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ALL’ARMI SIAM LEGHISTI! – IERI I NEOFASCISTI DI CASA POUND SI SONO UNITI AI “PADANI” TRA DRAPPI ROSSO-NERI E CROCI CELTICHE – MOLTI MILITANTI LEGHISTI LI HANNO GUARDATI CON CURIOSITÀ SENZA CAPIRE BENE CHI FOSSERO

Fabrizio Roncone per “Il Corriere della Sera

 

Il Senatùr non li ha ancora visti.
I camerati di CasaPound marciano giù dalle rampe del Pincio, ranghi compatti in fila per cinque, formazione da parata più che da corteo, Ray-Ban a specchio e giubbotti neri, e poi barbe alla Italo Balbo e muscoli tesi, sguardi tesi al sole del pomeriggio.
Slogan duri e drappi con le croci celtiche, ma niente saluti romani: perché gli ordini sono ordini e oggi è stato deciso così.

CASA POUND CASA POUND


Il Senatùr è sul palco, di spalle.
Avvertitelo. Ditegli qualcosa.
E invece niente. L’hanno lasciato solo in un angolo e allora l’Umbertone, il fondatore della Lega, il Druido padano parla come quando armeggiava con le ampolle a Pontida, incurante d’essere invece in piazza del Popolo, con un nuovo capo che ha già deciso tutto: «Noi dobbiamo stare con Berlusconi. Ed è sbagliato stringere alleanze con CasaPound...».
Matteo Salvini pensa l’esatto contrario.

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Scriveranno che questa manifestazione segna la fondazione del fascioleghismo e vedremo, tra qualche tempo, se hanno ragione: certo la piazza prima non era piena e quelli che c’erano avevano gli accenti delle regioni tradizionalmente leghiste. I romani non hanno dimostrato alcuna curiosità politica (probabile non abbiano dimenticato che, nella marcia del dicembre 99 voluta da Umberto Bossi, da Milano partì un treno chiamato «Nerone express«): e adesso è chiaro, plasticamente chiaro, che sono le numerose truppe dei fascisti del terzo millennio — è la loro definizione preferita: e comunque alcuni tengono uno striscione con la foto di Benito Mussolini — a rendere gli organizzatori soddisfatti.


I vecchi militanti scesi da Varese, Rovigo, quelli partiti in pullman da Vicenza, non hanno capito chi sono i loro nuovi alleati: li vedono alti e aitanti, con facce fiere e sorridenti e li applaudono, ci sono grida di evviva e pacche sulle spalle (qualche camerata però si scosta, infastidito).


Arriva Mario Borghezio, xenofobo dichiarato, esperto di ufologia convinto che tra noi umani vivano camuffati molti extraterrestri: per Salvini, Borghezio ha un debole. «È il giorno del suo trionfo».

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Passano Roberto Calderoli e Giancarlo Giorgetti (per anni e anni indicato come il naturale candidato alla successione di Bossi e ora comprensibilmente a capo chino, mesto). I fotografi cercano Flavio Tosi. Poi ecco Roberto Maroni, presidente della Regione Lombardia ed ex ministro dell’Interno. Una cronista allunga il microfono e urla a Maroni: «Quand’era al Viminale, la Digos le ha mai segnalato niente di CasaPound?».


Maroni tira diritto, gran bolgia, sul palco hanno cominciato a parlare, a turno, medici disoccupati e agricoltori, un pescatore e una studentessa.
Inizia la liturgia dei «vaffa»: a Renzi, Prodi, Monti, Fornero e Alfano.


La manifestazione prende subito una piega piuttosto volgare. Enrico Lucci, mitica maschera delle «Iene», si aggira soddisfatto. Due ragazze bionde, indossando aderenti t-shirt rosse, sventolano bandiere russe e si guadagno il sotto-palco. Barbara Saltamartini (ex An, ex Pdl, ex Ncd) le osserva dall’alto in basso. Isabella Rauti, moglie di Gianni Alemanno, non trattiene l’aria schifata (in effetti, questa è la piazza storica del Msi, la piazza dove negli anni Settanta venivano a parlare Giorgio Almirante e suo padre, Pino Rauti).

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Adesso sale a parlare Simone Di Stefano, vice-presidente di CasaPound.
Questo Di Stefano urla forte.
«Condividiamo ogni parola di Matteo Salvini!» (pausa teatrale).
«No all’euro!».
«Stop all’immigrazione!».
«Gli italiani prima di tutto!».


Il capo dei fascisti del terzo millennio, Gianluca Iannone, l’aspetto temibile del Mangiafuoco di Pinocchio, ascolta soddisfatto. Poi, senza troppa voglia ma con estrema cortesia, accetta di rispondere alle domande di molte tivù.
«Con Matteo ci siamo incontrati su un percorso politico. Noi, violenti? Noi sono undici anni che cerchiamo di convincervi che siamo buoni» (si nota, sul collo taurino, il tatuaggio: «Me ne frego»).


Va al microfono Giorgia Meloni.
È la condottiera di «Fratelli d’Italia», romana, furba, determinata, invece che per salotti va per periferie, fa politica da quando era ragazza — inizia con il Fronte della Gioventù, poi il Msi, quindi An e Pdl: deputata e ministro — e quindi anche stavolta ci mette mestiere e passione, è lei a scatenare le prime ovazioni. Con standing-ovation per il passaggio su Gino Paoli, «uno che da presidente della Siae faceva pagare le tasse ai giovani artisti e poi portava in Svizzera i soldi che gli pagavano in nero alle Feste dell’Unità!».

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Segue Luca Zaia, il governatore uscente del Veneto.
Zaia, di solito, ha un eloquio forbito, stretto, elegantino. Un po’ come le sue giacche.
E anche ora, in questo discorso, tiene abbastanza. Argomenta, polemizza, si compiace, ironizza. Otto minuti ineccepibili. Ma come chiude?
«E allora torneremo in regione e gli faremo un culo così!» (per fortuna, evita di mimare il gesto).


Sarebbe stato interessante vedere la reazione, a simili turpiloqui, di Marine Le Pen, leader dell’estrema destra francese, donna in nero di grandissimo charme: ma la Le Pen ha spedito un messaggio video che dura lo stretto necessario. Poi, tocca a lui.
A Matteo Salvini.
Dall’alto parlante annunciano: «Salutiamolo come si deveeeee!».
Quelli di CasaPound non resistono. Hanno come un riflesso condizionato. Braccia tese scattano nel saluto romano. Le nuove legioni sono schierate .

 

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