Malcom Pagani per “il Fatto quotidiano”
Lo spazio è angusto, il fumo denso, il televisore storico: “È un Sinudyne del 1974 e funziona ancora benissimo, non l’hanno assemblato in Cina ma a Ozzano dell’Emilia” dice ricucendo la memoria Valentina Lodovini, figlia di un venditore di elettrodomestici e di una sarta, umbra per caso: “Sono nata a Umbertide perché a mia madre si ruppero le acque all’improvviso” e attrice che al cinema – “Non credo in Dio, ma credo in Al Pacino” – ama andare anche da sola: “Le chiamo triplette. Entro alle tre di pomeriggio ed esco dalla sala quando è notte”. In dieci anni, imparando battute per Sorrentino, Mazzacurati e Vicari, ha girato più di venticinque film.
Sorride spesso, strizza gli occhi, agita le mani. Parla un italiano che nella foga scivola nell’inflessione imbastardita della terra di mezzo: “Sansepolcro, il posto in cui sono cresciuta, è al confine tra quattro regioni” e aspetta con disincanto che di Gianni Di Gregorio, Marco Risi e Alessandro Genovesi proiettino sullo schermo il frutto di dodici mesi di viaggi, alberghi e teatri di posa: “Sono fortunata, lavoro in un momento in cui il lavoro non esiste e non voglio sembrare una stronza, ma aspetto ancora che qualcuno mi scelga veramente. Un mentore. Un ruolo che non sia d’appoggio, un rapporto virtuoso con il regista in cui si possa creare qualcosa che rimanga anche a distanza di tempo. In certe stagioni del nostro cinema non troppo lontane è accaduto”.
Rimpiange un periodo che non ha vissuto?
Mi piacerebbe se il mio ambiente si prendesse meno sul serio. Se la semplicità prevalesse sulla gelosia. Se ci si parlasse per scambiarsi qualche idea, non dico in via della Croce, quotidianamente, intorno al tavolo di Otello, ma almeno una volta tanto. Invece incontri gente che non ti dice neanche buongiorno e inizia con la litania.
Quale litania?
Il ‘Ciao, come sto?’. Sul serio, ti incontrano e ti investono: ‘Ho fatto una presentazione, c’era il tutto esaurito’. Un disco rotto: ‘Io, io, io’. Egocentrismo spinto.
Lei non è egocentrica?
Non faccio l’attrice per me stessa, non lotto per un primo piano e non mi impicco per una battuta in più. Mi garba, e parecchio, stare nascosta. A cena con i colleghi in genere non vado. Al Pigneto, al Bar Necci, non mi trova. E neanche a Trastevere, a Testaccio o in Piazza Vittorio. Vivo isolata, dall’altra parte della città, in trenta metri quadri. A Roma, se non ci fosse il mio lavoro, probabilmente non starei neanche. La conosco poco. La collego a una magia perduta. Ad Anna Magnani che parla con Fellini da un portone e gli rifiuta una battuta: ‘A Federi’, va a dormi’, nun me fido”.
E dove vivrebbe Valentina Lodovini?
In una dimensione meno delirante. Vengo dalla campagna. A Roma sono arrivata per studiare. Borsa di studio al Centro Sperimentale di Cinematografia, di fronte a Cinecittà 2, tutti i giorni dalle otto alle diciotto. Regia, suono, montaggio.
Compagni di corso come Alessandro Roja e Alba Rohrwacher.
Molta teoria. Uscita dal Centro mi resi conto di non avere niente in mano.
Niente?
Niente. Neanche uno straccio d’agente. Il primo provino me lo fece Rodolfo Di Giammarco, poi incontrai Paolo Sorrentino.
Lei recitò ne L’amico di famiglia, storia di usura, mistero e possesso nell’Agro Pontino.
