‘STA BANCA E’ UNA ROTTURA DI GHIZZONI - FACILE FARE IL BANCHIERE: MR. UNICREDIT CHIEDE “COGARANZIE” STATALI PER RIAPRIRE I RUBINETTI (COSI’ SIAMO CAPACI TUTTI)

Colloquio con Federico Ghizzoni di Orazio Carabini per L'Espresso

Mezzo italiano e mezzo tedesco. Almeno come banchiere. Piacentino, 58 anni, Federico Ghizzoni è amministratore delegato di Unicredit, una delle banche più internazionalizzate dell'area euro. In questa intervista a "l'Espresso" dice la sua sui rapporti tra Italia e Germania, sui nuovi passi verso l'unione bancaria e sui problemi creati dalla stretta creditizia.

Il gruppo Unicredit produce il 40 per cento dei suoi ricavi in Italia, il 31 fra Germania e Austria, l'8 in Polonia. Quando nei vertici dell'Unione europea si confrontano la linea del rigore della cancelliera tedesca Angela Merkel, con le sue truppe dei paesi del Nord, e quella della ripresa della crescita, imperniata sui governi di Francia, Italia e Spagna, lei si mette la casacca da nordista o quella da sudista?
«Preferirei non metterne, di casacche, e avere un'Europa che la pensa allo stesso modo. Negli ultimi mesi tutti hanno capito che senza crescita non si va da nessuna parte e che il rigore da solo non è sufficiente a darci un futuro di prosperità. Oggi di crescita si parla molto anche nel Nord, non solo nel Sud. È anche vero che la politica del rigore qualche effetto importante l'ha prodotto: molti squilibri che rischiavano di essere destabilizzanti si sono ridotti».

Ma l'Unione europea continua a trasmettere un'impressione di impotenza, di titubanza, di scarsa coesione e solidarietà.
«Non c'è dubbio che dopo la crisi l'Unione europea è più debole, politicamente ed economicamente. Il 55 per cento della crescita mondiale da qui al 2018 verrà dai paesi emergenti, soprattutto Cina e India. Non c'è neanche un paese Ue tra i primi dieci di questa speciale classifica. La loro quota sulle esportazioni mondiali raddoppia mentre quella Ue scende dal 15 al 10 per cento. Nella classifica di Fortune delle 500 imprese più grandi quelle dei paesi emergenti sono passate da 40 nel 2005 a 150 circa nel 2012.

L'Europa può recuperare solo se usa bene le tre leve di cui dispone: la popolazione, il Pil e il capitale umano. Ma sommando quelli dei singoli paesi in modo che costituiscano davvero un'entità unica. Andando avanti così, in modo disaggregato, conteremo sempre meno».

L'Europa fa progressi lentissimi tra scadenze elettorali ravvicinate, egoismi nazionali, diffusione dei movimenti antieuropei, anche in Germania.
«Noi siamo paladini di un'Europa integrata politicamente. Ci stiamo avvicinando a questo obiettivo? Non lo so. Certo è che le decisioni dell'ultimo vertice a proposito di unione bancaria sono davvero importanti. Le banche soffrono per la frammentazione del sistema europeo dove la libera circolazione dei capitali e della liquidità esiste sulla carta ma non nei fatti. Presso la Banca centrale europea si è accumulato qualche miliardo di liquidità che deve essere rimesso in circolo».

Pensa che basti?
«Dico solo che il vento è cambiato. Chi avrebbe creduto, solo qualche mese fa, che entro poco tempo ci sarebbe stato un supervisore unico del sistema bancario? Sarà anche lenta, ma l'Europa avanza, c'è una presa di coscienza che senza integrazione si va indietro. E il dibattito europeo è tornato al centro. Quanto al sentimento antieuropeo solo in Gran Bretagna ha una dimensione che può preoccupare. La Germania, invece, per ideale o per interesse, è europeista. Quello che manca è la capacità di generare emozioni quando si parla di Europa: è a questo che serve una leadership politica carismatica».

L'euro oggi è una valuta forte o debole?
«È forte, tant'è vero che sono in molti a considerarla sopravvalutata, e quindi un peso per la capacità di esportazione delle imprese Ue. Certo è che nessuno, in giro per il mondo, oggi ci domanda più del futuro dell'euro, se reggerà o si dissolverà. Negli ultimi 18 mesi la percezione della Bce è cambiata: oggi è più temuta e rispettata di ieri anche se ci sono ancora distanze da colmare rispetto al modello della Federal reserve americana. Fatto sta che non c'è più speculazione contro l'euro. Ciò non toglie che il processo di integrazione va portato avanti, altrimenti potrebbe arrivare un'altra crisi».

