I TUNNEL DEL TERRORE – ORA PER ISRAELE IL PERICOLO ARRIVA DALLE GALLERIE SCAVATE DA HAMAS – LA PROFEZIA DEL MAGGIORE YENIR: ‘LA PROSSIMA GUERRA SARÀ SOTTOTERRA’

Gigi Riva per ‘L'Espresso'

Il fatto che annuncia una svolta nella tecnica del conflitto e apre la prospettiva a nuovi scenari è accaduto un paio di mesi fa. Quando gli israeliani hanno scoperto tre tunnel che passavano sotto il loro confine con la Striscia di Gaza ed erano stati già scavati per 200 metri dentro il territorio dello Stato ebraico. Correvano a 18 metri di profondità, dove sono praticamente impossibili da localizzare, e le talpe avevano già quasi ultimato il corridoio di risalita.

Erano a due metri dalla superficie: pochi colpi di piccone e sarebbe stato completato il foro d'uscita. A cosa sarebbero dovuti servire? L'ipotesi più accreditata è quella che Hamas volesse (voglia) introdurre un commando (20-30 persone) per svolgere un'azione clamorosa. Come prendere in ostaggio una scolaresca, sul modello di Beslan in Russia dove i separatisti ceceni fecero una strage nel 2004, nell'area di Sderot, quella più vicina alla frontiera. O ricominciare con i kamikaze nei locali pubblici come nella Seconda Intifada.

Sarà parte della storia segreta dell'intelligence il dettaglio su come si sia arrivati a identificare le gallerie, e naturalmente è top secret. È assai probabile che abbiano contribuito delle spie infiltrate nella Striscia, come altre volte in passato (e anche solo per un sospetto di collaborazionismo ci sono state a Gaza esecuzioni sulla pubblica piazza). Si sa però che l'ingegnere-progettista palestinese è morto all'interno della sua creatura, quando questa è stata bombardata e distrutta, nonostante Hamas sapesse da un paio di giorni che le strutture erano state scoperte.

Segno, forse, che c'erano diverse diramazioni e si pensava comunque di farla franca e portare a termine almeno una parte di un'opera piuttosto impegnativa, dunque costosa: si doveva tentare di salvare tanto investimento. I tre tunnel avevano una lunghezza di 1,7 chilometri, partivano da edifici all'apparenza insospettabili dentro il tessuto urbano e si snodavano sotto quell'area piatta che divide le due parti.

Due persone in piedi ci potevano camminare tranquillamente e il materiale usato è «quel cemento che gli abbiamo venduto noi», come ironizza Shai Masot, 28 anni, un'accademia navale alle spalle, ora responsabile del valico di passaggio merci di Kerem Shalom, l'arteria che dà un po' di ossigeno a Gaza. Il soldato Shai diventa serissimo quando conteggia: «Il 30 per cento del budget di Hamas viene investito nei tunnel».

Segno non di un'iniziativa estemporanea ma di una strategia. Tanto che il maggiore Yenir, pure attestato su uno dei lembi di frontiera più caldi e fragili del mondo, lancia una facile profezia: «La prossima guerra sarà sottoterra». Accompagnata da una considerazione amara: «Stavolta li abbiamo scoperti, ma prima o poi ce la faranno a entrare».

Perché pare che non esista tecnologia in grado di vedere un buco a meno 18 metri. La profondità come incubo. Sono stati scoperti in passato, a Gaza, dei cd-rom per la fabbricazione di missili o di armi. Adesso ce ne sono per i tunnel. Li hanno passati gli iraniani, storici supporter di Hamas, che ne hanno fatto pratica per i loro siti sotterranei di arricchimento dell'uranio e che a loro volta hanno avuto come maestri i migliori del mondo: i nordcoreani con la loro fissa dell'invasione e perciò della necessità della rete underground.

Impenetrabile, o quasi, il passaggio via terra a causa del muro. Sigillato, o quasi, il cielo grazie al sistema Iron Dome in grado di neutralizzare i missili. Ad Hamas non restano che le viscere del pianeta per cercare di portare un'offesa: come in una sindrome da carcerati che aguzza l'ingegno. C'erano altri tunnel, a Sud, al confine di Rafah, verso l'Egitto. Servivano per i traffici di generi di prima necessità, di armi e di essere umani.

Il nuovo regime del Cairo e il generale Abdul Fatah al-Sisi hanno deciso di chiuderli, ora con una certa determinazione, dopo aver capito che erano pericolosi anche per loro. I nuovi tunnel non servono per i commerci ma per la guerra, sono il cavallo di Troia moderno per rilanciare le ambizioni di una formazione estremista che ha avuto nel recente passato poca agibilità militare e che i recenti avvenimenti rischiano di mettere nell'angolo anche per l'agibilità politica visto il voltafaccia dei fratelli egiziani e il sostanziale isolamento del resto del mondo arabo, troppo preso da altre faccende (guerra di Siria, nucleare di Teheran, confronto tra sciiti e sunniti).

Non a caso il generale Amos Gilas, direttore dell'ufficio per la diplomazia e la sicurezza del ministero della Difesa di Tel Aviv, usa una frase di sintesi perfetta per illustrare la situazione: «Stiamo bene ma siamo fragili. Dobbiamo prepararci a coprire molti fronti».
Dove "stiamo bene" è riferito al presente, davvero mai così sereno da tempo: è ripresa la collaborazione coi militari del Cairo, non esiste praticamente più un esercito siriano, Hezbollah ha i suoi migliori uomini impegnati ad aiutare Bashar Assad in Siria. Ma i fronti che si possono aprire in un futuro nemmeno tanto lontano sono numerosi.

