FLAVIO BUCCI, IL GEORGE BEST DI TRASTEVERE – IL MARCHESE FULVIO ABBATE IN LODE DELL’ATTORE CHE OGGI VIVE IN UNA CASA FAMIGLIA DOPO AVER SPESO TUTTO IN VODKA, COCA E DONNE: "MERITA RISPETTO IL DESTINO CHE HA DONATO A SE STESSO. IN FLAVIO CHE DONA IL RIGOR MORTIS DI EVANGELISTI AL 'DIVO' DI SORRENTINO C’E’ LA PIÙ STRAORDINARIA METAFORA DI UN TEMPO FINITO PER CONSEGNARCI ALL’ORDINARIA MISERIA DEL DOPO” - VIDEO

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Fulvio Abbate per “il Dubbio”

 

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Flavio Bucci ha solcato il presente, e dunque la memoria di questo nostro piccino paese televisivo e insieme cinematografico con la moto di Antonio Ligabue, non Luciano, non il cantante, semmai il pittore folle della Bassa emiliana, ma questo una vita, un tempo fa, quando le lampare del successo, della fama sembravano sorridergli, accompagnarlo perfino in strada, nel viale degli applausi, degli autografi.

 

Flavio Bucci è stato un idolo televisivo, è stato appunto Ligabue, lo è stato perfino nell’ammirazione che si riserva ai volti particolari, bizzarri, caratterizzati espressionisticamente, “… guarda, guarda chi c’è, guarda lì, c’è Ligabue”, proprio così dicevano i genitori ai bambini incontrandolo nei giorni delle compere al Corso, lì per caso, o magari scorgendolo vittorioso sulla copertina della “Settimana Enigmistica”, e intanto Flavio Bucci-Ligabue, garbato, faceva cenno con la mano, salutava il bambino come fosse stato una sorta di Babbo Natale ulteriore, venuto fuori dal bestiario della bontà televisiva degli anni Settanta, Bucci, il profilo carenato, l’incarnato olivastro, sempre lì sulla moto a bruciare idealmente, ostinatamente la sua Bassa.

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Eppure, anni dopo, assai più prossimi a noi, pensandoci bene, scartabellando tra le fotobuste del cinema, Flavio è stato anche uno straordinario, spettrale, Franco Evangelisti, apostolo del sottogoverno democristiano capitolino, gli occhi che sedevano alla destra di Giulio Andreotti, così nel film di Sorrentino, “Il divo“, sebbene più affilato di “a Fra’ che te serve?”, sebbene privo della conventuale pinguedine democristiana da refettorio già visto in “Todo modo”, propria del braccio armato tra le scartoffie di Andreotti, anche lì Flavio era perfetto, maschera mortuaria di un potere tra clientelismo, ippodromi e Curia vaticana, perfetto anche da morto, composto lì nella bara, nella scena che annuncia il cupio dissolvi di un’era politica, perfetto davvero perfino da Evangelisti deceduto, immobile nella sua camera mortuaria, Flavio.

 

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   Flavio Bucci è stato anche protagonista della più straordinaria stagione umana che Trastevere abbia mai vissuto, che non è certo quella impersonata da Adriano Celentano nei panni di “Er più” o piuttosto di Gabriella Ferri che canta “Mazzabubù... Quante corna stanno quaggiù?”, no, semmai la Trastevere dove, in vicolo del Moro, abitava Gianmaria Volontè, il comunista Volontè, nella cui casa e brillava uno splendido Schifano dove i maoisti di “Servire il Popolo” innalzano le loro bandiere lungo le piazze di Paola in Calabria, la stessa Trastevere che ha conosciuto i passi di Pierre Clémenti e di Tina Aumont, e ancora un Helmut Berger che brandisce una sedia strappata i tavolini del bar “Di Marzio” in piazza Santa Maria in Trastevere, lo stesso bar dove dimorava Marco, il molosso di Valerio Zurlini, cui Rafael Alberti dedicò una poesia, che ancora adesso figura sul muro del locale. La Trastevere nella quale, nottetempo, ancora Rafael Alberti, poeta spagnolo comunista in esilio, proprio sulle spallette del Tevere, con vernice blu tracciava “Franco assassino” e “Burgos”.

bucci e la corrente andreottiana - scena il divo bucci e la corrente andreottiana - scena il divo

 

    Di queste ormai povere cose con Flavio Bucci abbiamo parlato, sarà stato all’incirca una ventina di anni fa, incontrandolo per caso al bar “della Pace”,  altro luogo paradigma di una Roma che non esiste più. Lo rivedo, Flavio Bucci, stravaccato su una sedia accanto agli stipiti dell’ingresso, gli sto seduto accanto, prendiamo a parlare di un’età dell’oro cittadina, quando ancora essere un attore mostrava un brillio umano rionale e perfino militante che andava ben oltre la miseria della fama e dei glamour odierni. Così scorrono nuovamente i nomi di Gianmaria Volontè, dei comunisti della capitale, delle feste de l’Unità, del “Folkstudio”…

 

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     Leggere che Flavio viva adesso in una casa famiglia, chiama amarezza per lui e ancora chiama amarezza per quel tempo che dove lo abbiamo visto eroe, perfino nei ruoli di servizio come il suo straordinario Don Bastiano, prete brigante eretico ribelle, nel "Marchese del Grillo", quelli fatti per campare, non più il Flavio-Ligabue, non più il suo profilo carenato in sella alla motocicletta che brucia i filari della Bassa, piuttosto il Flavio protagonista di un tempo eroico, di un tempo e di una città eroici, forse perfino con il suo cinema, e non si dica ipocritamente adesso che ognuno è responsabile del proprio male, del proprio abbandono, del proprio degrado, e non si faccia, pensando a Bucci, come quelli che quando consegnano una moneta all’accattone precisano, anzi, raccomandano al disgraziato un “… mi raccomando, non se li beva, eh”.

 

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    Come l’immenso George Best, Flavio racconta di avere speso tutto in donne, vodka e cocaina, come la carta dell’Appeso dei tarocchi, sembra di vederlo lì a testa in giù, l’oro e l’argento delle monete che gli cascano dalle tasche in nome della forza di gravità e del precipizio, della Caduta.

 

    Merita rispetto il destino che Flavio ha donato a se stesso, nonostante abbia scelto di precipitare, di affrontare rovinosamente la propria sconfitta, fosse anche per fragilità, o magari per semplice debolezza, o piuttosto perché questa vita, questa Roma, questo mondo della televisione, del cinema e del teatro, per come si è infine travisato nella sua infingardaggine, può perfino far schifo, se non ribrezzo. Ecco, forse in Flavio che dona il rigor mortis di Evangelisti al film di Sorrentino, nel suo volto terreo, nel circonflesso dei suoi occhi segnati dalle rughe, le cornee immerse martirio  dell’alcol, e della cirrosi sempre in agguato, c’è la più straordinaria metafora di un tempo finito per consegnarci all’ordinaria miseria del dopo.

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