MALEDETTO EURO, MA “L’EURO E’ DI TUTTI” – UN E-BOOK DI ROBERTO SOMMELLA SPIEGA, CIFRE ALLA MANO, CHI CI HA PERSO E CHI CI HA GUADAGNATO – E PERCHE’ DOPO I SACRIFICI DEVONO ARRIVARE ANCHE I DIRITTI

DAGOREPORT

L'euro è di tutti ma ancora nessuno lo sa. E' questo il vulnus principale di un'Unione monetaria che non può ancora dirsi completa. La fine della crisi finanziaria ha messo in luce tutti i ritardi del processo di unificazione del più grande progetto economico e sociale del dopoguerra. E ora chi vuole abbandonare la moneta unica sembra aver argomenti più forti degli altri.

E a sinistra non c'è piena consapevolezza che, se in cinque anni il debito pubblico dei Paesi europei è aumentato di 5.000 miliardi di euro e i disoccupati sono arrivati a quota 25 milioni, non è solo colpa degli errori dei governi o dell'austerity imposta dall'asse Berlino-Bruxelles.

E' questa la tesi centrale del saggio di Roberto Sommella "L'euro è di tutti. Istruzioni per cambiare l'Europa e ridurre le diseguaglianze", scaricabile dal web su "europaquotidiano.it" e presto anche nelle librerie, con una prefazione del premier Matteo Renzi.

L'analisi è corredata da dati macroeconomici inediti e da tabelle sul confronto dei prezzi prima e dopo la nascita dell'euro. E si sofferma su quanto è accaduto in Germania, Francia, Spagna e Grecia, per affrontare i nodi da sciogliere in Italia e nell'Unione Monetaria.

Roberto Sommella è il direttore della relazioni esterne dell'Antitrust ed è stato il condirettore di Milano Finanza. Ecco l'introduzione a "L'euro è di tutti".
"Ci sono tre modi per ritrovare la competitività: svalutare l'euro, abbassare i salari o smantellare lo stato sociale. Si sono scelte queste ultime due soluzioni. Francesi e italiani devono prendere lo stesso salario di ungheresi e polacchi. In Francia l'80% dei posti di lavoro creati l'anno scorso è a tempo determinato: come si fa con un posto del genere ad andare in banca e chiedere un mutuo, come puoi comprarti un'auto o affittare una casa? Solo l'1% della popolazione europea ha guadagnato con l'euro, ma è la moneta che deve essere flessibile, nient'altro".

Chi ha scattato questa fotografia impietosa della situazione economica in Europa? Romano Prodi, Alexis Tsipras o magari Paul Krugman? Nessuno dei tre. Sono parole di Marine Le Pen, leader del Front National, intervistata da Servizio Pubblico. Se un'analisi così provocatoria arriva dal capo della destra francese più reazionaria, qualcosa davvero non va nel mondo dei progressisti.

A poche settimane dalle elezioni chi vuole mandare per aria la faticosa costruzione dell'Europa ha idee e programmi più vicini al comune sentire di chi proviene dalle storiche tradizioni dei padri della patria, Adenauer, De Gasperi, Spinelli, Kohl, Monnet.

A sinistra manca ancora una visione d'insieme dei tanti problemi sul tappeto. Non c'è piena consapevolezza che, se in cinque anni il debito pubblico dei Paesi europei è aumentato di 5.000 miliardi di euro e i disoccupati sono arrivati a quota 25 milioni, non è solo colpa degli errori dei governi o dell'austerity imposta dagli organismi internazionali e dall'asse Berlino-Bruxelles. C'è anche un vizio d'origine nell'architettura dell'Unione monetaria. E un drammatico vuoto di proposte.

Un cittadino su tre si dice stufo della moneta che ha in tasca e rimpiange o auspica situazioni ben peggiori. La risposta a queste istanze di cambiamento non possono essere solo le necessarie riforme nazionali. Anche i Trattati devono essere rivisti, con il consenso di tutti, Germania compresa. Non si tratta di ripudiare i patti sottoscritti ma di interpretarli e renderli coerenti con l'attuale quadro economico e sociale.

