CIAK, PAPALEO CE L’HA FATTA - “HO IMPARATO A PRENDERE TUTTO COME UN DONO, MA NON SONO IL ROBIN HOOD DE ’STA CEPPA. SONO SOLO ROCCO”

Alessandro Ferrucci e Malcom Pagani per "Il Fatto Quotidiano"

Il treno passa ogni sette minuti. Fa vibrare le finestre e sparire le parole, ma Rocco, dice, non lo sente più: "Mi sono abituato, anzi fa compagnia". E mangia una frisa con l'olio nel suo appartamento il signor Papaleo. A mani nude, senza confondere la forma con il bisogno primario e l'educata distinzione: "In effetti non posso masticà e parlà insieme" con il lusso di essere se stessi: "Ormai l'ho preparata, me la devo finire".

A Lauria, nella Lucania di fine anni 50, il piatto si lasciava vuoto. Senza epopee pauperiste: "Papà era impiegato statale, con uno stipendio fisso, in un posto in cui non è che servisse chissà che e avevamo la tv. Eravamo la famosa famiglia su 100, facevamo statistica" e con nessun fratello con cui dividere il giorno.

Si giocava con le figurine: "Pizzaballa, il portiere, ce l'avevo". Sotto gli occhi vigili del matriarcato, tirando calci a un pallone: "In un torneo estivo segnai 11 gol in 9 partite", tra una pausa e l'altra dal giudizio divino: "Erano anni strani e a volte, c'era la messa beat. Batteria, chitarra elettrica e pantaloni a zampa d'elefante ai piedi dell'altare. Io sognavo Kerouac e pensavo alla fuga. L'infanzia è stata felice, i miei sono stati meravigliosi e quando gli ho annunciato che avrei lasciato l'Università per una scuola di recitazione, non hanno battuto ciglio. Ma già a 14 anni, a casa, gli argomenti erano un po' esauriti".

Così, non diversamente dai protagonisti del suo Una piccola impresa meridionale, il secondo film da regista dopo Basilicata coast to coast (400 copie, Warner, con partenza lanciata), Papaleo ha affrontato quella che chiama: "Rivoluzione personale". Alla volta di Roma, tra un piccolo ruolo e l'altro, perché ognuno, giura: "Può essere il Che Guevara di se stesso", un po' come canta Vasco nella sua ultima canzone, "è vero, appena l'ho sentita sono rimasto folgorato".

Alle pareti, vecchie cartoline, foto di Piero Natoli, di Totti: "Mi ha fatto cambiare squadra dopo il rigore a cucchiaio tirato agli Europei, da ragazzino, ai tempi di Corso, ero interista" e degli astronauti russi. Sul tavolo, in una spietata progressione nero su bianco, gli impegni dei prossimi giorni: "Per pubblicizzare il film sto andando ovunque. Sento la responsabilità e non me ne vergogno. L'economia sarà anche volgare, ma non avere rispetto del denaro che ti danno per il tuo lavoro è peggio".

Un mestiere che ha sempre desiderato fare?
Io l'attore non l'avrei mai fatto. Studiavo Matematica e forse, a stento, mi sarei anche laureato. Ma senza alcuna prospettiva. Un'amica mi iscrisse a una scuola di recitazione e decisi di provare. Non avevo la vocazione, pensavo e a volte penso ancora di non essere portato.

La scuola la aiutò?
Il primo vero teatro di strada lo vidi nella piazza del paese. Le compagnie a Lauria non venivano, ma la politica metteva in scena ogni volta uno spettacolo nuovo. Il suono dei comizi, la ricerca dell'applauso, il sentiero della retorica, le impennate ad arte. Certe prove d'attore non me le sono più dimenticate.

La politica la appassionava?
A 15 anni entrai nella sezione dei giovani socialisti, meno spocchiosi dei comunisti. Avevano il calcio-balilla e non era poco. Mi ricordo riunioni accese tra 6-7 partecipanti e un congresso regionale dove mi venne pagato il pranzo. La mia "cricca" mi aveva un po' estraniato, in realtà cercavo gli amici. Inseguivo una comunità.

