COSÌ NACQUE HANNIBAL LECTER - THOMAS HARRIS A 23 ANNI INCONTRÒ IL MEDICO OMICIDA CHE GLI REGALÒ IL SUCCESSO

1. COSÌ NACQUE IL "SILENZIO DEGLI INNOCENTI"
Prefazione di Thomas Harris alla nuova ristampa del "Silenzio degli innocenti"

Sag Harbor, New York maggio 2013

Anni fa, in una vecchia casa di Sag Harbor con il pavimento sbilenco, scrissi queste parole: «il silenzio degli innocenti ». In quel momento mi resi conto di aver finito il romanzo, ma non solo: avevo trovato il titolo. Sopraffatto dalla felicità, mi staccai dalla scrivania, andando a sbattere contro la parete con lo schienale della sedia.

Ancora rapito dai personaggi del libro e dall'odore di cordite nella stanza, provai l'istinto di pronunciare ad alta voce i nomi delle persone che amavo. Ma un ricordo d'infanzia si mise di traverso: un giorno, da bambino, giocando ai cowboy tutto solo, avevo sparato a un passero. Prendendolo in mano ne avevo sentito il calore ed ero rimasto a osservarlo in mezzo alle erbacce, le guance rigate dalle lacrime.
Scuotendo la testa, ripensai a come tutto era cominciato...

Tanto tempo fa la rivista Argosymi aveva chiesto di recarmi nel carcere di Nuevo León a Monterrey, in Messico, per intervistare un americano condannato all'ergastolo per l'omicidio di tre giovani. All'epoca avevo ventitré anni, ed ero convinto che aver fatto un reportage su un turno di pattuglia della polizia in Texas mi avesse insegnato tutto ciò che c'era da sapere sul mondo.

Dykes Askew Simmons, ex paziente psichiatrico, era un bianco sui trentacinque anni, un metro e ottanta per ottanta chili, capelli brizzolati e occhi nocciola. Tratti distintivi: una plastica a Z mal eseguita sul labbro leporino, piccole cicatrici sulla testa. Aveva gli occhi di una tartaruga inferocita, quasi sempre nascosti dietro un paio di occhiali da sole neri.

Simmons mi presentò alcuni compagni di prigionia: un ufficiale giudiziario del suo processo, in carcere per aver ripulito qualcuno di tutti i suoi beni, e un fotografo arrestato perché rubava gli orologi alle vittime degli incidenti stradali. Quest'ultimo si rimboccò la manica per mostrarmi i cinque orologi che aveva al polso, offrendomi un prezzo stracciato per un Bulova con il cinturino sporco.

Simmons mi presentò anche la moglie, un'attraente infermiera dell'Ohio che lo aveva sposato dopo l'arresto. Il sabato sera potevano usufruire delle visite coniugali, appendendo delle coperte all'ingresso della cella per assicurarsi un minimo d'intimità. Guardare quella donna era piacevole e rassicurante, un'oasi di tranquillità in un posto del genere.

Circa un anno prima Simmons aveva tentato di evadere, corrompendo una guardia perché lasciasse una porta aperta e gli procurasse una pistola. Una volta consegnato il denaro, però, aveva trovato la porta chiusa come sempre. Non solo, ma dopo essersi intascato la mazzetta, l'infido secondino gli aveva sparato, lasciandolo a rantolare in una pozza di sangue sulla terra crepata.

Simmons si era salvato solo grazie a un eccellente medico del carcere. Mi informai allora sulle cure che aveva ricevuto. La guardia aprì la porta dell'infermeria e mi presentò il medico. Corporatura minuta e snella, capelli rosso scuro, il dottor Salazar se ne stava perfettamente immobile e non era privo di una certa eleganza. Mi invitò ad accomodarmi.

L'arredamento era spartano: un paio di sgabelli per sedersi e, contro la parete, un mobiletto con una serie di barattoli etichettati. Gli strumenti erano pochi: ago e filo, uno sterilizzatore, un paio di forbici mediche con la punta arrotondata e, stranamente, uno speculum.

Il dottor Salazar rispose alle mie domande sulle ferite di Simmons e sul modo in cui le aveva tamponate. Quindi, puntellando il mento con le dita, mi guardò.
«Signor Harris, cosa ha pensato quando ha visto Simmons?».
«L'ho osservato con attenzione per verificare se corrispondesse alla descrizione dei testimoni oculari».
«Qualche altra impressione?».
«Non direi».
«Ha risposto alle sue domande?»

