IL MONDO COME VOLONTÀ E RAPPRESENTAZIONE DI CARMELO BENE - A DIECI ANNI DALLA MORTE, GIANCARLO DOTTO CI CONSEGNA UN RICORDO/ELOGIO DI UN GENIO DELLA NOSTRA CULTURA - “DELLE MIE CENERI FATE QUELLO CHE VOLETE… MAGARI UNA BELLA CROSTATA PER COLAZIONE” - “LA TUA MORTE FU IL TUO CAPOLAVORO. NON FIDATEVI ORA DI TUTTI QUELLI CHE DICONO DI AVERLO CONOSCIUTO, DI SAPERE TUTTO DI LUI. NON FIDATEVI NEPPURE DI ME. NON NE SAPREMO MAI ABBASTANZA DI LUI…”

Gli ultimi due paragrafi di "Elogio di Carmelo Bene", di Giancarlo Dotto (Tullio Pironti editore)

LA MALATTIA
Il calvario era cominciato tre mesi prima, a Otranto. Il singhiozzo, i dolori all'addome, l'inappetenza. Lo accompagnai dal medico. Decine di ecografie non segnalavano nulla di particolare. Il giorno in cui lo operano di cistifellea, scoprono la metastasi. Bisognava operare d'urgenza. Era già in metastasi quando recitò Dante nel castello di Otranto, l'ultima esibizione davanti alla sua gente.

Memorabile, raccontano i presenti. Si era concesso anche un divertimento d'altri tempi, da ex enfant terrible, la polemica con l'arcivescovo che non lo voleva nella cattedrale. Era stanco, Carmelo. Se ne infischiava del mondo che lo adorava o lo detestava, del tempo che gli restava da vivere. «Ci penso spesso di buttarmi giù dal terrazzo», mi disse una sera. «Ma poi mi frena il pensiero che sarebbe una cosa cruenta, vistosa. Una volgare piazzata». Era deciso a conquistarsi una lucida follia.

Cantava arie di Rossini con l'orrenda cicatrice sul petto, mentre cucinava alla brace per gli amici un trancio di pesce spada. Luisa, la sua ancella devota, mani di fata, gli aveva cucito addosso una vestaglia da camera con uno spacco vezzoso che ne esaltava le pose da Eliogabalo. «Io sottoscritto Carmelo Bene ricoverato presso l'European Hospital, dopo esauriente colloquio informativo con i sanitari sui benefici / rischi ed eventuali complicazioni, in piena capacità d'intendere e di volere, acconsento a essere sottoposto a intervento chirurgico con la relativa anestesia, autorizzando i sanitari a eseguire quanto programmato o quant'altro essi ritenessero necessario o utile al buon fine dell'intervento».

La stanza era la 416, il tumore maligno, il paziente molto irritabile e però solvibile. Altre note dall'accettazione: «Soggetto cardiopatico, la transaminasi alta, stato civile separato, professione pensionato». Scritto proprio così: «Pensionato». Lettura preferita Il mondo come volontà e rappresentazione di Arthur Schopenhauer, aggiungo io. Di verosimili, seb- bene non accertate, discendenze turche. Forse dello stesso Acmet Pascià, il feroce rais al servizio di Maometto II che rase al suolo la città di Otranto e impalò 800 martiri cristiani, i cui teschi sono esposti nella cripta della cattedrale.

Cristiano Huscher è il medico che esegue l'intervento. Nome di grande e morbosa suggestione per Carmelo, che lo associava alle rovine della sua casa prediletta di Edgar Allan Poe. Sosia di Bela Lugosi, molto noto nell'ambiente per la sua chirurgia estrema. La cartella clinica parla di resezione del peritoneo, di parte del colon, dell'intestino e del diaframma. Poche ore dopo, lo ricordo bene, vispo come un pesce, seduto sul letto, che deliziava gli amici accorsi al capezzale. Torna a casa tra Natale e Capodanno. Le ferite che sembravano cicatrizzate si riaprono una a una. Tanto dolore, tanta morfina. Un incubo. Carmelo non si nutre più.


L'ULTIMO SPETTACOLO
Tre mesi dopo, 21,10 del 16 marzo 2002, al terzo giorno di coma, Carmelo Bene moriva, vegliato dal miagolio dei gatti e dal brusio delle donne che lo amavano, Luisa tra tutte, la «femminile disattenzione» che da sempre invocava a scortare i suoi morenti eroi di scena, da Pinocchio a Otello. No, non era la vista il dono più bello. Avevi fatto oscurare con le pagine rosa del tuo giornale sportivo lo specchio della camera e il suo prediletto Sony 37 pollici, lasciando solo una luce fioca da tela fiamminga sul quadro di Amore e Psiche.

Avevi urlato notti intere, spellato dall'orrore ancora prima che dal dolore. Avevi invocato la morfina, il cianuro, impartite lezioni in francese su Céline a Massimo, l'infermiere che ti assisteva la notte e non sapeva una parola di francese, ma non sapeva neppure chi fosse Céline, consultato febbrilmente il manuale del perfetto suicida che l'amico francese ti aveva spedito da Parigi, maledetto i medici che si ostinavano a tenerti in vita, dopo averti reciso un pezzo di diaframma e la tua voce che non era più la tua voce.

L'ultimo Carmelo coltivava come un alchimista la sua pietra filosofale. Farsi fuori lungo i tracciati orfici della sua voce, amplificata negli anni a suon di miliardi. A furia di replicare, indovinare il concerto definitivo, quello in cui sarebbe sparito, in fin di voce. Quella voce, chissà dove è andata quella voce, quella voce che ci dava calma e forza, quella voce che solo a sentirla ci spediva in paradiso.