Di Gaza s'è detto. E appena si tocca il tema Sud del Libano, ecco che torna d'attualità la stessa parola: tunnel. Un reticolo di decine e decine, forse centinaia, di chilometri costruito da Hezbollah sull'esperienza della guerra del 2006. Dove ricoverare i centri di comando in caso di un attacco aereo, costituire i nuclei di resistenza, stivare i missili sul cui numero le stime variano: si va dai 100 mila del generale Amos Gilad ai 50-60 mila di altri analisti. Un arsenale ricostruito negli ultimi sette anni e nonostante la presenza dei caschi blu di Unifil.

Jonathan, il comandante del fronte Nord che sta a ridosso del Golan (Siria e Libano), non esclude che le gallerie sotterranee, oltre che servire per la logistica, possano allungarsi verso Israele, esattamente sul modello della Striscia. E del resto una collaborazione tattica tra Hamas e Hezbollah si è riscontrata in tutti i momenti in cui c'è stato da coordinare un attacco concentrico allo Stato ebraico.

Certo il terreno più duro e pietroso è meno favorevole ai lavori di scavo, ma non mancano due elementi essenziali come la manodopera e il tempo. Nel 2006 il conflitto cominciò dopo una scaramuccia di confine e l'uccisione di alcuni soldati di Tsahal che lo presidiavano. In questo momento aprire le ostilità non è nell'interesse dello sceicco Hassan Nasrallah, il leader del partito di Dio.

I suoi uomini migliori stanno in Siria a dar manforte al regime (sarebbero almeno 5 mila) e il loro arrivo sta coincidendo con il rovesciamento delle sorti della guerra che sembrava arridere ai ribelli. Quando torneranno, carichi di gloria e di esperienza sul campo, rappresenteranno un pericolo in più. Tanto che uno come il generale Gilad ammette di temere quel momento, oltre alla scaltrezza di Nasrallah.

Se arrivasse una situazione favorevole, potrebbe essere per lui vantaggioso far scivolare oltre le linee un manipolo di combattenti, rapire alcuni israeliani e dare il pretesto per un nuovo confronto armato: Israele non lascia mai cadere le "provocazioni", come la cronaca di questi giorni conferma.

Se la nuova frontiera (letteralmente) è il sottosuolo, non basteranno a mettere in sicurezza Israele le nuove barriere (elettrificate o di cemento) che a poco a poco stanno completando il perimetro dei suoi confini. Oltre a Gaza e la Cisgiordania, anche il Libano e le inquiete alture del Golan oltre le quali (e oltre l'area di sicurezza) stanno attestati siriani lealisti e siriani ribelli, divisi a loro volta in fazioni laiche e fazioni estremiste vicine ad al Qaeda. Tanto da poter tranquillamente rovesciare l'apparenza, perché, a forza di sigillare, è Israele stessa che si sta costruendo un fortino-prigione.

Tutto ciò succede in un'area dove l'assenza di un conflitto aperto ha indotto a credere che si stia attraversando una fase di "immobilità positiva". Quando in realtà, sotto traccia, le cose sono sempre in movimento e non potrebbe essere diversamente finché non sarà risolto l'antico conflitto coi palestinesi e non si arriverà a uno stabile quadro generale.
La Borsa di Tel Aviv conosce il suo boom, soprattutto per il settore hi-tech. Il turismo è in forte ripresa e lo dimostrano anche le numerose presenze per il periodo delle festività natalizie.

Si fanno grandi progetti come quello, faraonico, del canale che unirà il Mar Rosso col Mar Morto, frutto di una collaborazione israelo-giordana. È un Paese all'apparenza come tanti altri. E anche florido, dopo aver avuto i suoi indignados e la contrazione dell'economia. La guerra non è più l'argomento privilegiato nelle conversazioni da bar, tanta è la voglia di vivere coi problemi di un qualunque altro Stato (Ben Gurion diceva: «Saremo davvero un Paese normale quando avremo le nostre prostitute e i nostri ladri»).

Ed è come se i temi della sicurezza, da sempre preoccupazione di tutti, fossero stati delegati a chi ne se occupa professionalmente. Cioè il capace e necessariamente grosso apparato di difesa. Ed è proprio in questo ambito settoriale che l'apprensione prende lo spazio dell'ottimismo. Perché sarà pur vero che il caos nel campo altrui rende la situazione eccellente (per parafrasare Mao), ma oltre il caos si possono scorgere scenari inquietanti. L'Egitto è di nuovo un partner ma di pace fredda.

La Siria un punto interrogativo e dipende da chi vincerà. Il nucleare iraniano la minaccia incombente nonostante le rassicurazioni di una comunità internazionale che vuole però trattare con gli ayatollah (ma la comunità internazionale è un'entità astratta e distante, Teheran è a un tiro di bomba). La Giordania un partner che presto potrebbe avere problemi e veder traballare il re per via dell'esagerato numero di profughi siriani e per il peso demografico sempre maggiore dei palestinesi (sarebbero ormai larga maggioranza se un censimento contasse le teste).

Allo scenario geopolitico turbolento ecco sommarsi ora i tunnel. Strumento che potrebbe sembrare medievale o da fumetto della Disney. Ma abbiamo imparato (dai coltellini dell'11 settembre e non solo) che nelle guerre asimmetriche sono proprio gli strumenti antichi a inceppare i sofisticati meccanismi dell'avversario tecnologicamente potente ed evoluto.

 

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