MANDELA, SANTO A METÀ - LA MORTE HA RIAPERTO IL DIBATTITO SULLE PAGINE NERE DELLA VITA DEL LEADER - LO SCRITTORE SUDAFRICANO, ZAKES MDA: “MADIBA HA CHIUSO GLI OCCHI SULLE RUBERIE DEI SUOI COMPAGNI”

1 - IL NOSTRO ULTIMO EROE DOLCE E IMPERFETTO
Vittorio Zucconi per "la Repubblica"

SONO le ingiustizie universali che creano gli eroi universali, come Madiba Nelson Mandela è diventato. È IL sentimento che l'eroismo e le azioni di un singolo, la sua ribellione, la sua vittoria o la sconfitta risuonano oltre i confini del luogo e del tempo e toccano qualcosa che generazioni lontane avvertono come proprio e soprattutto come vero.

Se la topografia delle città del mondo è piena di strade e piazze dedicate a George Washington è perchè l'indipendenza cercata disperatamente dai coloni americani contro il dominio della lontana corona britannica parlò la lingua dei popoli europei tra la fine delle monarchie assolute e il ritorno della restaurazione post-napoleonica.

Se un lontanissimo miliardario indonesiano chiamato Thohir, scoperto soltanto grazie alla globalizzazione del gioco del calcio, decide di chiamare 'Garibaldi' uno dei suoi figli, è perchè il nizzardo che si battè in Brasile, in Uruguay, in Italia, in Francia, sembra rispondere ancora, 140 anni dopo la sua morte, al generico quanto potente richiamo della parola 'libertà'.

Saranno sicuramente milioni i neonati che saranno chiamati con il nome di Mandela. Già nelle prime ore dopo la sua morte molte scuole elementari americane hanno deciso di cambiare il proprio nome e di intitolarsi a lui. Il culto del suo nome, che la scomparsa ha reso definitivo, resterà vivo fino a quando saranno vive le ragioni che lo hanno creato, riassunte nella fin troppo generica parola 'razzismo'. Ovunque una tribù umana pretenderà di sentirsi migliore di altre tribù dai tratti somatici e dalla carnagione diversi e di utilizzare questa 'superiorità' per il proprio interesse, il nome di Mandela riaffiorerà. Dunque per un lungo, lungo tempo.

Nell'universalità dell'eroe si manifesta la convinzione che anche i casi più oggettivi di oppressione e di razzismo abbiano bisogno di un soggetto che incarni lo spirito della battaglia e lo traduca in azioni: «Beato il popolo che non ha bisogno di eroi», scriveva in una celebre frase Brecht. Le colonie americane avrebbero probabilmente trovato negli anni l'indipendenza anche senza George Washington, ma il suo esercito di dilettanti armati ebbero bisogno di lui per diventare rivoluzione vittoriosa.

E se l'atrocità codificata dell'Apartheid non avrebbe retto nel tempo, senza Madiba si sarebbe trascinata negli anni e probabilmente sarebbe affondata nel sangue di una guerra civile. Così come la negazione dei diritti civili e umani ai neri degli Stati Uniti dovette avere in Martin Luther King - altro eroe divenuto universale - il proprio martire. Discorsi simili si possono fare per il Mahtma Gandhi in India o, venendo all'oggi, per Aung San Suu Kyi in Birmania.

La forza dell'esistenza di questi personaggi oltrepassa e cancella nella codificazione del mito, tutti gli errori, le debolezze, i difetti dei protagonisti che vengono identificati con una causa. Nessuno di questi eroi globali era un santo, come lo stesso Mandela - l'uomo che non sapeva piangere avendo avuto le ghiandole lacrimali bruciate nel sole della cava di pietra dove era stato per 27 anni - si affrettava a ripetere.

Washington era proprietario di schiavi e marito assai poco esemplare. Garibaldi conobbe fallimenti militari e personali. Martin Luther King, pastore ordinato della chiesa battista, aveva un debole per le donne che l'FBI di Hoover religiosamente registrava e catalogava: eppure questo non riuscì mai a scalfire il suo prestigio, poi per sempre sigillato dai proiettili di Memphis.