Se Sorrentino non mi avesse scelta, dove sarei adesso non lo so. Ai tempi del Centro sognavo di lavorare con lui, con Eros Puglielli e con Carlo Mazzacurati. Sogno realizzato. Adesso me posso anche ritirà. (Ride)
Per La giusta distanza ricevette una candidatura al David di Donatello, vinto poi anni dopo con Benvenuti al Sud.
E come no. Per il film di Mazzacurati mi fanno ancora un mondo di complimenti. L’altro giorno, al Festival di Roma, un giornalista si è avvicinato tutto gentile per un’intervista: ‘Brava, lei mi era piaciuta veramente molto ne La giusta causa’. Ora dico, come attrice posso farti anche schifo e puoi legittimamente considerare spazzatura i film a cui ho partecipato, ma per informarsi sui titoli basta un clic su Wikipedia.
Cosa non c’è scritto su Wikipedia?
Un sacco di cose. Che ho un carattere alimentato dal conflitto e non ho filtri nel parlare, ad esempio, mi pare non sia scritto.
Litiga spesso?
Un’opinione me la chiedono raramente, ma se lo fanno, rispondo. Anche se magari, dall’attricetta con due neuroni che deve preoccuparsi solo di fondotinta e rossetti, l’incauto che domanda non si aspetta una reazione simile. Mi è capitato di esagerare anche sul lavoro. Quando quello che vedo non mi piace, non mi trattengo. A volte ho evocato la cialtroneria di Boris: ‘Stiamo sul set di Occhi del cuore, te ne rendi conto?’, altre sono andata dritta al punto: ‘Ma perché giri un film di serie B?’.
I registi la ameranno.
Non me ne pento, la sincerità è un investimento. Mi chiamano la pugilessa e qualcuno mi considera una rompicoglioni, ma principalmente per altre ragioni. Ho un coach per i dialetti, studio, mi preparo anche fisicamente. Nel cinema italiano l’attitudine è vista con sospetto e se per sbaglio chiedi di fare una lettura collettiva del copione, ti guardano come una matta.
Certi registi ti dicono: ‘Non c’è bisogno di prove. Vi voglio spontanei, naturali, veri’, ma io penso che l’unica naturalezza te la dia lo studio. Il grado più alto di improvvisazione lo raggiungi soltanto se dietro c’è un lavoro. I ballerini sono alla sbarra con sessioni infernali per mesi e mesi, ma quando finalmente salgono sul palco, seguono solo la musica.
Non c’è musica nel cinema italiano?
Dovremmo clonare gli Scarpelli, reinventare gli sceneggiatori, analizzare capolavori diversissimi come Zoolander o True Detective e procedere a un indispensabile ricambio generazionale. Con tutto il rispetto per professionisti che ci hanno donato anche qualche bel film, la scrittura del cinema italiano, anche in tv, non può essere affidata a otto persone.
Perché?
Perché hanno rotto il cazzo. Le storie sono conformiste e finiscono per somigliarsi tra loro. Sembrano fotocopiate, non c’è rischio, varietà né differenza di registro. Si guarda, per tornare a Boris e a Occhi del cuore, alla quantità e non alla qualità. L’importante è fare, accumulare. Il come è un dettaglio. Una fotografia spietata e divertita di una famiglia allo sbando come quella che balla tra padri ubriaconi ed espedienti in Shameless, la tv italiana è lontanissima non solo dal produrla, ma anche dal pensarla.
Film della vita?
Quel pomeriggio di un giorno da cani di Sidney Lumet, visto da bambina, avvertendo l’emozione forte dei riti iniziatici senza capire nulla della trama, né della storia d’amore che lega Sonny e Leon, due uomini lontani, costretti a parlarsi al telefono.
Gli uomini che incontra la ascoltano?
