“DISEGNANDO 'IL NOME DELLA ROSA' MI SONO MESSO NELLA POSIZIONE DELL’AMANUENSE MA RESTO UN FUMETTARO” – MILO MANARA E IL SECONDO VOLUME DEDICATO ALL’OPERA DI UMBERTO ECO: “QUESTO LIBRO ME L'HANNO CHIESTO CINQUE ANNI FA, QUANDO AVEVO 75 ANNI, UN'ETÀ IN CUI NON PROPONI PIÙ CHISSÀ QUALE AVVENTURA EROTICA..." - "IL MEDIOEVO DI ECO È LO STESSO DELL’ARMATA BRANCALEONE DI MONICELLI. IL FILM NON MI HA INFLUENZATO, COME MODELLO PER FRATE GUGLIELMO HO SCELTO MARLON BRANDO, MA QUANDO SI PENSA A QUEL PERSONAGGIO SI PENSA A SEAN CONNERY. PERO’ NON AVEVA SENSO FARE IL DOPPIONE DEL DOPPIONE...”
Franco Giubilei per “la Stampa” - Estratti
«Disegnando l'opera di Eco, mi sono messo nella posizione dell'amanuense nello scriptorium che aveva il compito di decorare i testi, oltre che di tradurli dal greco».
Milo Manara ha appena dato alle stampe il secondo volume de Il nome della rosa (edizioni Oblomov), un lavoro di anni capace di far tremare i polsi anche a un grande "fumettaro" come lui, come continua orgogliosamente a definirsi: perché tratto da un grande romanzo a più chiavi di lettura, di enorme successo mondiale e, se non bastasse,
già trasposto in un film che ha illustrato le fisionomie dei protagonisti in modo indelebile. Per dire, è impossibile non associare a Guglielmo da Baskerville il volto di Sean Connery, tant'è vero che Manara l'ha disegnato con i tratti di Marlon Brando, esorcizzando un accostamento fin troppo ovvio.
Manara, che effetto le fece Il nome della Rosa quando lo lesse la prima volta?
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«Quello di un grande romanzo d'avventura. All'epoca (1980, ndr), la letteratura italiana non offriva molto sul piano del romanzo che non fossero rapporti fra mariti e mogli, temi sociali o esistenziali. Mancava da noi il libro di narrativa che si legge con curiosità. Io allora leggevo l'Espresso cominciando dall'ultima pagina, la Bustina di Minerva di Eco, con questa scrittura ironica, persuasiva e solidissima; quando finii Il nome della rosa pensai: finalmente un romanzo!».
Non le venne in mente di trarne una versione a fumetti?
«A quei tempi non avrei mai scelto Il nome della rosa… molto basato su dialoghi, speculazioni teologiche e filosofiche, con pochissima azione quando invece il fumetto vive di azione. È anche un libro un po' claustrofobico e con protagonisti dei monaci, con poca varietà di personaggi seducenti».
Cosa le ha fatto cambiare idea?
«Me l'hanno proposto cinque anni fa, quando ne avevo 75, un'età in cui non proponi più chissà quale avventura erotica, l'età giusta per un lavoro del genere. È una tale sfida, anche intellettuale, confrontarsi con un fenomeno editoriale del genere. Un'offerta che non si poteva rifiutare, anche se non avrei trovato una testa di cavallo nel letto…. In più veniva dalla casa editrice fondata da Eco, La nave di Teseo, ed era caldeggiata dai suoi figli. Ma è stato soprattutto il senso di sfida a farmi accettare».
Cioè?
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«Un fumettaro dovrebbe essere in grado di raccontare una storia di monaci. Il regista Jean Jacques Annaud nel suo film ne ha fatto un giallo gotico, ma per me non è quella la chiave: il Medio Evo di Eco non è per niente gotico, non ci sono le atmosfere di Shelley o di Stoker, piuttosto è simile al periodo descritto da Monicelli nell'Armata Brancaleone, un periodo di grande precarietà dell'esistenza e di grande ignoranza cui si suppliva con la fantasia».
Quindi il film non l'ha influenzata in alcun modo.
«No, ho fatto tutto il possibile perché non accadesse: ne ho anche parlato con Annaud, che ha fatto un grande film che però non risponde allo spirito del libro. Un esempio: il labirinto della biblioteca per il regista è come il castello di Dracula, mentre nel testo il labirinto è desunto dalla Biblioteca di Babele.
Il senso di angoscia è tutto intellettuale, cerebrale, non basato su paure fisiche: la biblioteca è destabilizzante perché contiene tutto e il suo contrario, la verità e la sua confutazione. Non c'è un frate assassino o un diavolo pronto a uscire da dietro un angolo, anzi, l'assassino è un libro».
Quale prospettiva ha dato alla sua storia a fumetti?
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«Principalmente quella del romanzo di formazione del giovane Adso, incoraggiato in questo dalle note all'ultima edizione del romanzo, per cui il primo titolo era Adso da Melk. Così come nei libri di Conan Doyle, il vero protagonista è Watson, non Sherlock Holmes: il personaggio in cui il lettore si identifica è Adso, per lui è la settimana cruciale della vita, in cui entra ragazzino e ne esce uomo, scoprendo il sesso in questa epifania lirica che nel romanzo ha le parole del Cantico dei Cantici. La ragazza è centrale nell'evoluzione del suo carattere».
Come modello per frate Guglielmo ha scelto Marlon Brando, ma quando si pensa a quel personaggio si pensa inevitabilmente a Sean Connery… «E Connery era adattissimo, ma io non volevo assolutamente che il mio Guglielmo fosse lui: non aveva senso fare il doppione del doppione, così ho pensato a un'immagine cinematografica dalla faccia altrettanto fascinosa e potente. D'altra parte, anche nel romanzo, Guglielmo ha il naso aquilino, come l'attore americano.
Ho scelto Brando sperando che nella lettura possa fare ombra a Sean Connery, pur sapendo perfettamente che, una volta chiuso il mio libro, tornerà ad avere la faccia del secondo».
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