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OMICIDI, DROGA, STUPRI, CONTATTI CON LA MAFIA: BENVENUTI NEL MONDO DELLE GANG LATINE CHE SI SONO PRESE MILANO - MARA SALVATRUCHA E BARRIO 18 HANNO IMPORTATO I RITUALI DI VIOLENZA SPIETATA CHE REGOLANO LA VITA NEL SALVADOR

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Lirio Abbate per www.lespresso.it

 

Il “palabrero”, il capo della banda, ha 31 anni e si fa chiamare Gato. Il suo vice, il “secondero”, è Perro, ed è più vecchio, ne ha 37. Poi ci sono giovani ventenni “guerrieri” come Honter, Quijada o Taini, Joker, Chiky, Sparky, Killer, Chamarro, Jailer, Electrico e Salco. È la “clica” milanese di “Barrio 18”, la banda di strada salvadoregna, strutturata come un’organizzazione criminale, che negli ultimi anni si è appropriata di una fetta del territorio di Milano, tra piazza Costantini e via Sammartini, passando per il “bronx” di via Padova.

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Sono armati di pistole, coltelli e machete, e la violenza è l’insegna di ogni loro azione criminale. Per autofinanziarsi mettono a segno rapine e spacciano droga. E sono sempre in contatto con i criminali del loro paese d’origine, El Salvador. Fanno parte delle bande di strada latinoamericane, dette anche “pandillas”, presenti nel Centro America, e in vari Paesi del mondo e da qualche anno pure a Milano. Lo scorso giugno due di questi latinos sono stati fermati dalla polizia perché accusati di aver aggredito con un machete un capotreno e a un suo collega sul passante ferroviario.

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La banda “Barrio 18” è contrapposta ad un’altra, sempre salvadoregna, chiamata “Mara Salvatrucha” o “MS13”. Le due gang hanno preso il nome da due strade di Los Angeles, la tredicesima e la diciottesima, dove sono nate, in anni di fuga negli States dalla guerra civile del Salvador. In California i ragazzi si sono raggruppati per difendersi dalle bande locali e sono diventati violenti. Non appena nel Salvador è terminata la guerra civile, il governo statunitense li ha rispediti nel loro Paese, dove hanno ricreato i due gruppi originari che hanno avuto una proiezione mondiale: le due bande sono state esportate in Honduras, Guatemala, Nicaragua e Messico, e pure in Europa, rimanendo sempre in conflitto tra loro.

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Entrambe sono attive a Milano e nell’hinterland della città, e hanno come obiettivo la supremazia dei luoghi dove vivono gli immigrati sudamericani e la conquista di nuovi quartieri. Poliziotti specializzati della Squadra mobile di Milano, guidati da Alessandro Giuliano, li hanno osservati a lungo, e la loro indagine è sfociata nelle scorse settimane in 15 arresti. Sono accusati di associazione per delinquere, tentato omicidio, detenzione di armi, rapina, ricettazione, detenzione e spaccio di droga. Le intercettazioni hanno svelato un mondo criminale ancora poco esplorato.

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La complicata zona di via Padova è la base da cui si muove Barrio 18, impossessandosi del parco ex Trotter, gioiello del quartiere, esempio di multiculturalità. Una zona che si sviluppa su circa cinque chilometri e comprende quasi quarantamila abitanti, di cui un terzo stranieri, che affollano edifici fatiscenti. Non mancano le risse e gli accoltellamenti in strada. Sembra di stare nel Bronx. Ma siamo a Milano con i latinos che in questa zona la fanno da padroni. Gli investigatori spiegano che l’unica regola che conoscono queste gang «è reagire: reagire alla violenza per la violenza; reagire per lavare anche nel sangue l’onta dello sgarro subito».

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Il “palabrero” Gato racconta al telefono a un uomo che sta in Salvador le dinamiche criminali in Italia. La polizia registra la conversazione. L’interlocutore sembra conoscere bene le dinamiche giudiziarie del nostro Paese, parla anche di armi e dice: «Se in Italia ti trovano la pistola finisci in carcere». E Gato risponde: «La pistola non la tengo in casa, la sposto di continuo» e spiega che l’arma «è di un ragazzo che ha lo zio che è un mafioso, lui ci passa le pistole quando ne abbiamo bisogno». I Barrio 18 avrebbero dunque contatti con i mafiosi.

 

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Gato nella telefonata spiega al suo leader di El Salvador: «In Italia prima di ammazzare qualcuno devi guardarti attorno, perché ci sono le telecamere. Ti inseguono e ti rintracciano tramite satellite, qui c’è una situazione di merda, ma tu lo sai che quando dobbiamo farlo, lo facciamo». Il salvadoregno così rassicura i suoi capi che nonostante i controlli che ci sono a Milano se c’è da compiere un delitto, si fa. E racconta come alcuni della banda siano andati a cercare quelli della Ms13 dentro uno stadio durante un torneo di calcio. Gato dice di esserci andato anche lui insieme a venti ragazzi con cinque machete, ma a le vittime designate sono riuscite a fuggire.«Quelli di Ms13 finiscono sempre per chiamare la polizia o si nascondono dentro una discoteca, a piangere dal buttafuori».