In Europa le banche sono un problema o il problema?
«Intanto diciamo che sono una risorsa, uno strumento indispensabile perché l'economia possa funzionare. Ma devono essere messe in condizione di operare su un mercato davvero integrato. Un gruppo come Unicredit ha 31 regolatori che lo sorvegliano solo in Europa, con regole non omogenee e talvolta in contrasto tra di loro. Mi aspetto molto dalla Bce, che si sta dotando di una struttura adeguata, come supervisore unico, in particolare sotto il profilo della semplificazione delle regole. Premesso questo, le banche devono essere più proattive nell'attività di credito, soprattutto verso le piccole e medie imprese. Oggi lo possono fare perché i problemi di capitalizzazione e di liquidità sono sostanzialmente risolti».

Proprio quello che non stanno facendo, almeno a giudicare dalle lamentele degli imprenditori e dalle analisi della Banca d'Italia: il credit crunch aggrava la recessione e ritarda la ripresa.
«Facciamo un po' di chiarezza. Dal 2011 è innegabile che ci sono state difficoltà oggettive per le banche. Prima l'adeguamento del capitale per rispettare i criteri fissati a Basilea, poi la crisi del debito sovrano hanno costretto tutti a ridurre l'erogazione del credito. Ma non solo in Italia. Anche nella felice Germania è successo: dal 2010 al marzo 2013 i prestiti sono aumentati solo del 2 per cento, meno che in Italia, e negli ultimi tre trimestri sono calati dello 0,5 per cento. Con tutto che là le imprese sono in media più robuste, come patrimonio e come liquidità. Chiedono poco credito e solo quando le prospettive dell'economia e della politica sono chiare».

In Italia invece?
«Unicredit ha selezionato un target di 12 mila imprese clienti, tutte di buona qualità. All'inizio di gennaio abbiamo messo a loro disposizione nuove linee di credito aggiuntive per un totale di 4 miliardi. Le abbiamo contattate una per una dicendo: tirate quello che vi serve. Soltanto dopo che il governo Letta si è insediato hanno cominciato a utilizzarle: 1,6-1,7 miliardi nell'ultimo mese e mezzo, prima solo un centinaio di milioni. Hanno accettato la nostra proposta solo quando la politica ha dato segni di stabilizzazione. E si tratta per lo più di imprese esportatrici».

E tutte le altre?
«Chi ha problemi non chiede nuovo credito, ma rifinanziamenti o ristrutturazioni. Purtroppo il livello di rischiosità non è mai stato così alto nel Dopoguerra. Nel 2008 i crediti difficili erano 80 miliardi circa, adesso sono 220, l'11-12 per cento degli impieghi. E su 10 euro di crediti concessi, 8 vengono finanziati dai depositi delle famiglie. Per cui dobbiamo stare molto attenti ed essere selettivi se non vogliamo creare un problema all'intero sistema paese».

C'è un modo per far affluire credito alle imprese anche in una fase come questa in cui la congiuntura negativa aumenta inevitabilmente la rischiosità?
«Noi un'idea ce l'abbiamo: l'aumento delle cogaranzie».

Ahi ahi ahi, si sente odore di soldi pubblici.
«Anche, ma non solo. Diciamo che la situazione ottimale è questa: se un'impresa ha bisogno di 100 euro, 30 ce li mette dal suo capitale e 70 li prende a prestito dalla banca. Di questi 70, 35 sono rischio puro della banca e 35 sono coperti da garanzie o cogaranzie. Dei confidi, cioè di consorzi che mettono in comune beni da utilizzare a questo scopo, o del Fondo centrale di garanzia, quindi dello Stato. E non meravigliamoci troppo. Nell'apprezzata Germania queste cogaranzie esistono e vengono utilizzate in misura molto più rilevante che in Italia a sostegno dell'economia reale. Non solo. Vengono contabilizzate solo se e quando vengono escusse.

A noi sembra un modo efficiente per superare questa fase. Unicredit oggi vuole fare più credito perché questo è il nostro lavoro e abbiamo i mezzi necessari. Ma il credito deve essere selettivo per non tornare ad avere problemi di capitale, per non diminuire la redditività e per garantire i depositi che le famiglie ci affidano. Con il sistema di garanzie che ho descritto - basterebbero dai 50 ai 70 miliardi a livello di sistema - la selezione potrebbe essere meno aggressiva».

