LA CANNES DEI GIUSTI - CENTO (O 50?) SPETTATORI SONO SCAPPATI INORRIDITI DALLA PRIMA DI "THE HOUSE THAT JACK BUILT" DI LARS VON TRIER DOPO AVER VISTO CORPI DI DONNE E DI BAMBINI SMEMBRATI DAL SERIAL KILLER PAZZO DI MATT DILLON CHE SOGNA LA FAMA AL RITMO DI “FAME” DI DAVID BOWIE E PENSA CHE I SUOI DELITTI SIANO OPERE D’ARTE - I CRITICI GIA’ PARLANO DI “SADO-HORROR-PORNO” - VIDEO

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Marco Giusti per Dagospia

 

THE HOUSE THAT JACK BUILT THE HOUSE THAT JACK BUILT

Cannes settimo giorno. Beh, piove, ma almeno qualcosa si muove. Come i cento (o 50?) spettatori che sono scappati inorriditi dalla prima di The House That Jack Built di Lars Von Trier dopo aver visto corpi di donne e di bambini smembrati dal serial killer pazzo di Matt Dillon che sogna la fama al ritmo di “Fame” di David Bowie e pensa che i suoi delitti siano opere d’arte.

 

Il cinema non fa lo stesso? Insomme, due ore e mezzo di sangue e grida, con finalone delirante già di culto, premiate dai fan scatenati di Lars con dieci minuti di applausi in sala, ma definite da altri critici come: “sado-horror porno”, “pesante, pretezioso, vomitevole, abietto”, “film vile, non doveva essere fatto”, “sembra un messaggio di suicidio”, “uno degli episodi più spiacevoli da spettatore della mia vita”.

 

THE HOUSE THAT JACK BUILT THE HOUSE THAT JACK BUILT

Critiche che non risparmiano neppure Matt Dillon. Ma la battuta migliore è "ma come? fa a pezzi Riley Keough, fa a pezzi il bambino.., e noi siamo tutti qui vestiti di gala a guardarlo?”. Sono le contraddizioni assurde di questo festival, che cerca di fare femminismo anti-molestie oggi con le sfilate delle star mentre fino a ieri si inchinavano a Harvey Weinstein.

 

Detto questo, stavolta Lars von Trier c’è andato pesante. E spettatori e critici hanno reagito. Però lo sapevamo già tutti che il film era così, e non a caso era stato inserito come fuori concorso. Non volevamo proprio questo? Come sapevamo che lo scatenato film antitrumpiano di Spike Lee, BlacKkKlansman, prodotto dal genio che stava dietro a Get Out, Jordan Peele, avrebbe diviso la critica.

THE HOUSE THAT JACK BUILT THE HOUSE THAT JACK BUILT

 

Da una parte gli americani che gridano al capolavoro del regista, il suo miglior film da anni: “divertente, furioso ritratto dell’America di Trump – un gioco isterico fino a quando non diventa serio come un colpo al cuore”, pronto per la Palma d’Oro. Mentre altri, soprattutto europei, sono stati meno trionfalistici. Penso a Peter Bradshaw del Guardian, che lo definisce

 

"un flipper lampeggiante pieno di bombe atomiche, trofei da blaxploitation e grossolane premonizioni di Trump". Bradshaw si riferisce alle battute su “America first” e sulle prese in giro di Nascita di una nazione di D.W.Griffith. Insomma, un film politico sull’America di oggi partendo da una storia vera, cioè un poliziotto afro-americano che riesce a infiltrarsi fra un gruppo di pazzi maniaci del KKK in quel di Colorado Springs negli anni ’70, mentre trionfano le Pantere Nere e la blaxploitation.

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Ma Spike Lee non faceva un film buono davvero da parecchi anni, diciamo dai tempi di Inside Man, e per giunta qui, dopo successi neri al cinema come Black Panther e Get Out, ha l’occasione di scatenarsi come vuole forte dell’appoggio di Jordan Peele. Certo, fine e delicato il suo cinema non è mai stato. Ricordiamo però che la giornata di ieri, pioggia a parte,  era cominciata già benissimo con un film meraviglioso di Hirokazu Kore-Eda, Manbiki Kazoku/Shoplifters, meravigliosa commedia sul senso della famiglia e sulla sua costruzione nel Giappone comtemporaneo.

 

THE HOUSE THAT JACK BUILT THE HOUSE THAT JACK BUILT

Meravigliosa perché ha una costruzione di soggetto e di sceneggiatura che non solo ci rimanda alla tradizione di Mikio Naruse, ma anche all’ingegneria di racconto di un Howard Hawks. Nulla è scritto e inquadrato a caso in questo film. Una bambina molto piccola piena di lividi e bruciature, Yuri, la piccola Miyu Sasaki, viene presa, accolta, magari rapita, da una strana piccola bizzarra comunità. C’è un padre, Osamu, Lily Franky, che insegna a rubare a un figlio, Shota, Kairi Jyo, come fosse il Fagin di Oliver Twist.

 

C’è una madre, Noboyu, Sakura Ando, che lavora in una lavanderia. Una nonna, Hatsue, Kirin Kiki, che fa da vecchia saggia del gruppo e istruisce una nipote, Aki, Nayu Matsuoka, che lavora in un peep show toccandosi davanti agli uomini separati da un vetro. Ma, i ruoli, che lo spettatore tende naturalmente a dare vedendo un film, non saranno quelli che pensiamo. E niente, scopriremo, è come sembra. 

 

THE HOUSE THAT JACK BUILT THE HOUSE THAT JACK BUILT

A parte il desiderio di ricostrursi quei ruoli all’interno della famiglia che noi spettatori vorremmo che loro avessero. E perfino la morte, alla fine, diventa un motivo di aggregazione e non di chiusura dei rapporti. Spiegata è una storia più complessa di come la racconta Kore-Eda, che ha la grazia e l’eleganza, come in Like Father, Like Son, di minare le basi della famiglia tradizionale spiegandoci naturalmente che è solo l’amore e l’affetto che costruiscono i veri rapporti di famiglia.

 

Qui si spinge oltre, costruendo, credo, uno dei suoi capolavori, sia come racconto che come messa in scena. Per noi cattolici, con i nostri film pieni di madonne che parlano e sanguinano, di santi che prendono le botte in testa, e, di conseguenza, di cocainomani marci, non è facile accettare il discorso di Kore-Eda sulla famiglia e sulla maternità e paternità. Ma è uno dei film migliori del festival visti fino a oggi e punta decisamente alla Palma d’Oro. Certo, non ci sono Madonne, donne soldato o tirate anti-trumpiane. Ma c’è grande cinema. 

 

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