La voce di quella sera a Bologna, 31 luglio 1981, una sera di caldo scirocco, duecentomila persone stipate tra piazza Maggiore, via Rizzoli e le altre piazze, i viali e i vicoli attorno amplificati via radio da Salvatore Maenza, cieco dall'udito scaltrissimo e tu, Carmelo Bene, in jeans e camicia militare di cotone, che ti arrampichi scalzo sulla scaletta da pompiere che porta alla sommità della Torre.

Il boato da stadio. La tua voce, tuoni e carezze da svenimento che precipitano e rimbalzano su quel tappeto umano, trasportate nel vento da migliaia di watts, neanche una mosca che vola, tra un canto e l'altro, le ovazioni. Non tanto e non solo la tua voce che dice Dante, ma la tua voce che dice nel congedarsi, dopo aver strappato anche l'ultima pelle con l'ultimo sonetto, «Chiedo scusa per il vento...».

E ancora. La voce furiosa e commossa dei tuoi Quattro modi di morire in versi, Blok, Majakovskij, Esènin, Pasternak, Esenin, forse, in assoluto, la tua cosa più grande di artista, le tue lacrime finte e vere allo stesso tempo, mai tanto vere, il primo piano su di te, Carmelo Bene, spaventoso e spaventato, risucchiato dalle fiamme che tu stesso alimentavi, dal magistrale rogo che ha finalmente trovato il vento giusto, il verso e la voce, per bruciare senza che nulla più lo potesse estinguere.

«La mia voce... non ha più le armoniche» ti disperavi, a chi provava a consolarti, ai tuoi angeli di gesso in giardino, tu avvolto nella tua vestaglia da camera con lo spacco vezzoso, prima di somigliare impeccabile ai comatosi che avevi tante volte spiato nelle foto di guerra di David Harali, nelle liriche di Gozzano, nei Cristi di Mantegna, negli incubi di Poe e nei manuali di Krafft-Ebing. L'avevi detto per tempo. Inciso su nastro. «Sono inconsolabile. Me lo sono guadagnato. Ho meritato quest'uscita dalla felicità infelice. Sono fuori. Questo muovere incontro alla morte. Forse per vivere non ci vuole una dignità, ma per morire sì. Bisogna essere degni».

Quando ti dissero che non c'era più nulla da fare, io ero lì, atterrito, tu disteso nella tua cuccia che era diventata la tua prigione, io e il medico in piedi davanti a te. Ti sei disperato per un giorno, hai invocato l'eutanasia. Poi niente più. Hai smesso di fare domande, di lamentarti. Delle fitte atroci, dei cani che abbaiavano fuori, delle gambe che non rispondevano più. Delle allucinazioni. I bambini che cantavano Tu scendi dalle stelle in giardino, confusi agli angeli di gesso. Mi hai chiesto di aggiustarti la coperta di lana sulle gambe. E di piegare i quattro orli, tutti allo stesso modo.

Non mi sono chiesto perché, non me lo chiedevo mai in tua presenza, ho sempre saputo che c'era una ragione profonda in tutto quello che dicevi o facevi. Ricordo ancora come fosse ieri. Ti sei sistemato con le mani intrecciate sul petto, come fosse una specie di prova generale, tu che non hai mai provato in vita tua. «Adesso voglio dormire», dicesti a Luisa, quando non ne potevi più anche di non poterne più.

La tua morte fu il tuo capolavoro. Non fidatevi ora di tutti quelli che dicono di averlo conosciuto, di sapere tutto di lui. Non fidatevi neppure di me. Non ne sapremo mai abbastanza di lui. Posso solo dire di averlo amato e ammirato. E il solo pensiero d'essere stato da lui ricambiato, anche un solo istante, è ogni volta un pieno di felicità e un pieno di dolore. Se devo scegliere una sola immagine, no, non è quando ti ho incontrato la prima volta al Teatro Quirino o in viaggio insieme con il tuo Pinocchio, o quando abbiamo giocato con le tante ragazze, o passato notti intere a parlare di tutto, o quando hai recitato solo per me i canti di Leopardi.

Ma quella volta che stavi morendo, tu nella tua camera da letto e io, proprio io, incredibile, che ti stringevo la mano scarna e tremante, sempre più flebile, appena rischiarati dalla luce fioca di un abat-jour. La mano stanca di un gigante. «Ti voglio bene», ti dissi finalmente sottovoce. Non ero mai riuscito a dirtelo prima. «Anch'io», mi dicesti tu con un filo di voce. Avrei voluto amplificarti, registrarti e tenerlo tutto per me, quel filo di voce, sotto il cuscino. In quell'esatto momento, mi sono sentito tuo figlio, tuo padre, tua madre, il tuo più fraterno amico. Siamo stati intimi come di più non si può.

Mille gradi Celsius sono bastati a ridurti in cenere. Ma non a riscaldarti. Avevi sempre freddo, Carmelo. «Delle mie ceneri fate quello che volete», ci dicesti una sera a cena, davanti al camino, nella tua meravigliosa casa di Otranto. «... Magari una bella crostata per colazione ». Sai una cosa? Mi viene spesso, quando sto sovrappensiero, la tentazione di chiamarti. Avrei tanta voglia di farlo anche adesso. Ma non risponderesti. È mezzogiorno. Tu, lo so, a quest'ora stai ancora dormendo".

 

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