“LA MIA MALATTIA E LA GUERRA SONO SIMILI. AMPLIFICANO AL MASSIMO IL BENE E IL MALE” – LA REPORTER FRANCESCA MANNOCCHI PORTA A TEATRO I SUOI RACCONTI DI GUERRA E RIVELA COME HA SCOPERTO DI AVERE LA SCLEROSI MULTIPLA: “NON SENTIVO METÀ DEL MIO CORPO, FECI UNA RISONANZA D'URGENZA E IL NEUROLOGO MI DISSE: 'MA LEI DOVE VUOLE ANDARE NEL SUO STATO?'. CON LA MALATTIA HO FATTO PACE, ALLE FAVOLE NON HO MAI CREDUTO" – "VEDERE I BIMBI MUTILATI SCAVA UN’INCOLMABILE DISTANZA TRA TE E IL VICINO DI CASA DI ROMA CHE SI LAMENTA PER IL MAL DI TESTA O L’AMICA DISPERATA PER IL TRAFFICO…”
Tommaso Labate per il “Corriere della Sera” - Estratti
Francesca Mannocchi e il giorno in cui scoprì di avere la sclerosi multipla.
«Di quel giorno mi è rimasto soprattutto il colore del linoleum della clinica privata e la glacialità del neurologo, che dopo essersi fatto pagare profumatamente una risonanza magnetica d’urgenza mi freddò senza neanche prepararmi un minimo alla diagnosi».
Come?
«Una mattina mi ero svegliata che non sentivo metà del mio corpo. Decisi di fare una risonanza d’urgenza perché io e Alessio (il fotoreporter Romenzi, all’epoca suo compagno e padre del figlio Pietro, ndr ) saremmo dovuti ripartire per l’Iraq perché seguivamo la guerra a Mosul.
A esame fatto, visto che per ritirare i referti ci sarebbe voluta qualche settimana, chiesi al medico com’era la mia situazione, convinta che dietro quella sorta di indolenzimento diffuso non ci fosse niente di grave; e gli domandai se potevo partire tranquilla. Mi gelò con una domanda: “Ma lei dove vuole andare nel suo stato?”».
E poi?
«Alessio e io uscimmo dalla clinica e iniziammo a piangere. Dopo di allora non ho più pianto per anni».
Come cambia il rapporto col racconto della guerra quando si sa di avere la sclerosi multipla?
«La mia malattia e la guerra sono simili. Negli ultimi anni, da quando ho fatto pace con la presenza della malattia nella mia vita, questa è diventata un nuovo strumento per guardare e raccontare le cose del mondo con linguaggi diversi: se ieri mi sarebbe bastato il solo reportage televisivo, oggi sento il bisogno per esempio del teatro per arrivare a un pubblico diverso».
Ma malattia e guerra sono così simili?
«La condizione di un malato e quella di una persona che vive dentro una guerra amplificano al massimo il bene e il male: quando stai bene, sei felicissimo; quando stai male, tristissimo».
Un po’ quello che si dice, in ben altre condizioni ovviamente, dell’atmosfera natalizia.
«In questo caso, però, c’è anche l’elemento della rabbia. Una rabbia analoga a quella delle madri che aspettano che il proprio figlio ritorni dal giocare a pallone e se lo vedono restituire sotto un telo bianco perché gli hanno sparato».
Iraq, Siria, Libia, Ucraina, Gaza: che cosa c’è della guerra che non si riesce proprio a spiegare a chi vive in pace?
«Tutte le volte che ho dato una risposta a questa domanda poi è successo qualcosa che me l’ha fatta cambiare. Nel campo profughi di Jenin, in Cisgiordania, il papà di un ragazzo di quindici anni mi indicò un televisore acceso.
“Guardi”, mi disse, “quel canale televisivo definisce mio figlio un terrorista e guardandolo ho scoperto che lo era”. Poi aggiunse: “Quella parola, terrorista, è auto-conclusiva, non provoca nessuna riflessione, dice di un essere umano che va arrestato o ucciso, punto e basta.
Ma quella stessa parola non contiene il fatto che, se mio figlio è diventato un terrorista a quindici anni, lo si deve al fatto che per i precedenti quattordici, cioè per l’intero arco della sua esistenza, ha visto solo violenza, morti, funerali e foto dei martiri attaccate alle pareti. Se lo chiami ‘ragazzo che ha preso le armi’, qualche domanda te la fai; se dici semplicemente che è un ‘terrorista’, no”».