Il tempo per farlo è poco. L'Italia deve capire che in questa fase delicata può essere leader e non semplice comprimaria. I dati finanziari disponibili, il confronto dei prezzi pre e post moneta unica, il totale fallimento delle politiche economiche imposte dall'alto alle democrazie europee fanno trarre una conclusione: le ricette xenofobe e nazionaliste che le destre vorrebbero imporre come risposta alla crisi sono certamente la fine del sogno comunitario, ma è un errore fatale anche negare l'evidenza che la sovranità sulla moneta è stata sottratta ai governi e ai cittadini.

Serve un nuovo "Manifesto" per l'Europa, un patto da sottoporre agli eletti del prossimo Parlamento stellato che spieghi come riappropriarsi dei diritti dopo la finanziarizzazione delle loro vite.

Solo mostrando velocità di reazione ai mille populismi che si vanno affermando nel Vecchio Continente, si potranno convincere 300 milioni di cittadini che l'euroscetticismo è la strada perfetta per il disastro finale, mentre le ragioni che hanno portato alla nascita dell'euro sono le uniche in grado di trasformare l'integrazione monetaria in un'unione politica prospera e solidale.

La forza di chi vuole la fine dell'euro non deve però essere sottovalutata. I motivi per dissentire e criticare la continuità del progetto comunitario sono l'alibi perfetto per chi oggi lo rinnega. Tra il 2007 e il 2013, durante il terremoto finanziario, in pochissimi sono diventati più forti. La Germania ha visto crescere occupazione e Pil del 5%, la Gran Bretagna ha fatto di meglio, il resto dell'economia dell'Eurozona è rimasta sotto lo zero di oltre 6 punti percentuali. Una debacle senza precedenti. L'euro è ancora una moneta a metà, la sua banca centrale necessita di un forte mandato politico, la politica economica non ha mai un'unica voce.

Non c'è da sorprendersi, quindi, se questo tipo di sistema viene vissuto come una maledizione da chi perde il posto di lavoro o chiude la sua azienda. La popolazione è ormai consapevole dell'impotenza dei propri governanti di fronte a dinamiche globali che nessuno riesce più a controllare con le sole politiche domestiche.

Alcuni regolamenti che impongono la disciplina fiscale sono diventati leggi scolpite nella pietra, non per scelta popolare ma attraverso un irrituale accordo tra burocrazie. Quella che doveva essere la Carta suprema dei valori fondativi dell'Unione è morta anni fa sul nascere. Ciascun Paese affronta la tempesta da solo. È in atto una crisi di identità del mondo occidentale, del suo sistema capitalistico, dei suoi capisaldi di riferimento: fede, ideologia, famiglia. Tutto è messo in discussione. Il capitale si sta sostituendo al lavoro e la rivoluzione digitale rischia di cancellare intere professioni.

Nonostante tutto deve prevalere l'ottimismo, facendo tesoro di quanto avvenuto negli Stati Uniti dopo la guerra di indipendenza. Allora le ex colonie erano tredici, tutte con il potere di battere moneta, contrarre debito e decidere le loro politiche fiscali, a fronte di un governo centrale debole. Il ministro del Tesoro dell'epoca, Alexander Hamilton, riuscì a far passare la linea della condivisione dei debiti e dell'emissione di titoli federali: nacque in quel momento l'America che conosciamo. Era il 1789, solo sei anni dopo la fine della guerra con gli inglesi.

L'euro ha dodici anni di vita, è una moneta unica ma non unita. Non c'è stato un conflitto, gli stati non controllano più il loro debito sovrano, i governi hanno le casse vuote e devono trovare lavoro a un giovane su tre. L'Europa sta compiendo il percorso opposto degli americani: prima la moneta unica e poi, forse, una Banca centrale prestatore di ultima istanza. Prima i vincoli di bilancio e poi, forse, un debito comune. Prima i sacrifici e chissà quando i diritti. Si odia l'euro perché si teme il futuro. Ma l'euro è di tutti ed è l'unico futuro possibile.

 

 

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