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L'APPETITO DELLA RABBIA VIEN SFASCIANDO – VIAGGIO NELLA “STANZA DELLA RABBIA" MADE IN ITALY: SI CHIAMA “ANGER GAMES” E SI TROVA IN PROVINCIA DI VARESE – LE PERSONE ENTRANO, FANNO A PEZZI TUTTO QUELLO CHE TROVANO E POI PAGANO PER LA LORO ESPERIENZA – “IL 75 PER CENTO DELLA CLIENTELA È DI SESSO FEMMINILE” (VIDEO)

 

Luca Giampieri per "La Verità"

 

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L' appetito della rabbia vien sfasciando. Potrebbe essere un valido slogan pubblicitario per il team di Anger games.

 

Cinque ragazzi lombardi, ognuno con una propria carriera professionale avviata: Stefano Rosina, 37 anni, assicuratore; Simone Badolato, 36, commercialista; Alessandro Marchetti, 37, bancario; Aldo Pecora, 33, impresario edile; Daniele Rosina, 42, fisioterapista. Due anni fa, durante un viaggio nell' Europa dell' Est, Alessandro si ritrova chiuso in una stanza in Serbia.

 

A portarlo nella penisola balcanica è la curiosità di sperimentare la rage room, una camera dove vige una legge antitetica a quella del mondo circostante: al suo interno, distruggere tutto è concesso. Di più: è doveroso, visto che per distendere i nervi bisogna prima passare alla cassa. Le tariffe, dai 30 agli 85 euro, variano in base ai pacchetti selezionati: basic, premium, deluxe.

 

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«Poi ci sono gli upgrade, con la scelta delle integrazioni in catalogo», spiega Stefano, di turno nella sede di Legnano (Varese). «Siamo aperti venerdì, sabato e domenica. Ad aprile, faremo un anno dall' inaugurazione».

 

La rage room lombarda è stata la prima ad aprire i battenti in Italia, dopo il tentativo di un imprenditore forlivese fallito nel 2015. «Un rischio d' impresa che non è andato a buon fine», osserva Rosina, «Lì veniva arredata completamente una stanza, quindi la clientela doveva essere necessariamente limitata. Con ciò che ne consegue per il rapporto tra costi ed entrate. Dopo pochi mesi ha chiuso».

 

Diverso è il caso di Anger games, dove l' andirivieni di consumatori è incessante. «Con una media di una sessione ogni 30 minuti, arriviamo a circa 16 al giorno. Grossomodo, vediamo 150 persone a settimana».

 

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Situato in una via privata, il locale si fa notare prima ancora di averlo individuato: a guidare i clienti come un pifferaio magico è la musica rock a tutto volume scandita dai colpi sordi di un' arma contundente. Una volta all' interno, Stefano mi accoglie mentre allunga due bottigliette d' acqua a una coppia di pallavolisti che ha appena lasciato dietro di sé un cumulo di rovine: vetri rotti, lamiere ammaccate, teste di plastica segnate dagli urti. Su richiesta, racconta, è possibile portare da casa un numero concordato di oggetti personali utili a far detonare la collera.

 

«Devono essere di piccole o medie dimensioni, altrimenti con lo smaltimento dei rifiuti non staremmo nei costi», precisa l' assicuratore prestato alla causa degli iracondi. «Delle ragazze hanno chiesto che nella stanza ci fossero soltanto specchi, per sfatare la leggenda dei sette anni di sfiga. Sono uscite che ne avevano maturati almeno 700.

 

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Altri ci mandano le foto del capoufficio, o della suocera, e noi gli facciamo trovare nella stanza un cartonato. Oppure appiccichiamo l' immagine del volto a un manichino».

Dopo 15 minuti, tempo massimo a disposizione per scrollarsi di dosso le nevrosi della settimana, i due pallavolisti, un maschio e una femmina, grondano di sudore. «Non posso distruggere le cose per strada», osserva trafelato Emanuele, ventiquattrenne programmatore, quasi a giustificarsi di avere percorso 40 chilometri per mandare in frantumi qualche bottiglia di birra.

 

«Mentre spaccavo tutto, pensavo a un sacco di qualcosa e di qualcuno. Sai, tutte le persone che non puoi picchiare», aggiunge ritirando una chiavetta Usb contenente la registrazione video della performance. «Ora sto decisamente meglio rispetto a mezz' ora fa. Può capitare la partita di pallavolo in cui non succede nulla; qui no, ti sfoghi per forza». Conferma con un cenno del capo la sua compagna di squadra, Ambra, 28 anni, che si definisce «una persona tranquillissima, quanto di più lontano ci sia dalla violenza».

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Eppure sono proprio le donne a decretare il successo della camera della rabbia. «Il 75 per cento della clientela è di sesso femminile», rivela Stefano, ancora incapace di spiegarsi un numero così schiacciante.

Ci prova: «Forse, rispetto ai maschi, hanno più difficoltà a sfogarsi e qui trovano un modo per poterlo fare in totale libertà». Le peggiori? «Due bresciane. Hanno passato un quarto d' ora a bestemmiare in dialetto».

 

Dati alla mano, i più irrequieti hanno un' età compresa tra i 25 e i 50 anni. «Ci è capitato un signore che ne aveva 70, non esiste un tetto massimo.

