PENNE ALL’ARRABBIATA - VIOLENTO SCAZZO SULLE TOGHE TRAVAGLIO-PIGI BATTISTA

1 - CONSIDERAZIONI SUL METODO TRAVAGLIO
Pierluigi Battista per "Il Corriere della Sera"

Molti amici mi chiedono perché non abbia sinora mai replicato alle molestie giornalistiche, ripetute sino alla macchiettistica maniacalità, che Marco Travaglio mi riserva pressoché tutti i giorni, quelli dispari e quelli pari. La risposta era ed è: perché contro un fanatico non c'è argomento che tenga.

Però è difficile dover ingoiare in silenzio l'ultima lezione di deontologia professionale dall'autore dell'intervista più inginocchiata della storia (a Beppe Grillo, uno che ha insultato Rita Levi Montalcini: che coppia), a pari merito con quella di Gianni Minà a Fidel Castro e di Emilio Fede a Silvio Berlusconi. Perciò una volta tanto consumerò queste «Particelle elementari» per «fatto personale». Sarà la prima e l'ultima volta: non c'è nulla di più ridicolo delle beghe tra giornalisti.

Non è mai accaduto che le bastonate di Travaglio abbiano messo in discussione le mie convinzioni. Perché Travaglio non argomenta, mena: e il manganello può intimidire, non far cambiare le convinzioni. Beninteso: mena sempre, tranne davanti al potente che gli sta di fronte. E quando a Travaglio è capitato di dover contrastare Berlusconi in una puntata di «Servizio pubblico», tutti ricorderanno l'umiliante tremolio dell'eroico paladino al cospetto del nemico che lo stava strapazzando.

Mena quando qualcuno si domanda come mai, se davvero le prove erano tanto «schiaccianti» contro Del Turco, l'accusa abbia chiesto per ben due volte un supplemento di indagini per trovare un corpo del reato ancora irreperibile: ma la logica non alberga nella testa dei guardiani della rivoluzione.

Travaglio menava anche chi dubitava che Andreotti avesse davvero baciato Totò Riina. Tutti gli altri, compresi i più agguerriti colpevolisti, facevano finta di crederci: lui ci credeva davvero. Lui è il pasdaran di ogni accusa, la guardia pretoriana di ogni pubblico ministero. La difesa dell'imputato? Un inammissibile attacco alla magistratura. Un giusto processo? Una scocciante perdita di tempo. Ha pubblicato un libro riassuntivo su Mani Pulite in cui ha trascritto (trascritto, non scritto) per centinaia di pagine i capi di accusa, dedicando ai casi di assoluzione al massimo una svogliata ammissione tra parentesi.

Ha scritto articoli per deplorare Berlusconi che sbraitava sulla politicizzazione della Corte Costituzionale. Ma che ha fatto Travaglio quando la Corte Costituzionale ha dato torto al Pm suo amico che in questi giorni trova deprimente lavorare con l'operoso popolo valdostano? Ha scritto che la Corte Costituzionale era nelle mani del comune nemico Giorgio Napolitano: uguale alla tesi berlusconiana, ma la coincidenza non lo turba.

Accusa gli altri di non sapere le cose, ma quando precipita nei suoi strafalcioni giuridici (sua l'invenzione della fantastica categoria dei «non ancora indagati»), molti magistrati confessano il loro imbarazzo per tanto zelo. Essere menati da un tipo del genere è un rischio che bisogna correre, e così si chiude questa rubrica. La prossima volta si torna alle cose serie.

2. L'UOMO CHE NON SAPEVA NULLA
Marco Travaglio per "Il Fatto Quotidiano"

Chissà se la Procura di Milano se ne farà una ragione: a Pigi Battista non è piaciuta la requisitoria al processo Ruby-bis. I pm Forno e Sangermano hanno usato brutte parole, senza nemmeno concordarle con lui. Poi han chiesto 7 anni per Mora, Fede e Minetti, più l'interdizione perpetua dai pubblici uffici e dagli incarichi scolastici: troppo. Se nemmeno tre eventuali condannati per induzione e favoreggiamento della prostituzione, minorile e non, possono diventare deputati o premier o capi dello Stato, né dirigenti o insegnanti in scuole e asili, dove andremo a finire, signora mia.

