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LA RIVINCITA DI AL SISI: QUANDO REPRESSE LE OPPOSIZIONI NEL SANGUE ERA STATO IL “CATTIVO”, ORA CHE COMBATTE L’ISIS È IL SALVA-OCCIDENTE

egyptian president abdul fattah al sisiegyptian president abdul fattah al sisi

Bernardo Valli per “la Repubblica”

 

La reazione è stata immediata. Poche ore dopo la decapitazione dei ventuno cristiani copti sulla spiaggia libica, gli aerei egiziani bombardavano le basi jihadiste in Cirenaica. L’esecuzione collettiva, secondo il rituale in vigore a Raqqa e a Mosul, in Siria e in Iraq, ha annunciato l’arrivo dello Stato islamico sulla sponda del Mediterraneo.

 

La rapida risposta militare del raìs del Cairo, Abdel Fattah Al Sisi, ha annunciato l’intervento ufficiale dell’Egitto nella guerra civile libica. Quello non dichiarato era già in corso, meno intenso, più contenuto: dopo il massacro di egiziani sulla spiaggia non era più il caso di agire con discrezione. L’incursione dell’alba sulle basi jihadiste di Derna, tra il mare e le montagne, si è poi ripetuta nella giornata per dimostrare che non si trattava di salvare la faccia ma di avviare operazioni militari prolungate.

 

ABU MAZEN AL SISIABU MAZEN AL SISI

Un breve pezzo di deserto separa la Libia dall’Egitto: uno spazio semivuoto che gli islamisti cacciati diciotto mesi fa dal potere al Cairo attraversano per incontrare gli amici jihadisti in piena attività. E ormai convertiti al lontano Califfato della valle del Tigri e dell’Eufrate. I più frustrati o perseguitati tra i fedeli dell’islamista Mohamed Morsi, l’ex capo dello Stato egiziano destituito dal generale (poi maresciallo e adesso presidente) Fattah Al Sisi, trovano facilmente conforto e aiuto nelle “province” amiche. Senza precisare dove si trovano, i capi jihadisti le hanno dichiarate parte dello Stato islamico.

 

AL SISIAL SISI

Forse il legame tra l’Islam estremista della Libia da un lato e quello di Siria e Iraq dall’altro è più simbolico che reale: ma pratica e regole appaiono le stesse. Le decapitazioni ne sono la prova. Nella confusione capita che i libici si sbaglino nelle dichiarazioni. Ogni tanto si riferiscono ad Al Qaeda, oggi meno influente e abbandonato, oltre che concorrente dello “Stato islamico”. Ma il terrorismo non ha un codice, né una teologia.

 

SCONTRI E PROTESTE IN EGITTO SCONTRI E PROTESTE IN EGITTO

Rispetto al grande, storico e povero Egitto, la Libia è un ricco, bellissimo deserto abitato da tribù litigiose. Che si odiano da sempre. Dai tempi dei datteri al petrolio. L’Italia coloniale ci mise decenni prima di domarle con repressioni sanguinose e con quelle poi chiamate pulizie etniche, cioè con spostamenti in massa di popolazioni decimate.

 

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Nel primo, in Egitto, c’è un regime dominato dai militari che non sopportano chiunque contesta il loro diritto di esercitare il potere. La confraternita dei Fratelli musulmani, portata al governo da libere elezioni, era un rivale settario e incapace di governare. L’ondata jihadista è la peste per colonnelli e generali. È l’indisciplina, il fanatismo senza le regole che i militari prediligono.

 

La Libia è un mosaico di clan per i quali valgono le affiliazioni regionali. I poteri locali sono la base su cui si può creare lo Stato. Il denaro li divide ancora di più. Tutti vogliono controllare i terminali del petrolio affacciati sul mare, i pozzi disseminati nel deserto, le vie attraverso le quali far passare il greggio di contrabbando.

SCONTRI E PROTESTE IN EGITTO SCONTRI E PROTESTE IN EGITTO

 

Adesso c’è chi rimpiange Gheddafi, raìs schizofrenico e inaffidabile, oltre che crudele e corrotto, perché teneva il Paese unito e le tribù in riga con la forza o i dollari. Sbagliato sarebbe stato dunque l’aiuto militare occidentale che ha contribuito alla sua fine. La verità è che il raìs libico era ormai sfiatato, indebolito, contestato: e che dopo avere favorito la sua cacciata, si doveva accompagnare la transizione. Non intervenire con l’aviazione e lasciare il Paese in preda alle tribù fameliche e inconciliabili, imbottite di armi e di dollari. “Spara e scappa” non è un comportamento responsabile. Ma è quello che hanno avuto gli occidentali, interessati soltanto al petrolio.

