lumiere – l'avventura del cinema lavventura l avventura

IL CINEMA DEI GIUSTI - A 130 ANNI DI DISTANZA DAL PRIMO FILM DIRETTO DAI FRATELLI AUGUSTE E LOUIS LUMIÈRE, ARRIVA "LUMIÉRE. L’AVVENTURA DEL CINEMA”, DIRETTO DA THIERRY FRÉMAUX, POTENTE DIRETTORE DEL FESTIVAL DI CANNES E DELL’INSTITUT LUMIÈRE DI LIONE - LE 120 INCREDIBILI “VEDUTE”, DIRETTE DAI GENIALI FRATELLI TRA LA FINE DELL’800 E L’INIZIO DEL 900, SONO UNO SPETTACOLO. INASPETTATO. SOTTO TUTTI I PUNTI DI VISTA. NON SOLO CI MOSTRANO LA VITA DEI NOSTRI ANTENATI IN OGNI PARTE DEL MONDO, MA CI MOSTRANO LA NASCITA DEL CINEMA, DELLO SPETTACOLO DI NOI STESSI… - VIDEO

Marco Giusti per Dagospia  

 

lumiere – l'avventura del cinema

Méliès o Lumière? Fiction o realtà. Fellini o Rossellini. Hollywood o Nouvelle Vague. A 130 anni di distanza dal primo film diretto dai fratelli Auguste e Louis Lumière, “La sortie d’usine”, “L’uscita dalla fabbrica”, ma soprattutto a 130 anni dalla prima proiezione pubblica dei film di Lumière, a Parigi, al Salon indien du Grand Café sul Boulevard des Capucines, la domanda che ci siamo fatti per tutto il 900, da quando cioè abbiamo incominciato a studiare il cinema da ragazzini, si ripete ancora una volta davanti a “Lumiére. L’avventura del cinema”, secondo film sui geniali fratelli Lumiére, diretto da Thierry Frémaux, potente direttore del Festival di Cannes e dell’Institut Lumière di Lione, che ha qui raccolto 120 incredibili “vedute” dirette dai fratelli e perfettamente restaurate dal laboratorio della Cineteca di Bologna L’Immagine Ritrovata.

 

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Per presentare il film, che uscirà nelle nostre sale il 3 aprile distribuito dalla Cineteca di Bologna e da Lucky Red, è sceso a Roma lo stesso Thierry Frèmaux, indaffaratissimo perché il 19 aprile dovrà svelare il cartellone del Festival di Cannes. Ma, va detto, e lo dico soprattutto a chi pensa di sapere se non tutto, quasi, questi 120 “vedute” dei Lumiére girate tra la fine dell’800 e l’inizio del 900, sono uno spettacolo. Inaspettato. Sotto tutti i punti di vista.

 

Non solo ci mostrano la vita dei nostri antenati in ogni parte del mondo, dalla Francia, i Lumiére inviarono i loro operatori in tutto il mondo per documentare la vita in Asia, in America, ma ci mostrano la nascita del cinema, dello spettacolo di noi stessi. Giustamente, la frase di Agnes Varda che Frémaux cita all’inizio del film ci dice che i film dei Lumiére non ci fanno vedere i nostri genitori o i nostri nonni e bisnonni, ma noi stessi. Siamo noi quello che i Lumiére stanno riprendendo con la loro scatola magica. Quasi un autoscatto, un selfie.

 

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Una scatola che nelle “vedute”, con un termine così pittorico, loro non riescono ancora a controllare da un mirino, e che piazzano da un certo punto di vista, sempre incredibilmente perfetto, per 50 secondi, la durata di un caricatore. In quei 50 secondi, nella pellicola a 35 mm (un paio a 44!) a differenza di un pittore che nella sua “veduta” ritrae un paesaggio, regista, operatore e lo stesso pubblico raccontano una storia. Che può essere un momento di vita quotidiana, un momento storico, un momento drammatico o comico (“L’innaffiatore annaffiato”).

 

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Al punto che da subito, nel secolo scorso, si disse che il realismo dei Lumière e la fiction di Méliès, possono anche scambiarsi di ruolo. In fondo anche Fellini nasceva dal cinema rosselliniano e la Nouvelle Vague civetta costantemente con Hollywood. Fu il padre dei Lumiére, il pittore, fotografo, imprenditore Antoine, che già aveva spinto i figli a sviluppare e perfezionare l’invenzione di Thomas Edison, per poter riprendere e proiettare le immagini, a inventarsi di fare del cinematografo, di queste “vedute”, uno spettacolo, affittando una sala e proiettando lì, per un pubblico pagante, di 33 spettatori, 1 franco a testa, tra questi un entusiasta Georges Méliès, i primi loro tesori.

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Nel racconto dello stesso Méliès, fu uno spettacolo incredibile, perché per la prima volta si vedevano le immagini fotografiche di uomini, animali, auto, treni muoversi. Da un punto di vista, che era quello scelto dal regista. Ha ragione Frémaux nel riconoscere alle "vedute" restaurate dei Lumière, in tutto sono 2000 e nel film se ne vedono 120, una freschezza, una purezza che nessun film di oggi può avere. Aveva ragione Kenji Mizoguchi quando diceva che prima di girare un nuovo film, come se fosse un vasaio, il regista deve togliersi qualsiasi altra immagine dalla testa, deve sciacquarsi gli occhi per poterci dare una immagine pura.

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Le vedute dei Lumiére e dell’invenzione che, secondo Louis Lumiére, sarebbe stata “senza un domani”, hanno questo incredibile potere di ripulirci di tutte le immagini che affollano pesantemente la nostra testa e sporcano i nostri occhi. Film, serie, video di Tik Tok, video dei gatti. Questo 1895 sembra incredibilmente vicino, con tutta la sua speranza per un nuovo secolo migliore. Pieno di energia per le nuove invenzioni. E che invece si dimostrerà subito un secolo pieno di guerra, di violenza e di morte.

 

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In realtà questo “Lumiére. L’avventura del cinema” di Thierry Frémaux, che vedremo al cinema dal 3 aprile, non è propriamente un documentario, è una sorta di omaggio all’opera dei Lumiére, alla bellezza delle loro immagini che ci arrivano intatte dopo 130 anni, con un commento musicale composto da soli brani di Gabriel Fauré, coevo dei Lumière, e un testo dello stesso autore letto, nell’edizione italiane, da Valerio Mastandrea. Ovviamente nessuna immagine è ricostruita con l’intelligenza artificiale, né è stata colorata. Non sia mai. Ma alla fine troverete una nuova versione del primo film dei Lumière, la “sortie de l’usine”, girata da Francis Coppola.

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