DAGOGAMES BY FEDERICO ERCOLE - PAROLE, PAROLE, PAROLE. “DUSTBORN” È UN VIDEOGIOCO PROLISSO CHE FINISCE PER ANNICHILIRE UNA STORIA E I SUOI PERSONAGGI, CHE AVREBBERO POTUTO ESSERE GIUSTI E INTERESSANTI. SALVO ALCUNI MOMENTI DI MUSICA ROCK IN STILE GUITAR HERO, QUESTO VIDEOGIOCO/FUMETTO È INOLTRE ANCHE NOIOSO DA GIOCARE, NEGANDO OGNI POSSIBILE PASSIONE… - VIDEO

Federico Ercole per Dagospia

 

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È possibile che alcuni videogame sconfiggano chi li gioca. Talvolta è persino giusto, non si può sempre vincere. Mi è successo con l’infernale Ghouls ‘n Ghosts ad esempio, che richiede una concentrazione e un’abilità che non possedevo neanche da giovane o recentemente con Returnal, bellissimo ma dalla sfiancante ripetizione e difficoltà. Non dipende dal gioco ma da chi lo gioca, ognuno ha i suoi punti deboli. Ora è successo con Dustborn, opera nuova di Red Thread Games per PS5, XBox e PC distribuita da una Quantic Dreams che appare sempre più in crisi a causa delle gravi accuse che pendono su David Cage.

 

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Non sono quindi riuscito a completare Dustborn, mi ha battuto proprio poco prima del finale, quando la ritmica accelera (finalmente) ma comincia ad alimentarsi un pasticciaccio brutto. Dustborn mi ha sconfitto non perché si tratta di un videogioco ostico, affatto. Mi ha vinto per noia e per una sua a tratti sorprendente bruttezza.

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È un peccato, perché durante i primi passi nel suo alternativo mondo ucronico tormentato, ma così vicino al nostro, nella sua orribile ma più che possibile America piagata da una dittatura fascista e moralista, c’erano delle possibilità, la speranza di un’avventura profonda, persino della bellezza.

 

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Ma tutto crolla sotto la mole di parole tediose e artificiali, dialoghi così prolissi e per lo più inutili da essere spesso insostenibili nella loro deriva infinita, pronunciati da personaggi che avrebbero potuto essere assai interessanti nella loro non convenzionalità ma che nel corso della storia risultano smarrirsi nella gora del trito, tanto da farmi sorgere il dubbio che siano stati immaginati con le IA. Cara intelligenza artificiale, fammi dei personaggi con delle diversità che la critica più aperta e meno conservatrice possa apprezzare e piazzali in una storia dove possano combattere il sistema! Non è senza dubbio così… Tuttavia…

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COAST TO COAST DELLA LOGORREA

Controlliamo quattro reietti lungo un viaggio che li porta attraverso questi Stati Uniti dove John Fitzgerald Kennedy non è morto e che sono diventati un posto abominevole. Strano, Stephen King pensava che se questo fosse successo il mondo sarebbe stato invece migliore.

 

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Il quartetto è composto da Pax, una “artista della truffa alla disperata ricerca della libertà”; da Theo che è un “ingegnere informatico ben curato, un uomo misterioso o forse un cazzone”; da Noam, non-binaria “persona d’affari, collezionista di fumetti dal romanticismo inguaribile”; da Sai, “artista proletaria della gig economy”. Ognuno dei membri di questo quartetto tranne Theo possiede poteri mutanti che esercita tramite le parole: chi può alterare la forma del corpo, chi placare le forti emozioni, chi invece alimentarle. Il discorso sul potere delle parole è inizialmente interessante, poi diventa addirittura contraddittorio, paradossale.

 

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In ogni caso, a bordo di un furgone, dissimulati in una punk rock band, questa allegra combriccola dovrà percorrere in incognita miglia e miglia  per gli States affinché possa consegnare dei documenti rubati alla ribellione, ma non certo i piani della Morte Nera.

Il fatto della band è la cosa più interessante del gioco, perché consente di esibirsi in concerti che possono anche essere davvero coinvolgenti rimandando a “guitar hero”. Ci sono tanti altri mini-giochi, dimenticabili e accessori; e pensare che c’è chi ha criticato quelli di Final Fantasy VII Rebirth.

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Si combatte spesso con mazzate e poteri delle parola, e farebbe anche piacere visto la peculiare antipatia dei nemici, ma pure questa attività scade nel pedissequo e nel ripetivo e soprattutto non può essere evitata.

 

COME UN FUMETTO

Molto spesso, grazie alla sua estetica di fumetto alla moda, Dustborn è davvero gradevole da vedere e gratificante durante alcune fasi d’esplorazione proponendo ambientazioni suggestive che tuttavia risultano inerti, solo scenografiche e persino posticce, finte. Più che buona risulta la colonna sonora se la musica non fosse sempre subordinata alle parole, parole, parole tranne che durante i concerti. Per buona parte del gioco queste inestinguibili parole danno vita solo raramente a dialoghi interessanti le cui scelte multiple sembrano essere tuttavia inconsistenti e non determinanti.

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Può essere che la mia delusione, il rigetto per questo gioco, sia determinato dalla sconfitta, l’astio del soccombente, sebbene abbia amato molto Returnal anche se mi ha battuto. A qualcuno Dustborn è persino piaciuto assai anche se ci sono tanti critici che l’hanno dispregiato e non certo ottusi conservatori con l’antipatia per certe tematiche e per l’inclusione.

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Tuttavia vedo in Dustborn una clamorosa occasione perduta, astuzia più che passione nel parlare di argomenti importanti e nel raccontare personaggi originali e ribelli. Ma soprattutto, salvo quei momenti di rock, questo accrocchio numerico si fa giocare quasi sempre male e talvolta si rompe addirittura per glitch e bug, risultando sgradevole quando non dovrebbe, quando per per qualche istante sembra suscitare la  passione che avrebbe potuto, dovuto, alimentare.

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