La Confindustria attribuisce al credit crunch gran parte della difficoltà a uscire dalla recessione.
«Anche le imprese potrebbero fare di più. Ho i dati della nostra clientela: tra il 2010 e il 2013 il capitale di rischio è diminuito del 12 per cento, assai più di quanto sia diminuito il credito nello stesso periodo, cioè il 2 per cento. In Germania il capitale di rischio è aumentato del 4,3 per cento a fronte di un 2 per cento di aumento del credito. Spesso poi si dimentica che sulla erogazione dei prestiti in Italia giocano in negativo anche la disciplina della deducibilità fiscale delle perdite sui crediti, il regime delle procedure concorsuali da correggere - il cosiddetto concordato in bianco - e i tempi di recupero dei crediti, quasi doppi rispetto al Nord Europa».

Però quando chiamano i grandi gruppi tutte le banche accorrono scodinzolanti. Vedi i casi Fiat, Pirelli, Rcs.
«In parte può essere vero, ma per quanto ci riguarda solo a condizioni di mercato. Per Unicredit il credito ai grandi gruppi è diminuito più della media. E sa perché? Perché li abbiamo aiutati a sostituirlo con altri fondi: non è un caso se siamo diventati il numero due in Europa sui corporate bond: 66 miliardi nel 2012 di cui 15 in Italia. Adesso stiamo provando con le imprese meno grandi anche se non è facile. Vogliamo contribuire a risolvere questa anomalia italiana per cui l'85 per cento del fabbisogno finanziario delle imprese lo forniscono le banche».

Dopo gli annunci delle Generali e di Mediobanca, che usciranno da importanti patti di sindacato, è finita l'era del salotto buono della finanza?
«I salotti buoni sono superati dai tempi. Bisogna finanziare gli imprenditori che hanno coraggio.All'Italia servono più aziende grandi. Perché se sono poche si formano i salotti, se sono tante non ce n'è bisogno».

Quindi anche i patti di sindacato spariranno?
«Ho lavorato in molti paesi e ho visto che i patti di sindacato ci sono dappertutto. Ma hanno senso solo se si aggregano intorno a un azionista di riferimento che investe del suo nell'impresa e che ha un progetto. Sul mercato globale vanno bene le imprese che hanno un azionista importante e un business model vincente. Sempre per fare un confronto con la Germania, anche là la maggioranza delle aziende è a controllo familiare, ma con dimensioni molto più importanti e con una maggiore propensione a delegare poteri al management».

Intanto vi tenete ben stretta la liquidità fornita dalla Bce con la Ltro. Eppure i depositi hanno ripreso a crescere a un ritmo inatteso, quindi la liquidità non dovrebbe mancarvi.
«Inizieremo i rimborsi alla Bce a breve, non ce la porteremo tutta fino alla scadenza dei termini nel 2014».

Sorpreso dalla ripresa dei depositi?
«In effetti non pensavo che gli italiani cambiassero il loro comportamento così rapidamente. Nel 2009, per far fronte alla caduta del reddito disponibile, hanno preferito erodere il patrimonio e mantenere per quanto possibile inalterato il proprio tenore di vita. E questo spiega il calo del risparmio e la relativamente rapida ripresa dei consumi. Nel 2012 invece hanno voluto proteggere il patrimonio riducendo i consumi e aumentando il risparmio. Che spiega anche il recupero del risparmio gestito. Che dire? Da un lato è positivo che gli italiani confermino la loro natura di grandi risparmiatori, dall'altro il calo dei consumi non aiuta la ripresa».

L'Unicredit e in generale le banche italiane non sono in ritardo nella revisione dei processi, nella ristrutturazione della rete, insomma negli investimenti per l'efficienza?
«Noi stiamo investendo dai 500 ai 600 milioni di euro l'anno in information technology e per migliorare il nostro modello di servizio alla clientela. Abbiamo anche avviato un piano di profonda revisione delle filiali: all'inizio del 2011 il 90 per cento era di tipo tradizionale ma dal 2015 scenderanno al 25 per cento, le altre saranno più snelle, con o senza cassa, magari con servizi remoti.

La grande differenza rispetto al passato sarà la fine della segmentazione spinta della clientela e della conseguente rigidità dell'offerta di prodotti: i servizi saranno più personalizzati malgrado le nuove tecnologie facciano pensare a servizi e prodotti più standardizzati. Come sempre, i sindacati sono stati e saranno coinvolti. E credo che collaboreranno. Il mondo va di corsa in questa direzione e non possiamo farci cogliere impreparati».

 

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