"LA STRAORDINARIA DEMOCRAZIA DEL VIRUS: GLI ATLETI ORA SONO COME NOI" (MA LI RIVOGLIAMO DIVERSI) - SCONCERTI: "SIAMO DIVENTATI TUTTI UGUALI, SPETTATORI E ATLETI, VINCITORI E VINTI. OGGI SEMBRA UNO SPETTACOLO IRRESPONSABILE IL TRIPUDIO DI GENTE A LIVERPOOL PER LA PARTITA CON L’ATLETICO. DAL CHIUSO DELLE NOSTRE CASE QUEL GRANDE BALLO DI FELICITÀ SEMBRAVA QUASI L’ENERGIA DEL MALE…"

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Mario Sconcerti per corriere.it

 

 

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Adesso che siamo tutti a casa e abbiamo un po’ di tempo, diventa un paradosso ricordare le discussioni del calcio davanti al virus. Ancora una settimana fa si discuteva se dovevamo giocare a porte chiuse o aperte. Si parlava di atti di forza di Andrea Agnelli per avere il pubblico con l’Inter, le società si dividevano su tutto senza nemmeno capire che non spettava a loro parlare di salute pubblica. Oggi nessuno accetterebbe nemmeno l’idea di entrare in uno stadio pieno. Il cambiamento di coscienza è stato enorme. Non so se sia un progresso, certamente è un’evidenza.

 

Nelle tante parole dei giorni scorsi c’eravamo soprattutto dimenticati i giocatori. Siamo culturalmente abituati a non considerarli in questi contesti. È colpa dell’oscurità del tifo per cui un giocatore ha esistenza solo quando è dentro i colori della squadra. Infatti quando s’infortuna, anche gravemente, la prima cosa che viene detta non è quanto soffra o come stia davvero in un letto di ospedale, ma quante partite dovrà saltare.

 

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Quando tornerà a essere usabile. Il calciatore, il campione in genere, non ha una vita propria. È a nostra disposizione. La sua corsa è un gioco di ruoli che noi gli attribuiamo. È come a noi serve che sia. Buono, cattivo, leale o mercenario. Non avevamo pensato potesse avere come noi paura del contagio ogni volta che chiudeva la porta di uno spogliatoio. Quando si sentiva rincorso dalla squadra per aver deciso una partita. Ma era così. Già la settimana scorsa molti volevano fermarsi. Le società lo sapevano ma tiravano avanti. Chi

 

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cedeva per ultimo poteva avere più vantaggi al tavolo della politica. In due giorni il disagio di essere campioni è passato da un ritiro al mondo. Siamo diventati tutti uguali, spettatori e atleti, vincitori e vinti. Oggi sembra uno spettacolo irresponsabile il tripudio di gente a Liverpool per la partita con l’Atletico. Cinquantamila persone insieme, 3 mila in viaggio da una Spagna con l’identico problema italiano, solo fermo a 10 giorni fa. Dal chiuso delle nostre case quel grande ballo di felicità sembrava quasi l’energia del male. Qualcosa da commiserare prima che da rimpiangere. Abbiamo capito la straordinaria democrazia del virus.

 

 

Nelle grandi epidemie della storia i più colpiti sono sempre stati i meno abbienti, per problemi di alimentazione, di igiene, di necessità. Oggi sono colpiti tutti, dai politici agli artisti fino ad arrivare alla perfezione dei calciatori, giovani, sani, ricchi, curatissimi. La catena dell’impossibile è interrotta. Il virus è democratico, questa è la novità del tempo. E non conta lo sport che fai, se giochi a basket o scali una montagna in bici. Siamo tutti uguali, viviamo allo stesso modo. Credevamo che questa fosse un’utopia. Ma ora che ci siamo arrivati ci sentiamo tutti un po’ imbecilli. E non vediamo l’ora che torni la diversità. Quella del calcio e quella della vita.

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