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L’EUROPA AFFOGA NELL’IA… DI CARTE BOLLATE – IL FUTURO NON PASSA DA BRUXELLES: LE STARTUP EUROPEE BRUCIANO IL 40% DEI LORO BUDGET IN ATTIVITÀ BUROCRATICHE E DUE TERZI NON CAPISCE COSA PREVEDE L’AI ACT, LA LEGGE EUROPEA SULL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE – INVECE DI INVESTIRE IN RICERCA E ASSUMERE TALENTI, LE IMPRESE TECH EUROPEE IMPIEGANO LE LORO RISORSE PER COMPILARE MODULI E PAGARE CONSULENTI LEGALI - LA CONSEGUENZA? I MIGLIORI IMPRENDITORI VANNO NEGLI STATI UNITI, DOVE LA VELOCITÀ DI ESECUZIONE E IL FLUSSO DI CAPITALI RENDONO POSSIBILE FARE IMPRESA IN TEMPI RAPIDI…

Tratto da “Wall Street Journal”

 

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Scrive il Wall Street Journal molto chiaramente in un lungo pezzo pubblicato oggi: "L’industria tecnologica è enorme, ma la quota dell’Europa è molto piccola": L'Europa rischia infatti di restare irrimediabilmente esclusa dalla nuova rivoluzione tecnologica. Mentre Stati Uniti e Cina si sfidano a colpi di investimenti miliardari in intelligenza artificiale, semiconduttori e innovazione, l’Unione Europea continua a impantanarsi nella sua burocrazia elefantiaca, in una cultura del rischio sterilizzata e in un’ossessione normativa che scoraggia chiunque voglia costruire un’impresa globale.

 

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La fotografia è impietosa. Apple da sola vale più di tutto il mercato azionario tedesco. Solo 4 aziende europee figurano tra le prime 50 tech del mondo. In settori strategici come il quantum computing o i modelli di IA generativa, le imprese europee sono semplicemente assenti. Eppure il continente rappresenta il 21% dell’economia globale e ha livelli d’istruzione simili a quelli americani.

 

Ma i numeri raccontano solo una parte del problema. Il Wall Street Journal riporta una serie di cause profonde, strutturali e culturali. Le startup europee spendono il 40% dei loro budget IT in attività di compliance normativa, secondo un sondaggio di Amazon. Ancora più preoccupante: due terzi delle imprese non capiscono cosa prevede l’AI Act, la legge europea sull’intelligenza artificiale entrata in vigore nell’estate 2024. Invece di investire in ricerca, assumere talenti o crescere, le imprese tech europee impiegano le loro risorse per compilare moduli e pagare consulenti legali.

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La conseguenza? I migliori imprenditori e ricercatori vanno negli Stati Uniti, dove la velocità di esecuzione e il flusso di capitali rendono possibile fare impresa in tempi rapidi. Chi resta in Europa, spesso si scontra con vincoli che rendono impossibile scalare.

 

Un esempio emblematico è Thomas Odenwald, tedesco con trent’anni di esperienza in California, tornato in patria per aiutare la startup Aleph Alpha a sfidare OpenAI. Dopo due mesi ha fatto le valigie: zero stock option, competenze deboli e una lentezza insostenibile.

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Mario Draghi, incaricato dall’UE di analizzare le cause della stagnazione, ha messo nero su bianco nel suo report: l’assenza di un ecosistema tecnologico competitivo è una delle principali zavorre per l’economia europea. L’UE continua a creare norme, ma non imprese.

 

Nel frattempo, le startup più promettenti vengono acquisite da colossi americani o si spostano fisicamente negli USA. DeepMind (UK) è finita a Google. Mistral AI (Francia), pur avendo raccolto oltre un miliardo di dollari, si affida a Microsoft, Amazon e Google per distribuire i suoi modelli. Bird (Olanda) ha annunciato il trasferimento fuori dall’Europa per sfuggire alle restrizioni del regolamento IA. Deliveroo (UK) è stata venduta a DoorDash per 3,9 miliardi di dollari.

 

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Il problema non è solo normativo. È culturale. In Europa, il fallimento è uno stigma, l’ambizione è malvista, e la qualità della vita – pur eccellente – riduce l’urgenza del successo. A Londra, racconta un investitore americano, i pub si riempiono alle due del pomeriggio di giovedì. Gli imprenditori europei promettono di costruire aziende da “50 o 100 milioni di dollari”, mentre a Silicon Valley non si accende nemmeno una call sotto il miliardo.

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Gli strumenti finanziari, poi, sono inadatti. Il capitale di rischio è scarso, e quando arriva è spesso vincolato da condizioni penalizzanti. In Europa, le opzioni azionarie sono tassate come reddito prima ancora che si concretizzino, scoraggiando l’incentivazione dei talenti. I fondi pensione pubblici sono cauti, le banche pretendono garanzie fisiche, e i grandi capitali privati dinamici (endowment, fondi universitari, family office tech) praticamente non esistono.

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Infine, c’è la frammentazione del mercato. Dove gli Stati Uniti offrono un’unica grande arena integrata, l’Europa è un mosaico di lingue, normative, sistemi fiscali e leggi sul lavoro che rallentano ogni processo: servono mesi per licenziare, i contratti di non concorrenza durano sei mesi, le barriere amministrative cambiano da Paese a Paese.

 

La morale del WSJ è chiara: l’Europa non sta perdendo solo una sfida economica, ma una battaglia esistenziale. Mentre gli USA costruiscono il futuro e la Cina lo finanzia, l’UE si perde tra AI Act, plastiche monouso e dichiarazioni d’intenti. E se non cambia rotta subito, l’unico ruolo che le resterà sarà quello del regolatore... degli altri.

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