«Be', sì, ma non è servito a granché. È un tipo impenetrabile, si era preparato le risposte».
«Si era preparato le risposte alle domande che si aspettava. Portava gli occhiali da sole dentro la cella?»
«Sì».
«Era buio là dentro, vero?»
«Sì».
«Perché li portava, secondo lei?»
«Forse per nascondersi».
«Gli occhiali da sole gli rendevano il volto più simmetrico? Ne miglioravano l'aspetto?»

«Davvero non saprei, dottore. Aveva vari segni di percosse sulla testa».
Il dottor Salazar chiuse gli occhi, forse per non perdere la pazienza, poi li riaprì. Erano di un rosso cupo, picchiettati di scintille granulose, come elioliti.
«Mentre parlava, ruotava il volto una decina di gradi verso sinistra?»
«Può darsi, alla gente capita di distogliere lo sguardo».
«Ritiene che Simmons sia fisicamente brutto? Non gli hanno fatto un gran bel lavoro al labbro».

«No».
«Lo rivedrà, signor Harris?»
«Credo di sì. Abbiamo l'autorizzazione a scattare qualche fotografia all'interno del recinto carcerario con la sua auto».
«Ha portato gli occhiali da sole, signor Harris?»
«Sì».
«Posso consigliarle di non indossarli mentre lo intervista?»
«Perché?»
«Perché si vedrebbe riflesso nelle lenti. Crede che da piccolo Simmons subisse le angherie dei compagni di scuola per via del volto deturpato?»
«È probabile. Di solito è così».

Il dottore sembrava divertito.
«Già. Di solito. Ha visto le fotografie delle vittime, le due ragazze e il loro fratellino?»
«Sì».
«Le sono sembrati gradevoli?»
«Sì. Belle facce, buona famiglia. Ed erano molto educati, così mi hanno detto. Non vorrà insinuare che l'avessero provocato? »
«No di certo. Ma i supplizi patiti in gioventù rendono i supplizi inflitti da adulti più... concepibili».

A quel punto mi guardò, ed ebbi l'impressione di veder cambiare la sua fisionomia: i lineamenti si erano aperti all'improvviso, come una falena che mostra il gufo disegnato sulle ali.
«Lei è un giornalista, signor Harris. Come lo scriverebbe sul suo giornale? Come si racconta la paura del supplizio in giornalese? Avrebbe il coraggio di trovare una formula brillante sul supplizio, che so, "il vizio del supplizio"?» In quel momento una guardia bussò alla porta e fece capolino. «Dottore, sono arrivati i pazienti».
Il dottor Salazar si alzò in piedi. «La prego di scusarmi» disse.

Lo ringraziai e lo invitai, se mai si fosse trovato in Texas, a darmi un colpo di telefono per un pranzo insieme, un drink o quant'altro. Ripensandoci, non ricordo alcuna traccia di ironia nella sua risposta: «Grazie, signor Harris. Non mancherò di chiamarla, la prossima volta che ci capito ».

Fuori dalla porta, nel corridoio, vidi un piccolo gruppo di persone in attesa con due guardie e una suora infermiera arrivata da un convento poco lontano. C'erano uomini e donne in abiti da lavoro stirati e huaraches (tipici sandali messicani, ndr), puliti e strigliati per la visita dal medico. Non erano carcerati, ma gente che abitava nei dintorni, e il dottor Salazar li curava gratis. La guardia mi accompagnò fuori. Ringraziandolo, gli dissi che avevo apprezzato la collaborazione del dottore e gli domandai da quanto tempo lavorasse al carcere.

«Hombre! Ma lei lo sa chi è quello?» «No. Abbiamo parlato solo di Simmons. » Sui gradini, la guardia si voltò verso di me. «Il dottore è un assassino, un chirurgo così bravo che riesce a inscatolare le vittime in contenitori minuscoli. Non uscirà mai di qui. È pazzo».
«Pazzo? Ma l'ho visto ricevere dei pazienti nell'infermeria».
La guardia alzò le spalle e aprì le braccia. «È pazzo, ma non con i poveri».

Tornato a casa, scrissi il mio articolo su Dykes Simmons. Una cosa portò a un'altra e mi ritrovai a occuparmi di crimini in altre zone del Messico, ma non vidi mai più il dottor Salazar. Nel frattempo la moglie di Simmons aveva annunciato di essere incinta, e col passare delle settimane cominciò ad aumentare di circonferenza. Un sabato sera, durante il terzo trimestre, ci fu una visita coniugale. Era il giorno in cui le suore arrivavano dal convento per prendersi cura dei prigionieri malati.