Al contrario, bisogna essere maggiorenni per prenotare una sessione. Altrimenti, dai 16 ai 18 anni puoi venire accompagnato da un genitore».

 

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Il celeberrimo "logorio della vita moderna" coniato da Ernesto Calindri negli anni Settanta non risparmia alcuna categoria sociale. L' impazzimento quotidiano è democratico, trasversale. Casalinghe, ingegneri, operai, manager: tutti varcano la soglia della rage room bardati come novelli Fantozzi alla riscossa, gladiatori della contemporaneità, non prima di avere ricevuto in dotazione scarponi antinfortunistici, parastinchi, giubbetto rinforzato, guanti e casco integrale da motocross con maschera annessa.

 

Se ne vedono di tutti i colori sul monitor allestito nell' ingresso di Anger games. Un ex parà della Folgore, accompagnato dalla figlia, si accanisce ossessivamente su una sedia di legno: «Pare che, dall' apertura di un' attività commerciale, non passi giorno senza litigare coi colleghi». Un neolaureato della provincia pavese frustrato da dieci anni di università, non contento del piede di porco fornito dalla casa, prende a rompere tutto ciò che gli capita a tiro servendosi soltanto delle mani. C' è chi esce dalla stanza con qualche sbucciatura (a fargliela notare, di solito, è l' amico o il parente rimasto fuori ad attenderlo), ma sorride.

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Contuso e felice. E poi c' è chi cova un malumore così profondo da non riuscire nemmeno a scaricarlo: «Ci è capitata una ragazza che, appena entrata, si è seduta per terra e ha iniziato a singhiozzare. Non ha rotto nulla», ricorda Stefano. «A questo proposito, stiamo già collaborando con alcuni psicologi che portano qui i loro pazienti: persone con difficoltà nella gestione della rabbia, coniugi separati, donne con depressione post partum». Lo scenario è tale che i cinque soci, ormai, quasi non ci fanno più caso. Sono assuefatti. «I primi tempi, anche per una questione di prova, usavamo la stanza anche noi. Ora è raro. Le nostre mogli e compagne, però, hanno un abbonamento tipo 1000 miglia Alitalia. Tutte le settimane sono qui».

 

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Oltre a sessioni singole e in coppia, la rage room di Legnano è teatro di compleanni, addii al celibato e al nubilato (dove la goliardia nella scelta degli oggetti lascia poco spazio all' immaginazione), team building aziendali. «Vengono da tutta Italia e anche dall' estero: Spagna, Germania, Francia, Inghilterra, Svizzera.

 

In Europa, siamo al massimo una dozzina a offrire questo tipo di servizio. Pensi che ci hanno chiesto una consulenza dagli Stati Uniti». È l' America il paese di maggior diffusione, ma la prima camera della rabbia nasce in Giappone nel 2008, all' interno delle aziende, con lo scopo di alleggerire il carico di stress dei dipendenti. «Lì il concept è molto diverso da quelli sorti in Occidente: ambienti bianchi asettici, qualche ceramica da spaccare».

 

Nell' orizzonte di Anger games stanno prendendo forma l' idea di un franchising: «Abbiamo ricevuto un centinaio di proposte attualmente al vaglio, dall' Italia e dall' estero».

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In corso una trattativa con City life shopping district, centro commerciale sorto nel quartiere milanese del Portello, ex zona Fiera campionaria, per allestire dei temporary store. «Se il progetto dovesse andare in porto, aumenterebbe in maniera esponenziale il nostro fatturato, che, al momento, vede un ricarico del 400 per cento».

 

A interrompere Stefano nell' esposizione di questo business plan della rabbia, squilla il citofono. Sulla soglia, compare una giovane coppia seguita da una bambina di circa 6 o 7 anni. «È il suo regalo di Natale in ritardo», afferma la donna indicando il marito.

«Voleva spaccare tutto, senza limiti». Mentre il papà, impiegato magazziniere in una ditta farmaceutica, mette in scena il rito della vestizione («Come sei bello così», commenta la piccola), mamma e figlia prendono posto su una fila di sedie da sala d' attesa dentistica sistemate di fronte al monitor.

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Comincia la sessione ed esplode una furia dirompente, inaspettata: l' uomo si accanisce su un computer portatile con veemenza, un' immagine in netto contrasto col ritratto del padre di famiglia mite e premuroso visto un attimo prima. «Caspita, aveva un po' di arretrati», osserva divertita la moglie, che dopo un attimo di riflessione torna improvvisamente seria: «Credo di sapere da dove viene questa cattiveria: sta pensando al padre che è mancato un anno e mezzo fa.

 

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Se n' è andato senza preavviso nel giro di pochi mesi per un' infezione seguita a un fuoco di Sant' Antonio». Parla quasi in uno stato di ipnosi, il tono costante, gli occhi fissi incollati allo schermo. «Non l' ho mai visto così, e lo conosco da 20 anni».

Suona la sirena, la musica si interrompe e il marito apre la porta in un bagno di sudore per tornare nel mondo reale.

 

Come se avesse consapevolezza dello spettacolo offerto, si scagiona accennando un sorriso timido: «Avevo una settimana di lavoro da sfogare».

Non sa che il segreto della sua rabbia è già stato svelato.

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