COM'È MORTO ROBERTO CALVI? NON SI SAPRÀ MAI - MA SU UN FATTO CI SONO POCHI DUBBI: UNA PERIZIA DEL 2003 HA ESCLUSO L'IPOTESI DEL SUICIDIO - FU L'INTRECCIO POLITICO-AFFARISTICO-MAFIOSO IN CUI SI INFILÒ IL"BANCHIERE DI DIO" A DECRETARNE LA FINE.

Francesco La Licata per "La Stampa"


Il mistero della morte del «banchiere di Dio» difficilmente troverà spiegazione. Ed è, questa, quasi la sorte naturale destinata a tutte le storie del potere in Italia. Forse non si saprà mai com'è morto Roberto Calvi, il presidente del Banco Ambrosiano trovato appeso al ponte dei Frati Neri di Londra. Così come non s'è mai saputo se Michele Sindona, predecessore di Calvi nello ruolo sinistro di manovratore finanziario di fortune non sempre bene identificabili, si sia tolto la vita dentro il carcere di Voghera o se quel caffè «amaro» che lo ha ucciso gli sia stato inviato per chiudergli la bocca per sempre.

UN'INCHIESTA NATA MALE
Sono passati 25 anni da quella notte al Blackfriars Bridge, 18 giugno 1982. Certo, adesso la procura di Roma potrebbe scegliere di ricorrere in appello, e poi ci sarebbe pure la Cassazione e, chissà, la decisione di ripetere il processo. Insomma potrebbero trascorrere altri anni. Servirebbe? L'esperienza appena archiviata direbbe di no.

E' nata male l'inchiesta sulla terribile fine del «banchiere di Dio». Sin da subito si intuì che, come ogni affaire che si rispetti, la strada delle indagini sarebbe stata tutta in salita. Una frettolosa archiviazione delle autorità britanniche liquidava tutto col sigillo del suicidio. Si scoprirà in seguito che una diatriba burocratica sul luogo del ritrovamento del cadavere aveva assegnato la competenza investigativa alle «autorità locali», impedendo il più qualificato intervento di Scotland Yard. Ma qualche mese dopo, siamo nel 1983, l'intervento dell'Alta Corte chiuderà un'ennesima verifica con un «verdetto aperto»: potrebbe trattarsi sia di suicidio che di omicidio.

Si cambia scenario e l'inchiesta sbarca in Italia: indagano le procure di Palermo, Milano e Roma. Il valzer delle competenze finisce nella Capitale. E così nel 1995 si riaprono i fascicoli, anche perché hanno in precedenza fatto irruzione le rivelazioni dei pentiti Francesco Marino Mannoia e Tommaso Buscetta. Il quadro che i due ex boss propongono ai magistrati romani consegna un fitto intreccio politico-affaristico-mafioso, molto simile a quello che aveva visto protagonista l'altro banchiere, Michele Sindona. La tesi è che l'Ambrosiano sia stato un collettore di soldi della mafia e che il «contratto» per uccidere Calvi sia stato assegnato al boss Franco Di Carlo che, una volta divenuto collaboratore, negherà affermando che l'omicidio fu commissionato alla camorra.



Soldi da riciclare: un intrigo dove sarebbe stato coinvolto anche lo IOR di mons. Paul Casimir Marcinkus. Buscetta raccontò di aver saputo tutto dalla viva voce di don Tano Badalamenti, che andò a trovarlo in Brasile e, davanti alla copertina di un settimanale italiano che parlava del «suicidio» di Calvi, commentò: «Ma quale suicidio, questa è un'altra delle bravate di zio Pippo». Laddove zio Pippo stava per Giuseppe Calò, boss palermitano, capomandamento di Porta Nuova, «emigrato» a Roma per svolgere la delicata funzione di «cassiere» di Cosa nostra. Una sorta di «collega» dei veri banchieri, che avrebbe ordinato la morte di Calvi perché questi aveva mandato in fumo (anche attraverso ardue operazioni, quelle con lo IOR comprese) molti soldi della mafia.

LA PERIZIA
Della morsa che stritolerà Calvi, entreranno a far parte Flavio Carboni ed Ernesto Diotallevi (affarismo e banda della Magliana): gli attuali imputati assolti, insieme con Silvano Vittor accusato sostanzialmente di aver portato Calvi al macello in uno squallido albergo di Londra. Si dovrà, però, arrivare al 2003 perché l'indagine venga liberata dal «capestro» che la bloccava: la perizia sulle cause della morte di Calvi. L'incidente probatorio, sulla base di una ennesima perizia, esclude l'ipotesi del suicidio. Così parte il processo per l'omicidio e siamo ad ottobre del 2005.

Sembra preistoria la vicenda della borsa di Calvi «trovata» e offerta in TV ad Enzo Biagi. Carboni verrà sospettato di aver imbastito quella sceneggiata utile a far credere che il «banchiere di Dio» non aveva nessun documento importante. L'accusa era di ricettazione e si celebrò un processo a parte (assoluzioni), ma quando dal suicidio si arriva all'omicidio è ovvio che la storia cambia. E il processo si arricchisce di nuove testimonianze. La signora Teresa Ryan firma un verbale che mette in discussione l'alibi di Carboni (per i giorni «londinesi» di Calvi), mentre alcune consulenze tecniche trovavano tracce di 800 milioni di lire (finite al Banco Ambrosiano) provenienti dal sequestro Torielli.

Un'altra consulenza, attivata a conferma di una rivelazione fornita dal collaboratore Vincenzo Calcara, ricostruiva il percorso di altri 700 milioni pagati per il riscatto di Nicola Campisi, sequestrato in Sicilia. Tracce che, secondo il pm Luca Tescaroli, proverebbero l'esistenza di qualche operazione disinvolta dell'Ambrosiano. E poi la dichiarazione della vedova, Clara Calvi, che nel 1994 accusa Carboni di aver proposto uno «scambio»: una testimonianza utile per la tesi che a Londra il banchiere era stato ucciso, in cambio di una «liberatoria» della vedova sul presunto coinvolgimento di Carboni negli «affari cattivi» con l'Ambrosiano. Tutti indizi che non sono bastati per convincere la giuria.


Dagospia 07 Giugno 2007