 

mubarak mubarak

Domenica sulla spiaggia, nel presentare la decapitazione degli ostaggi copti, il boia ha tenuto a precisare che si trovava «a Sud di Roma». Una capitale da conquistare. E ha definito l’esecuzione «un messaggio firmato col sangue alla nazione cristiana». In realtà il suo era anche un affronto alla più grande nazione araba. Il Cairo ha infatti preso come tale l’uccisione dei connazionali appartenenti alla numerosa e antica comunità cristiana della valle del Nilo.

 

Il presidente Al Sisi si è rivolto al Paese. E subito dopo, alla televisione, una voce solenne ha ripetuto più volte la parola d’ordine del momento: «Onore e nazione». Lo slogan degli uomini «pronti a morire per la patria». Sugli schermi apparivano immagini di guerra: caccia bombardieri, carri armati, soldati in tenuta da combattimento, mezzi della marina militare. Il repertorio delle grandi occasioni.

PROTESTE AL CAIRO CONTRO MORSI PROTESTE AL CAIRO CONTRO MORSI

 

La voce era quella dello speaker che al Cairo interviene, pure lui, per avvenimenti eccezionali. Ad esempio, quattro anni fa, quando i militari presero il posto di Hosni Mubarak, il vecchio raìs, dopo l’insurrezione di piazza Tahrir. Insomma al Cairo è stato come se la nazione andasse in guerra.

 

Centinaia di migliaia di egiziani vanno e vengono dalla Libia da quando il petrolio sgorga dal deserto in cui i nostri coloni piantavano granoturco e fagiolini. I libici comandano e litigano tra di loro. Gli immigrati lavorano. E sono indifesi. Vulnerabili. Sono in molti a fuggire verso Lampedusa. Adesso se ne andranno in tanti. Ma l’Egitto nazionalista del presidente Al Sisi non può tollerare che gli egiziani vengano umiliati e massacrati. Gli amici americani l’hanno messo un po’ da parte. In quarantena.

PROTESTE AL CAIRO CONTRO MORSI PROTESTE AL CAIRO CONTRO MORSI

 

Gli hanno centellinato le forniture militari, in seguito alla repressione e ai processi speditivi contro gli islamisti e i giovani libertari di piazza Tahrir. Ma lui si è presa qualche bella rivincita. Vladimir Putin gli ha fornito una centrale nucleare che darà energia elettrica al Paese, come l’Unione Sovietica la dette a Nasser con la diga di Assuan più di cinquant’anni fa. E il presidente socialista François Hollande gli vende i caccia bombardieri centellinati dagli americani. L’Arabia Saudita elargisce miliardi di dollari in concorrenza con gli Emirati del Golfo, e Israele resta un interlocutore essenziale per arginare le bande jihadiste annidate nel Sinai.

 

PIAZZA TAHRIR LA PROTESTA CONTRO IL PRESIDENTE MORSI PIAZZA TAHRIR LA PROTESTA CONTRO IL PRESIDENTE MORSI

Al Sisi ha superato la cattiva reputazione abbattutasi su di lui con la brutale presa del potere e le successive repressioni. La minaccia dei terroristi jihadisti, che decapitano gli ostaggi, uccidono giornalisti ed ebrei e spuntano sulla sponda del Mediterraneo, rivaluta la figura del raìs. In quanto dighe dell’islamismo, i dittatori arabi erano apprezzati in Occidente. Poi le primavere arabe li hanno cacciati o squalificati. Appassite le primavere, con l’eccezione tunisina, la figura del raìs è di nuovo rispettata e ricercata. Soprattutto se come nel caso egiziano è alla testa di un grande Paese.

 

PIAZZA TAHRIR LA PROTESTA CONTRO IL PRESIDENTE MORSI PIAZZA TAHRIR LA PROTESTA CONTRO IL PRESIDENTE MORSI

Affiancato a Hollande, Al Sisi ha chiesto la riunione del Consiglio di sicurezza per la Libia. Ed è lui che ha cercato di colpire i tagliatori di teste in Libia, dove nessun altro per ora osa inoltrarsi. L’etica weberiana della responsabilità invita a riconoscere che i regimi arabi, quali che siano, sono gli alleati più efficaci per combattere il terrorismo islamico.

 

Sono indispensabili. Solo la loro aperta collaborazione può arginare l’inquietante presenza sull’altra riva del Mediterraneo. E soprattutto il presidente Al Sisi dovrà impedire che il veleno jihadista trapeli attraverso il breve tratto di deserto che separa l’Egitto dalla Libia, e destabilizzi il suo regime che può non essere il nostro ideale, ma che l’emergenza rende opportuno.

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