In generale no, porca maiala. Non siamo più abituati ad abituarci all’altro. Ci si sfiora, ci si perde. Poi magari la ferita, se è profonda, te la tieni dentro. E la custodisci in un posto tuo. Come Juliette Binoche in Film Blu. Fuori dall’acqua sembra invulnerabile, ma quando è sott’acqua, in piscina e finalmente non la vede nessuno, piange a dirotto. Un pianto vero. Una sofferenza che non somiglia a un clichè. All’iconografia della donna insicura, isterica, gelosa o distrutta dal dolore che al cinema è così di moda. Esistono anche donne che non piangono o che, al contrario, sanno soltanto far piangere.
Come affronta i dolori?
Parlando con le amiche e mangiando. Valerio Mastandrea mi chiama Capannelle, il caratterista de I soliti ignoti. A volte ti fai male perché stai male, altre soltanto perché il cibo è un piacere. Mangi, poi ti ripulisci con una dieta per quarantott’ore, poi mangi di nuovo. Io comunque cucino poco, preferisco rassettare. Certe operazioni sò catartiche. Fare le lavatrici, lavare i piatti, vedere il rosso del sugo che nel lavandino lascia spazio al bianco.
Normalità.
Ma io provengo da una famiglia normale. Ho molti nipoti, una sorella di quindici anni più grande, sono legata alla provincia, non sono ricca e con i soldi credo di avere un rapporto sereno. Li presto, li do, se serve lavoro anche gratis. Detesto l’avarizia in tutte le sue forme.
Si è spesa al fianco di colleghi illustri per la battaglia del Cinema America.
Vedere l’impegno disinteressato di ragazzi che erano felici di poter proiettare un film sulla parete di un palazzo mi ha coinvolta, ma non li ho appoggiati per ideologia. Il discorso del cinema America, sgomberato da un giorno all’altro nonostante i patti alla base fossero diversi, è complesso.
Ha a che fare con identità, cultura, libertà e presa di coscienza. Con la possibilità che intorno a un’istanza giusta si raccolgano persone che con l’arte vivono, disposte a dare una mano anche economicamente a un progetto comune. Non a caso avevamo chiesto che ce lo vendessero per farne uno spazio pubblico. Non è successo. Peccato.
Nello sbarco in prima pagina del Cinema America qualcuno ha scorto somiglianze con il caso del Teatro Valle. Gli esercenti dei cinema limitrofi hanno protestato. “Paghiamo” dicono per sintetizzare prosaicamente: “Se volete esistere fatelo anche voi”.
Vicino al cinema America, ci sono altre degne arene come l’Alcazar, che vivono acrobaticamente e diffondono tra mille difficoltà una programmazione coraggiosa. In un certo senso hanno ragione anche loro, ma qui non discutiamo dell’America o della fruizione di uno spettacolo a scopo di lucro.
Discutiamo di un sistema in crisi che sbatte le pellicole d’autore nei centri commerciali, replica commedie a getto continuo nella speranza di emulare Zalone e al contempo assiste inerme alla desertificazione delle sale. Le fortune dei film sono imprevedibili, ma il mercato è pigro. Io sogno che ci sia spazio per tutti i linguaggi e non pretendo che il cinema cambi il mondo. Chiedo solo la possibilità di vederlo nella sua diversità, per sceglierlo, conoscerlo o rifiutarlo. Se poi vogliamo parlare del Teatro Valle, parliamone.
Allora parliamone.
Dopo qualche lodevole intento iniziale, la situazione è degenerata e l’occupazione del Valle è diventata una cazzata. Una parata ipocrita, sciocca, stupida. Sul posto tanti ragazzini cretini a far festa e zero poesia. Mi auguro che la parabola dell’America non gli somigli. Sarebbe deludente. Smetterei immediatamente di appoggiarla.
Chi la conquista, Lodovini?
Le persone che credono in qualcosa, quelli come Daniele Vicari, il regista di Diaz, una persona seria, un’anima pura, incontaminata, un intellettuale che non se la tira e con cui lavorare è un incantesimo; o Abatantuono, attore bravissimo, signore antico, di una generosità pazzesca. Sull’interazione e non solo, Diego mi ha insegnato tanto. Come quelli che non ho conosciuto e non conoscerò mai. Germi e Zavattini. Ecco, Zavattini mi manca da strozzare, mi manca come fosse uno zio.