Com’è tornare a casa da una guerra?
«Riadattarsi è un lavoro nel lavoro, perché a volte si vive in una condizione di straniamento.
In questo l’esperienza dell’Ucraina è stata uno spartiacque per la grande distanza tra le cose che vedevo sul campo e certi dibattiti televisivi che c’erano in Italia».
(...)
Nel quotidiano, poi, sono stata alla larga da quella sorta di pedagogia distorta che andava di moda quando eravamo bambini noi, del tipo “mangia quello che hai nel piatto perché i bambini in Somalia stanno morendo di fame”. Però una cosa c’è, ed è innegabile: quando vedi le mutilazioni dei bambini, quando incontri un bambino palestinese evacuato a Doha a cui mancano nove delle dieci dita e con quel dito vedi che cerca in tutti i modi di prendere una penna, ecco, quella è una cosa che segna un’incolmabile distanza tra te e il vicino di casa di Roma che si lamenta per il mal di testa o l’amica disperata per il traffico».
Francesca Mannocchi è una tra le reporter di guerra più apprezzate della sua generazione.
Lavora per la tv italiana (soprattutto per La7) e internazionale, scrive sui giornali e tra qualche giorno inizierà a portare il racconto della guerra in giro per i teatri italiani, accompagnata dal violino di Rodrigo D’Erasmo. Lo spettacolo si intitola Crescere, la guerra , e nasce dall’esigenza di «parlare dal vivo col pubblico visto che, a volte, mi pare di non aver ancora capito che lavoro faccio e di modi per raccontare ne cerco sempre uno nuovo».
Da che famiglia proviene?
«Una classica famiglia italiana della periferia di Roma, quartiere Prima Porta. Papà commerciante di mobili; mamma figlia di un benzinaio, nel senso che mio nonno lavorava in una pompa di benzina non sua, e di una donna, mia nonna, che ha fatto le pulizie fino al giorno in cui il suo fisico non ne poteva più».
Che bambina è stata?
«Mia mamma dice che dai 4 ai 6 anni ho cominciato ad avere gli occhi tristi. Mai creduto a Babbo Natale, mai voluta una bambola, mai desiderato di ascoltare cose che non fossero aderenti completamente alla realtà, mai voluto sentire le favole».
Le scuole?
«Medie al Fleming, liceo scientifico ai Parioli».
Nei quartieri della Roma bene.
«Mia nonna faceva le pulizie al Fleming, a scuola mi accompagnava lei».
Com’era arrivare dalla periferia e sedersi nei banchi dei cognomi altisonanti della borghesia cittadina?
«Come passare nel giro di qualche chilometro dalla semplicità delle mie certezze di Prima Porta a sapere che un compagno di banco può chiamarsi Luca Maria e una professoressa Maria Luce».
(...)
Studentessa politicizzata?
«Tantissimo. Ovviamente a sinistra e per fortuna in un’epoca e in un contesto in cui il conflitto si abitava, non si respingeva».
In che senso?
«Come le dicevo, ho fatto il liceo ai Parioli, in uno dei quartieri storicamente più di destra della Capitale. Quando Prodi vinse le elezioni del 1996, la professoressa di Lettere, di orientamento progressista, entrò in classe e disse: “Machiavelli lo spiego un’altra volta, oggi leggiamo i giornali tutti assieme”.
Nessuno, dico nessuno, dei genitori dei miei compagni si permise di andare a protestare a scuola. Oggi succederebbe il finimondo. Perché? Perché all’epoca il conflitto si abitava e si praticava davvero, oggi si sopprime».
Com’è arrivata al giornalismo?
«Con le radio romane del mondo della sinistra radicale, da Radio Città futura a Radio città aperta, e poi attraverso l’esperienza del canale satellitare Nessuno Tv. Nel frattempo ho fatto altri lavori: dalla cameriera all’insegnante in un istituto in cui si facevano lezioni private ai bambini adottati da famiglie italiane».
Nel frattempo, dal giorno in cui ha scoperto la sclerosi multipla, ha ripreso a piangere?
«Sì, dopo sette anni ho pianto di nuovo».
Per quale motivo?
«Questo non glielo dico».







