadempienza – morale, estetica, conoscitiva – verso il mondo. Una parola di denuncia, intendo questo. Ma non serve. È inutile, come questa città nella quale vivo».

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Lei è nato a Milano?

«Sono nato nel 1932 in un ospedale di Novara. Fino all’età di 3 anni ho abitato con la famiglia a Cerano. Sulla sponda del Ticino dalla parte del Piemonte. Poi ci trasferimmo a Milano».

 

Immagino per lavoro.

«Mio padre non sapeva fare nulla. Sopravviveva. Mia madre stagionalmente faceva la mondina. Una figura fin troppo mitizzata. Altro che belle ragazze con le cosce tornite e i seni prosperosi. Tornava, la mamma, che era uno straccio. Eravamo persone molto povere. Isolate. La sola compagnia veniva dalle zanzare. Mi hanno voluto bene, intendo i miei. Ma non ricordo un gesto di intelligenza, di generosità. Era un affetto rassegnato, il loro».

 

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A Milano come fu l’impatto?

«Non lo ricordo. Mio padre trovò un lavoro più stabile in una bottega di barbiere. Sarebbe stato questo, in seguito, il suo mestiere. Aveva programmato un figlio ogni cinque anni. Non so cosa gli frullasse per la testa. So, che in seguito, nacquero un fratello e una sorella».

 

La sua adolescenza?

«Tra la guerra e il dopo. Ci fu l’occupazione nazista. La città brulicava di tedeschi e di fascisti. Il quartiere generale dei nazisti era all’Albergo Regina. Vi si era installata la Gestapo. E poi c’era San Vittore, diventato il carcere delle torture. Un altro luogo del terrore era Villa Trieste, tristemente celebre grazie alla Banda Koch ».

 

Come visse quei mesi?

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«Non furono mesi. Ma quasi due anni durissimi, dal 1943 al 1945. C’è un episodio che mi torna alla mente. Eravamo verso la fine. Scuola elementare. Quarta o quinta. Il maestro ci dà un tema: descrivete la vostra città. Consegno il foglio. L’insegnante comincia a elogiare tutti i temi, tranne il mio. Anzi, neppure mi nomina. A quel punto scoppio a piangere».

 

E cosa accade?

«Il maestro mi si avvicina e mi dice: non devi piangere, il tuo era il componimento più bello, ma se lo avessi elogiato, sia tu che io, avremmo rischiato la rappresaglia. Avevo raccontato la violenza della città, gli ammazzamenti cui avevo assistito. Il gioco sadico con cui le milizie fasciste legavano la corda al collo dei malcapitati e lentamente stringevano fino al soffocamento. Sui banchi di scuola alcuni compagni più grandi di me esibivano minacciosi la rivoltella».

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Finita la guerra e l’occupazione?

«Milano, come Roma suppongo e altri centri, viveva in uno stato di febbrile eccitazione. Mi sentivo un estraneo».

 

Perché?

«Era il senso della sopravvivenza che si imponeva su tutto il resto. Ecco, mi sentivo un sopravvissuto. Non avevo strumenti per relazionarmi agli altri. Non sapevo parlare. Né ridere. Trovai un lavoretto che per un po’ mi permise di guadagnare qualche soldo. Svuotavo le cantine dei condomini dalla spazzatura. Ci fu gente in passato che uccideva i chiari di luna, io uccidevo topi della stazza di un bassotto».

 

E la Milano culturale?

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«Quale? Non avevo nessun rapporto. Intendiamoci cominciavo ad avere le mie idee in fatto di arte e di design. Mi iscrissi all’Accademia di Brera. In realtà fu un espediente per evitare il servizio militare. Giravo per gallerie, assistevo a qualche conferenza. Ma restavo sempre zitto. Silenzioso. Guardavo con disprezzo le cose del mio piccolo mondo. Cominciavo a interessarmi agli effetti della percezione visiva e al ruolo sociale che poteva rivestire il design».

 

Una figura importante è stata per lei Bruno Munari.

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«Sì, in lui avevo individuato la persona più vicina al mio modo di concepire l’arte. Era più grande di me. Forse aveva l’età di mio padre. Andai a trovarlo. Mi disse dove raggiungerlo. Pensai che avesse uno studio. Invece lavorava a casa. Lo vidi su un divanetto con un taccuino in mano che disegnava. Gli mostrai i miei lavori. Li apprezzò. Mi incoraggiò e in seguito collaborammo ad alcuni progetti comuni».