Anche l'uso della violenza e delle armi, che in teoria tutti condannano, non intacca la potenza del culto universale di certi personaggi: condizione necessaria però è che i fucili, le armi, le bombe rispondano a criteri di specificità e di riconoscibilità degli obbiettivi. L'attacco alle Torri Gemelle, con la strage di turisti, sguatteri, impiegati, addetti alle pulizie, passeggeri di aerei civili non avrebbe mai potuto far assurgere Osama bin Laden alla statura di eroe universale per l'oscena insensatezza dell'operazione.

Ma i massacri di uomini bianchi in divisa blu compiuti dai celebri guerrieri indiani in America non hanno impedito che figure come quella di Cavallo Pazzo raggiungessero lo status di eroismo transnazionale: la necessità che spingeva le loro mani disperate era evidente. Vale, per 'l'eroe universale', il principio della legittima difesa, impossibile da applicare al terrorismo ideologico o mistico.

Se una caratteristica accomuna coloro che come Mandela assurgono agli altari della beatificazione globale, questa è il rifiuto dell'accanimento nel potere che pure hanno conquistato. Ogni scolaretto sa - o dovrebbe sapere - come scelse di finire la propria esistenza Giuseppe Garibaldi, nella solitudine dell'isola di Caprera. George Washington, che aveva recalcitrato anche davanti alla propria elezione a primo Presidente, chiuse i suoi giorni come li aveva cominciati, da 'farmer', agricoltore, nelle colline della Virginia.

Mandela, che sarebbe stato eletto e rieletto presidente del Sudafrica anche sul letto di morte, scelse di servire la nazione per un solo mandato e poi ritirarsi. Martin Luther King non ebbe il tempo per scegliersi il proprio tramonto, ma fu ucciso per avere voluto a ogni costo e contro i consigli dei suoi, partecipare allo sciopero degli spazzini di Memphis, discriminati ed esporsi al balcone del motel.

Per vibrare attraverso i secoli e i continenti, la corda dei sentimenti deve sentire che in questi personaggi c'è il senso di una missione che va oltre l'ambizione personale e l'autoglorificazione. Milioni di persone venerano ancora Ernesto Che Guevara non per i suoi successi rivoluzionari, inesistenti in America Latina, ma per il suo sacrificio. Lenin e Mao, sicuramente formidabili personaggi ascesi a statura planetaria, sono rimasti impigliati nella stessa rete dell'ideologia che li aveva sollevati e poi zavorrati dal fallimento dei sistemi che attorno a loro, o in loro nome, erano stato costruiti.

Julian Assange, il pontefice di Wikileaks, sta raggiungendo per alcuni i cieli della venerazione, ma ancora troppo poco sappiamo su di lui, sui suoi motivi, sui finanziamenti, per poterlo accettare come eroe universale della libertà di informazione.

Ci deve essere, come per Garibaldi, per Washington, per King, per Cavallo Pazzo, per Mandela una presunzione di innocenza e di purezza dello spirito, se non sempre nei comportamenti. E per questo, in un mondo che ha disperatamente bisogno di sopravvivere alla frantumazione quotidiana della globalizzazione che tutto appiattisce, continueranno a vivere, nella immortalità del nostro bisogno di eroi.

2 - "VEDO LE CREPE NEL MITO NON FERMÃ’ LA CORRUZIONE"
Michele Farina per il "Corriere della Sera"

Negli ultimi anni era diventato il suo modo di rispondere meccanicamente a tutte le domande: «Good. Very good». John Carlin, autore del libro da cui è stato tratto il film «Invictus», ricorda l'ultimo incontro con Madiba, un giorno del 2009. Seduto in sala da pranzo, il suo solito grande sorriso, la gigantesca stretta di mano, le parole che però non uscivano dalle labbra di pietra, sotto uno sguardo distante. «Bene, molto bene».