Eroi infantili un po’ meno stringenti?
fabrizio bentivolgio valentina lodovini e carlo mazzacurati
Fin da piccola, sognando di essere Danny Amatullo, ignoravo i cartoni animati per vedere Saranno Famosi. Con il negozio di mio padre, i televisori non ci sono mai mancati. E al cinema, fin da adolescente, trascinando mia madre in gita al Festival di Venezia, sapevo dove andare. L’altra malattia, una brutta malattia, è il calcio.
Cresciuta con il poster di Michel Platini in camera?
Sono stragobba, juventina persa, appena posso vado a Torino per vederla dal vivo. L’altra sera ero a Rieti per presentare Buoni a nulla, il film di Gianni Di Gregorio. La Juve giocava in Champions ad Atene. Dovevo vederla a tutti i costi.
A un certo punto mi sono allontanata con una scusa e ho assistito a questo tenerissimo ultimo minuto in cui 11 ragazzi in maglia blu provavano inutilmente a fare gol a quelli con la maglia bianca e rossa. Non è andata bene. Maledetti greci. Non sempre va bene. Sono nata il 14 maggio, il giorno in cui la Juventus perde uno scudetto già vinto a Perugia. Si immagini che compleanno.
Altre feste mancate?
passione sinistra ALESSANDRO PREZIOSI E VALENTINA LODOVINI
Mi è andata bene, non mi lamento. Ho sognato di recitare per Terrence Malick, ma non mi concentro sul rimpianto. Fu un’esperienza magnifica. Mi chiamò il mio agente: ‘Malick sta cercando un volto e finché non lo trova, non inizia a girare’. Non si sapeva neanche di cosa si trattasse esattamente, ma di fronte a Malick mi pareva secondario. Mi danno un testo da studiare e inizio a prepararmi.
Smetto di fumare, vado a dormire alle nove di sera, entro in clausura. Il giorno del primo provino, venti giorni dopo, affronto il suo capo casting. Mi invita a stare tranquilla, a esprimermi senza ansie: ‘Nulla di quel che stai mettendo in scena adesso avrà a che fare con quello che farai dopo’. Mi libero. Mi dimentico di tutto il resto e recito come se nulla fosse. Passo la prima selezione, comunque. E con il risultato in mano mi metto in testa di superare anche la seconda.
VALENTINA LODOVINI IN COSE DELL ALTRO MONDO
Al secondo incontro trova Malick?
Trovo il suo produttore. L’atmosfera è rarefatta. Devo sostenere una conversazione e poi improvvisare solo con lo sguardo. Muta. Proprio come nei film di Malick, in cui a raccontarti la storia è quasi sempre la voce narrante e gli attori parlano soprattutto con gli occhi. La terza parte del provino, quella in cui interpretavo un brano straniante, di altissima letteratura e in cui come nella vita mentre dico una cosa, ne avverto una di tutt’altro sapore, mi diede la sensazione rarissima di essere altrove.
Poi arrivò il terzo e ultimo provino. Quello con Malick. Al di là delle paure e delle emozioni da congelare, nel sentirmi chiedere: ‘Esci dalla stanza e guarda l’albero in giardino con disperazione’ sentii il lampo di un’appartenenza felice. Il sentimento di partecipare a un evento incredibile. A un tratto, temendo davvero di esser scelta dal maestro, mi augurai di sbagliare platealmente.
E cosa si disse?
Ma che davero, davero? E se poi vengo presa? Non se pò ffà, io sul set di Malick non posso portare neanche il caffè.
Le scaramanzie sono andate a buon fine.
Ma se le dico che è stato bellissimo comunque, ci crede?