 

Che anni erano?

«La seconda metà degli anni Cinquanta. Alla fine di quel decennio sia Munari che Max Bill scrissero una piccola monografia su di me. A Max estorsi un testo andando a trovarlo in Svizzera. Con Bruno il rapporto si era consolidato. Tanto che nel 1962 realizzò per la Olivetti la mostra “Arte Programmata”. Fu un successo che in seguito esportammo in giro per l’Europa e a New York».

 

Cos’era l’”Arte Programmata”?

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«L’espressione la coniò Munari, credo insieme a Giorgio Soavi, in quegli anni il punto di riferimento artistico culturale alla Olivetti. Si trattava di un lavoro sulle neoavanguardie cinetiche. Ossia quei gruppi di artisti (Gruppo N, Gruppo zero, Grav) o singoli – come Alexander Calder, Jean Tinguely, Salvatore Scarpitta – che avevano in qualche modo posto al centro l’idea della macchina come espressione del vivente».

 

Le macchine di fatto già occupavano la vita delle gente. Dov’era la novità?

«Munari aveva profeticamente colto proprio il senso di alienazione e di asservimento che dalle macchine si originava. E immaginò che l’artista con i suoi oggetti “cinetici” potesse riscattare questo stato di servitù. Condividevo il suo punto di vista, anche se Bruno restava un idealista e io ero un materialista».

 

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Materialista nel senso?

«Tutto il mio lavoro è sempre partito dalla realtà. Per me il problema era chiaro: si realizzano cose per sopravvivere. Nel nostro mondo industriale non sono i sogni e le favole a guidare i progetti. È il profitto. Come rispondi al profitto? Il design italiano – indiscutibilmente grande – ha pensato che l’estetica fosse la soluzione. L’alibi. Franco Albini, Achille Castiglioni, Ettore Sottsass, Marco Zanuso – tutti di una generazione precedente alla mia – hanno guardato all’estetica. Io alla forma».

 

Dov’è la differenza?

«Un oggetto non deve piacere a tutti; deve servire a tutti. Indipendentemente da quello che ciascuno pensa. Dalla fede che ha. Dall’ideologia che persegue. Naturalmente è un’idea limite. Ma l’ho sempre considerata un mio precetto. Non si può sovrapporre la bellezza alle situazioni di vita. Ed è la vita che conta. Ha mai visto le case del Sud?».

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A cosa allude?

«Al fatto che quasi sempre sono costruzioni mai finite. Non c’è mai un tetto, ma tondini di ferro che spuntano come lance, mattoni a nudo, scheletri di muretti. Pensano che prima o poi aggiungeranno un altro piano. Questo pensano, nel nome della vita. Fottendosene dell’estetica ».

 

Ma come fa un artista a escludere la bellezza dal proprio orizzonte?

«Non so cosa voglia dire essere artisti. Particolarmente oggi che nell’arte si produce soprattutto merda ».

 

Tutto il suo lavoro come lo definirebbe?

«Un tentativo di arginare la merda. Ciò che conta è la conoscenza. E questa deve basarsi sull’esperienza storica. La qualità di questo mondo è terrorizzante. Forse esagero con l’idea di purismo. Ma sono convinto che nella forma vada eliminato il superfluo per ritrovarla povera, essenziale».

 

C’è una forma in particolare che accetta?

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«Una forma è giusta se è; non è giusta se sembra. Decenni di postmoderno hanno avvelenato l’aria, più dell’Ilva di Taranto. Un guazzabuglio di pensieri e di teste fintamente pensanti hanno liberato le forme dalla loro responsabilità. E pensare che il cervello è la macchina più potente che ci sia! Ho sempre insistito con i miei allievi: usatelo. Uscite dal conformismo. Dimenticate i libri e le pubblicazioni scolastiche. Ragionate con la vostra testa».

 

A proposito di libri, lei è famoso anche per avere ideato parecchie copertine.

«Famoso non saprei. Nel 1963 progettai la grafica delle prime copertine Adelphi, per la collana i classici. Poi anche per la Boringhieri e altre case editrici».