Cose che càpitano quando i pm si ostinano a pronunciare requisitorie senza consultare il noto giureconsulto del Corriere, che nessuno ha mai visto a un processo, ma li conosce tutti come le sue tasche. Mesi fa Lele Mora era in carcere per bancarotta e lui tuonò: "Sei mesi di galera preventiva per bancarotta appaiono una punizione leggermente esagerata prima ancora di una sentenza"; "i pm usano la galera per indurre l'indagato a conformarsi alla loro versione"; roba da "tortura", colpa della "ferocia diffusa che chiede provvedimenti esemplari contro l'‘antipatico', l'eticamente discutibile ed esteticamente impresentabile, il flaccido malfattore (presunto)".

Poi si scoprì che il malfattore era talmente "presunto" e "in attesa di sentenza" da aver appena patteggiato 4 anni e 3 mesi per la bancarotta da 8,4 milioni della sua LM Management, al cui fallimento aveva sottratto i 2,8 milioni regalati da B. per comprarsi una Mercedes e dirottare il resto su un conto svizzero. Subito sbugiardato, il Battista non batté ciglio. Anzi, passò subito ad assolvere l'altro suo imputato prediletto, Ottaviano Del Turco, ripubblicando per l'ennesima volta il pezzo che scrive dal 2008, quando l'allora governatore d'Abruzzo fu arrestato per tangenti.

L'altro giorno ha scritto che: il pover'uomo è ancora "nell'attesa di un processo ancora ai primi passi" (non avendolo mai seguito, non sa che è alle ultime battute); le "prove schiaccianti" (tipo la confessione del corruttore, che ha addirittura fotografato le mazzette prima di consegnarle a Del Turco) annunciate dai pm "non esistono"; e la Procura "non aveva nemmeno controllato le date delle foto scattate dall'accusatore e dei pedaggi autostradali".

Purtroppo l'altroieri il perito del Tribunale ha confermato che le foto delle mazzette collimano con le date dei viaggi in autostrada del presunto corruttore verso casa Del Turco. Ma questa notizia l'ha data solo il Fatto. Battista no: con agile balzo, era tornato ad assolvere l'altro imputato prediletto, Lele Mora. Che, a suo dire, viene processato con Fede e Minetti non per dei reati, ma per "un peccato", "uno stile di vita". E viene offeso dai pm con un "linguaggio" sconveniente che "smarrisce il senso delle proporzioni".

In effetti è bizzarro che in un processo per prostituzione l'accusa parli di prostituzione con espressioni come "sistema complesso di prostituzione", "soddisfacimento del piacere di una persona", "atti sessuali retribuiti", e dipinga i presunti papponi "come sentina di ogni vizio, espressione di ogni nefandezza" a fini di "degradazione morale", anziché elogiarne le virtù etiche e civiche (in fondo il lenocinio è uno "stile di vita" come un altro).

Invece quelli di Milano sparano la richiesta "severissima" di condannarli a 7 anni più le interdizioni: la prova che vogliono "una condanna morale", non "giudiziaria", una "pena esemplare" e quindi non "giusta". Non sa, il giureconsulto, che non la Procura, ma il Codice penale, grazie anche alle leggi dei governi Berlusconi del 2006 e del 2008, prevede per questi reati da 6 a 8 anni di carcere con automatica interdizione perpetua dai pubblici uffici e dagl'incarichi scolastici: nemmeno volendo i pm avrebbero potuto chiedere di meno. Ma Battista, rispetto ai giornalisti, gode di un privilegio invidiabile: non sapendo nulla, può scrivere di tutto.

 

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