Come i protagonisti, dal prete spretato alla ex prostituta, ritirati nel faro ai confini del mondo di "Una piccola impresa meridionale".
Ci provano. E il consuntivo finale della loro esperienza in una piccola comunità non è definito. Magari non ce la fanno fino in fondo e dietro la curva potrebbe attenderli una delusione, ma le cose che succedono tra le persone, se lasciano una traccia, non sono mai fallimenti. Me lo insegnò il mio professore di Storia e Filosofia, Crisostomo Dodero, il più grande intellettuale del mio paese.

Lezione di Dodero?
Ci invitava a rischiare. A esprimerci. Ad avere coraggio. Anche con le ragazze. Al mio migliore amico, bellissimo, conquistare non richiedeva sforzi. Per me con gli occhiali e meno 11 di vista, la scalata prevedeva penose arrampicate sulle unghie.

Della Basilicata ha detto: "È come dio. Esiste, ma bisogna crederci".
Era il sud degli anni 60. Mi ricordo ancora lo stupore di vedere, nel mio primo viaggio romano, un ragazzo e una ragazza abbracciarsi davanti a tutti. A Lauria il protocollo era tacito e chiarissimo: quando si passeggiava nel corso principale, tra i due sessi si doveva tenere una distanza di sicurezza.

C'erano dieci metri di zona franca in cui si poteva camminare vicini senza mai guardarsi in faccia, come gli staffettisti. Se il tuo passo rallentava e rallentava anche il suo, era fatta. Si poteva proseguire. Sempre al coperto. Lontani. Di nascosto.

Quando ha capito di avere un talento per recitare?
Nel momento in cui pensi a quel che devi dire e cerchi la battuta mentre sta parlando un altro, abbandoni la spontaneità ed emigri nel professionismo. Io lo facevo già all'università. Con il professore di Fisica, la gag era quotidiana. Lui fingeva di interpellarmi: "Papaleo, lei che ha da dire?" e io pronto: "Se si fa da parte glielo spiego". Ridevano tutti. Erano minchiate, i testi non me li scriveva Woody Allen, ma ridevano tutti.

Ora si trova migliorato?
Ma a voi farebbe simpatia un attore che dice di se stesso sono bravo? Si pecca di superbia, l'errore del vecchio Berlusca.

Non l'ha amato?
No, perché io voglio un nemico simpatico. Voglio un nemico da amare e che non mi riduca uno straccio come l'opposizione attuale. Ci ha fatto sentire troppo migliori di lui e noi non siamo stati in grado di esserlo davvero.

Non piaceva neanche a Monicelli. Lei ci lavorò.
Per modo di dire. Giravano in casa e io urlavo la mia battuta dal fondo delle scale. Ho visto più Virzì. AI tempi di Ferie d'agosto dividemmo il tetto. Paolo è uno dei pochissimi registi, forse l'unico, a saper guardare alle cose con un occhio popolare ed evoluto. In testa, ha sempre una sintesi.

Vi siete divertiti?
Lui e tanti altri amici di quei primi anni romani, gli anni del Locale in Vicolo del Fico in cui Favino, il nostro attore migliore, faceva il buttafuori, sono le buone compagnie che mi hanno rovinato. Da un lato ricercavo una cifra diversa, un'unione tra cinema e teatro, in un momento di personale parabola discendente. Dall'altro, con mille sensi di colpa, assecondavo la mia indole goliardica e cazzona nelle commedie dall'incasso felice. Anni di notevole schizofrenia.

Ne è uscito, Papaleo?
Ho fatto Sanremo, affrontato le ire degli ecologisti, superato le ironie dei produttori che a sentir parlare del mio primo film fuggivano. Ho imparato a prendere tutto come un dono, ma non sono il Robin Hood de 'sta ceppa. Sono solo Rocco. Quello che ha scoperto di piacere in un ristorante piemontese. Sul menu c'erano i rigatoni Basilicata coast to coast. Mi sono arreso. E ho iniziato a mangiare.

 

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