 

Anche qui il principio dell’essenzialità?

«Sì. Se il testo è giusto non ci sono parole più importanti di altre che vanno in qualche modo gridate o sottolineate ».

 

Cosa legge?

«Un tempo leggevo di tutto. Oggi mi limito ai testi scientifici. Perché lì non si può barare. Non si possono sovrapporre sogni».

ALBERTO ALESSI, ACHILLE CASTIGLIONI, ENZO MARI, ALDO ROSSI e ALESSANDRO MENDINI, designer, Milano, 1989ALBERTO ALESSI, ACHILLE CASTIGLIONI, ENZO MARI, ALDO ROSSI e ALESSANDRO MENDINI, designer, Milano, 1989

 

Lei ha un figlio scrittore: Michele Mari.

«Ho anche una figlia e diversi nipoti. E una moglie, Lea Vergine».

 

Comincerei da suo figlio.

«Lo vedo di rado. Anzi quasi mai».

 

Ha dichiarato, o scritto, che è stato un padre difficile, importante, per certi versi terrorizzante.

«Se esistesse un Dio – e non esiste – si rivelerebbe nei bambini, nella loro straordinaria purezza e intelligenza ».

 

Cosa intende dire?

«Che alla nascita l’infanzia non è condizionata dal nostro sistema di regole e di comunicazione. Sono in disaccordo con le persone che vezzeggiano i bambini. Non gli si insegnano le parole giuste. Ho molto rispetto per loro, perché dargli delle regole?».

Insomma, la cura è una forma di indifferenza e di severità.

LEA VERGINE LEA VERGINE

 

«Non c’è cura. C’è il carattere». Quello di suo figlio è abbastanza franco da continuare così: “Mio padre mi ha insegnato a non curarmi degli altri, mi ha insegnato a non cercare mai di piacere agli altri. Ero un bambino depresso. Ma per lui essere soli era un titolo di merito. Mi diceva: le aquile volano da sole, i polli razzolano in compagnia e io mi bevevo quello che diceva...”. Si riconosce?

LEA VERGINE E ENZO MARI LEA VERGINE E ENZO MARI

«Il confronto etologico sulla natura dei diversi volatili mi pare conservi una sua verità spicciola. Vede, di mio figlio giovanissimo apprezzavo la forte capacità di autonomia rispetto al bric-à-brac delle cose che venivano raccontate. Era la riprova che i piccoli rappresentano un universo a parte».

 

Poi crescono, si integrano e arriva la delusione. Questo intende?

«Intendo che alla fine ciascuno è un’isola. Ogni testa è un’isola. Vorrei farle una domanda io. Anzi avrei dovuto fargliela prima di iniziare questa discussione: le piace la situazione attuale?».

 

LEA VERGINE E ENZO MARI LEA VERGINE E ENZO MARI

No, non mi piace. Ma non invertirei i ruoli.

«Perché no. Mi giudica così vecchio da essere rincoglionito? ».

 

Non la giudico. Al contrario, apprezzo la sua franchezza.

«Non le sembra che il mondo vada a scatafascio e che quell’antico conflitto tra padri e figli – con l’immancabile condimento del mito – sia diventato superfluo? Tutti dovrebbero progettare per evitare di essere progettati».

 

Pensa che tutti possano essere creativi?

«Magari. Ma non è così. La creazione è un atto di guerra non un armistizio con la realtà».

 

Accennava a sua moglie.

«Ci siamo conosciuti più di mezzo secolo fa. A Napoli. Io designer, lei critico d’arte giovane e bella. Ero già sposato. Aleggiò il concubinaggio. Cinquant’anni di slanci e litigi. Che dire di più? Mia moglie è la sola persona che conosca che non avendo la mentalità da casalinga si occupa della mia sopravvivenza. Da tutti i punti di vista. Senza di lei, forse starei sotto i ponti».

 

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È sempre così catastrofico?

«La vecchiaia restringe l’orizzonte. Il tempo che resta vola via. I vecchi sentono meglio l’avvicinarsi della tempesta. Conosce il detto: inutile incazzarsi, meglio farsene una ragione? Ecco. Dopotutto non sono così catastrofico. Quando un uomo anziano sparisce non è mai una vera tragedia. Sono qui sulla mia piccola “nave” e attendo che le cose si compiano».

 

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