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Il “palabrero” parlando al telefono con i leader salvadoregni di Barrio 18, svela come «a Milano ci sono quartieri e parchi che sono nostri». Ma quello che considerano loro “proprietà” non si limita ai parchi o alle strade. La storia violenta di Gato parte dal 2013, da quando arriva a Milano, direttamente dal suo paese. I capi della banda lo spediscono sotto la Madonnina per riorganizzare il gruppo criminale, fino a quel momento guidato da un uomo costretto a lasciare l’Italia perché ricercato con l’accusa di omicidio. I favoreggiatori di Barrio 18 lo mettono in salvo, lo fanno fuggire e al suo posto arriva Gato.

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La prima azione che compie il nuovo “palabrero” è violentare una ragazza di 22 anni, sorella di un appartenete alla gang rivale. La ragazza però non resta in silenzio e lo denuncia alla polizia: «Gato mi ha portato a casa sua, si è spogliato e mi ha fatto guardare i tatuaggi che ha su tutto il corpo, indicandomi il segno di riconoscimento della banda alla quale appartiene, il numero 18, dicendomi che lui era della 18 e il numero è il simbolo della banda. Mi diceva, “ascoltami bene, tu hai parenti nella banda rivale, e anche amici della merda, indicando la banda MS13, quindi sei una merdosa anche tu”. Ripeteva che dovevo addirittura ringraziarlo per quello che mi stava facendo, perché visto che conoscevo gente della banda rivale avrebbe dovuto uccidermi».

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La ragazza descrive lo stupro e poi racconta le minacce: «Prima di andare via mi ha costretta a truccarmi, perché diceva che si vedeva che avevo pianto, e dopo mi ha lasciata andare minacciandomi che se avessi parlato, lui andava in galera ma i suoi amici di banda mi avrebbero uccisa». La ventiduenne spiega che entrambe le bande sono composte da uomini originari da molti paesi latino-americani, non solo salvadoregni. Secondo la donna: «La violenza che ho subito è riconducibile ad uno “sgarro” che Gato ha voluto fare alla banda rivale perché quando non riescono a colpire direttamente un avversario della MS13, sono soliti prendersela con i loro familiari o con le loro donne».

 

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Le intercettazioni hanno permesso negli ultimi due anni di tenere questi banditi sotto osservazione, permettendo così di prevenire anche qualche omicidio. Le caratteristiche costitutive del Barrio 18 venute fuori dall’inchiesta milanese sono la transnazionalità, le regole imposte agli affiliati, le punizioni, le riunioni, il rito di affiliazione, l’autofinanziamento e l’acquisto di armi. Una struttura da vera e propria organizzazione criminale.

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Un ex affiliato a Barrio 18, Ever Estid Martinez Lopez detto “Drupin”, ha raccontato agli investigatori le dinamiche interne della banda e descritto il rito di iniziazione. Quando è stato arruolato nella banda ha dovuto sopportare, per 18 secondi, un numero non casuale, percosse, calci e pugni da quattro affiliati alla “gang”. Il “battesimo” criminale consiste nel subire questa violenza: dopo si può entrare a far parte della banda. «Quando ero in Salvador e poi in Italia, ho fatto parte della banda chiamata “18” ed ero chiamato “Condor”. Ora da sei mesi ne sono uscito. Quando sono entrato in questa banda ho dovuto superare una prova di iniziazione che è consistita nel resistere per 18 secondi ad un pestaggio che mi è stato fatto da quattro membri della banda».

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La regola secondo cui a picchiare il giovane da arruolare debbano essere necessariamente quattro banditi è pure emersa durante le indagini. Gli agenti hanno infatti filmato l’affiliazione, riprendendo gli incontri fatti dal “palabrero” con i suoi affiliati in compagnia dei nuovi adepti. Nell’ombra dei giardinetti pubblici o della vegetazione di alcuni parchi, sono stati picchiati e massacrati di botte. I “nuovi” si mostravano felici di essere stati picchiati. La resistenza al pestaggio determina l’ingresso del giovane “guerriero”: da quel momento in poi, dovrà rispettare le regole ed i codici della banda e non potrà più uscirne. Tranne che con la morte. Come dicevano in passato i mafiosi di Cosa nostra.

 

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C’è un’alternativa possibile al rito del pestaggio: i ragazzi da affiliare possono essere sottoposti a una prova diversa che, se superata, consente di entrare a far parte della banda. Ai candidati può essere affidata la missione di aggredire ed accoltellare un uomo di una banda rivale. Il sangue degli avversari li fa diventare guerrieri. Perché come dice Gato «il “Barrio” non è un gioco».

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