La moglie di Simmons si accomiatò da lui con particolare calore. In carcere erano arrivate dodici suore. Alla fine della giornata se ne andarono in tredici. Una di loro era Dykes Simmons, in abito e scarpe da suora. Glieli aveva portati la moglie, nascosti sotto un vestito premaman.

Simmons tornò in Texas. Qualche mese dopo fu trovato morto dentro un'automobile a Fort Worth, dopo una rissa. Quanto al dottor Salazar passò altri vent'anni in prigione. Quando fu rilasciato, si dedicò alla cura di anziani e poveri nel barrio più povero di Monterrey.
Il suo vero nome non è Salazar. Preferisco lasciarlo in pace.

Parecchi anni dopo, stavo cercando di scrivere un romanzo. Il detective a cui mi affiancavo doveva avvalersi della collaborazione di qualcuno che conoscesse alla perfezione la mentalità criminale. Perso nei meandri del lavoro, lo seguii passivamente al Manicomio criminale statale di Baltimora per avere una consulenza da uno degli internati. E chi pensate che ci fosse ad aspettarlo, dentro la sua cella? No, non il dottor Salazar, ma quello che, grazie al dottor Salazar, fui in grado di riconoscere come un suo collega: il dottor Hannibal Lecter.
(Traduzione di Michele Piumini)


2. ANTHONY HOPKINS - "IN FONDO ERA SOLO UNO A CUI PIACEVA L'ORDINE"
Silvia Bizio per "la Repubblica"

Sir Anthony, Hannibal Lecter festeggia il suo venticinquesimo compleanno. Cosa rappresenta questo personaggio per lei?

«Sono successe talmente tante cose da quando Il silenzio degli innocenti è diventato un film, e io stesso ho fatto talmente tante altre cose nel frattempo che non sarebbe esatto dire che io conviva con il signor Hannibal Lecter. Diciamo però che mi sono divertito a interpretare la sua parte, questo sì, e anche che sono piuttosto contento che il film sia diventato un classico. Come pure non mi dispiace che, grazie a lui, io abbia vinto l'Oscar. Ciò detto, a onor del vero, non sto lì a pensarci troppo».

Perché secondo lei ha avuto un così straordinario successo?

«Vero. È una vita che interpreto eroi di vario genere, re, imperatori o anche soltanto bravissime persone comuni, eppure quando la gente mi vede per strada ancora mi chiede di Hannibal Lecter. Anche io mi chiedo il perché, e la risposta che mi do è questa: i personaggi cattivi sono affascinanti. La seconda domanda è: quali istinti scatenano nello spettatore? quale dinamica di proiezione/introiezione attivano?

Un personaggio come Hannibal non lo vorresti certo come amico nella vita reale, ma nella fiction ne siamo in qualche modo attratti perché siamo in qualche modo attratti dai lati oscuri della psiche e della stessa esistenza umana. Sì, umana. Anche Lecter è umano, solo che la sua umanità è, diciamo così, spinta all'eccesso. Ed è proprio questo stare continuamente in bilico tra normalità ed eccesso che risiede, forse, il segreto del fascino di personaggi di questo tipo».

Fece ricerche particolari per interpretare al meglio Hannibal Lecter?

«Neppure tantissime. Tutto era già ben delineato, fin nei dettagli, nel romanzo di Harris, un romanzo tanto potente quanto inquietante. E poi fui diretto alla perfezione da Jonathan Demme. Alla fine mi sono solo dovuto affidare all'istinto e una volta trovata la sua voce, nasale, piatta e con qualcosa di sintetico, è stato piuttosto facile abbandonarmi - devo dire anche con un certo gusto - alla sua follia e al suo genio. La voce di Lecter secondo me doveva ricordare un po' quella di Hal, il computer di 2001 Odissea nello spazio: suadente e freddissima insieme. Hal è uno molto pulito e molto ordinato, e sarebbe capace di uccidere freddamente chiunque si mettesse di traverso ai suoi obiettivi. Se c'era una cosa che anche Hannibal Lecter non sopportava era il disordine. Anche lui avrebbe fatto qualsiasi cosa, persino la più orribile, per mantenere l'ordine».

 

 

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