L'incontro durò un'ora, e Mandela si accese soltanto una volta, infilando poche frasi con la sua voce sottile ma decisa: «Sei mai stato in prigione? La mia gente diceva che avevo paura. Dicevano che ero un codardo perché avevo deciso di parlare con i bianchi. Ma io non sono stato lì a discutere. Sapevo di avere ragione. Sapevo che questa era la via per la pace». Una cosa che gli è rimasta dentro fino alla fine, una spina su cui ha rimuginato anche quando la mente era già molto annebbiata. Mandela il codardo, Mandela venduto ai bianchi.

La storia gli ha dato ragione ma per anni, tra i compagni di prigionia e tra i leader dell'Anc in esilio, la linea Nelson si scontrò con la linea più dura impersonata dal rivale Gowan Mbeki, padre di Thabo (il successore di Mandela alla presidenza), che per i capi dell'apartheid avrebbe voluto un processo stile Norimberga.

Invece dalla prigione sull'Isola dei Conigli uscì vittorioso Madiba il pacificatore. Intorno a questa «narrativa» della riconciliazione, dice al Corriere lo scrittore Zakes Mda, si è costruito il mito Mandela. «Siete stati voi all'estero a farne un santo della pace, un nuovo Mahatma Gandhi». Ogni mito ha le sue crepe: anche Gandhi, negli anni in cui visse in Sudafrica, protestò con i bianchi perché gli indiani erano discriminati, salvo lamentarsi perché venivano abbassati al livello dei kaffir «negri».

Per Mandela è vero, «sarà ricordato come l'uomo della riconciliazione» dice Mda, forse il maggiore degli scrittori neri sudafricani (Si può morire in tanti modi , La Madonna di Excelsior ). Anche se «la riconciliazione non si è ancora pienamente realizzata in Sudafrica. Comunque sia, il suo merito più grande per me è stato un altro: la Costituzione. È la sua eredità più significativa. E il merito è di squadra: senza il collettivo dell'African National Congress che lavorò con lui, forse una Carta così avanzata non si sarebbe realizzata. Mandela non sarebbe andato contro il partito». Diritti umani, abolizione della pena di morte, libertà di scelta, e quell'uguaglianza di genere «su cui molti Paesi occidentali stanno ancora dibattendo».

Zakes Mda non è tenero con Madiba. Se è stato santificato in vita, forse può essere umanizzato da morto. «Tutti i suoi sforzi sulla via della riconciliazione hanno riguardato le divisioni tra bianchi e neri. Le divisioni tra neri sono continuate».

Madiba ha chiuso gli occhi sulle ruberie dei compagni: «La corruzione in cui oggi annaspiamo è cominciata durante la sua presidenza. Lui personalmente non fu coinvolto. Però sapeva e non fece niente per sanare la piaga. Chiesi di incontrarlo una volta, gli parlai della corruzione ma lui rimase freddo. Perché era fedele al partito, leale con i compagni. Per lui erano tutte persone integre. Il risultato: mentre lui era presidente la corruzione ha messo radici. E quando mette radici sappiamo quanto è difficile da estirpare».

Madiba e quell'accusa di essere «un codardo», affiorata anche negli ultimi momenti di lucidità: «C'è una minoranza di neri che effettivamente lo accusa di aver venduto la giustizia sull'altare della riconciliazione».

Anche Winnie, l'ex moglie di Mandela, più di una volta ha fatto considerazioni simili. «I bianchi invece sono diventati addirittura nostalgici di Mandela - dice Mda - perché lo paragonano alla leadership di oggi». Ed è vero che «il problema della povertà in cui versava e versa la maggioranza dei sudafricani è stato in gran parte negletto anche sotto il governo del primo presidente nero. Il sistema di black empowerment introdotto nel sistema economico ha avvantaggiato le élite all'interno dell'Anc. E questa è un'altra delle innegabili debolezze del santo Mandela».

 

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