IL “PAZZO” PREITI SI E’ ADDESTRATO AL TIRO A SEGNO

Fiorenza Sarzanini per il "Corriere della Sera"

Racconta le fasi dell'agguato in maniera concitata, piange disperato, all'improvviso si calma e ricomincia a raccontare. Poi scoppia di nuovo in lacrime in un alternarsi di stati d'animo che dimostrano la sua alterazione, ma non bastano a chiarire fino in fondo che cosa ci sia dietro quegli spari contro i carabinieri in servizio di sorveglianza davanti a Palazzo Chigi.

E invece Luigi Preiti, l'attentatore calabrese di 49 anni, il suo gesto lo spiega così: «A 50 anni non si può tornare a vivere con i genitori perché non puoi mantenerti, mentre invece i politici stanno bene e se la godono. A loro volevo arrivare, sognavo di fare un gesto eclatante. Volevo colpirne uno. Ma in fondo non volevo uccidere. Ero io che volevo morire».

Confessa Preiti, ma non convince perché troppi sono ancora i punti oscuri del suo racconto, le contraddizioni, i silenzi. Ai magistrati e agli investigatori che lo interrogano in una stanza del pronto soccorso dell'ospedale San Giovanni di Roma, dove è stato trasportato dopo l'attentato, ricostruisce quanto accaduto nelle ultime due settimane «quando ho cominciato a pensare che lo volevo fare e mi sono esercitato in campagna a sparare perché volevo essere sicuro che la pistola funzionasse».

L'arma, eccolo uno degli elementi da chiarire. Quella 7,65 con la matricola abrasa che l'uomo aveva con sé e forse ha tenuto in quella borsa ritrovata per terra dove aveva nascosto 9 proiettili non esplosi. Preiti dice di averla acquistata al mercato clandestino «quattro anni fa, a Genova, e ho preso anche 50 proiettili».

Saranno gli esami balistici già disposti dagli inquirenti a chiarire se abbia sparato prima. L'attentatore non vuole specificare chi gliel'abbia ceduta, rimane vago sui dettagli, dice di non ricordare i particolari. E questo accredita l'ipotesi che invece se la sia procurata in Calabria dove ormai viveva da tempo dopo il trasferimento da Alessandria, o addirittura a Roma, dove è giunto sabato pomeriggio.

«Sono partito con il treno da Gioia Tauro - dichiara - e sono arrivato verso le 17. Poi sono andato in albergo». È una pensione nella zona della stazione Termini, si chiama «Hotel Concorde». «Sono rimasto lì fino alla mattina, poi sono uscito e sono andato a piedi verso il centro. Mi sono vestito bene con la giacca e la cravatta perché volevo arrivare al palazzo, trovare un politico. Poi ho visto quegli uomini in divisa che per me rappresentavano le istituzioni. Loro stavano mettendo le transenne, non potevo passare. Per questo ho deciso di fare questa cosa. È stato a quel punto che ho deciso di sparare».

Ricomincia a piangere. Secondo il suo avvocato Mario Danielli è proprio a questo punto che si rivolge ai carabinieri presenti e dice: «Vi chiedo scusa perché non so che cosa è davvero successo, non volevo». In realtà le sue intenzioni sono apparse subito chiare. Preiti ha mirato al collo e alle gambe dei militari dimostrando una dimestichezza con le armi e soprattutto la consapevolezza che per fare male doveva colpire le zone non protette dai giubetti antiproiettile. Solo una coincidenza?

Di fronte al procuratore aggiunto Pierfilippo Laviani e al sostituto Anna Nespola, l'attentatore gioca al ribasso. «Ho fatto tutto da solo: volevo compiere un gesto eclatante in un giorno importante. Ma nessuno mi ha aiutato. I miei familiari non sapevano neanche che stavo venendo a Roma. Ho nascosto a tutti le mie intenzioni. Ero disperato per essere ridotto così, senza soldi e senza lavoro. Ma non lo capite? Quello che ho fatto è il segno di quello che sta accadendo nel nostro Paese. Non avete visto quella donna che ha strangolato la figlia?».

Parla Preiti e in alcuni momenti straparla. Lo fa anche subito dopo la cattura, quando i carabinieri e gli uomini della sicurezza in servizio a Palazzo Chigi lo immobilizzano a terra e poi lo portano via. Sembra quasi che voglia fingersi pazzo, perché comincia a sbraitare, «mi dovevate sparare, volevo morire».

Lo ripeterà anche in seguito, durante l'interrogatorio, ma senza convincere chi gli sta di fronte. «Non ci sono riuscito perché i colpi erano finiti», dice lui. In realtà nessuno tra coloro che gli stavano di fronte lo ha visto mentre si portava la pistola alle tempia, né è stato notato mentre rivolgeva l'arma verso di sé.

L'uomo giura di aver «preso cocaina nell'ultimo periodo», pur non riuscendo a specificare chi gli abbia dato i soldi per acquistarla «e ho fatto anche uso di ansiolitici, perché stavo male, sono stato davvero male». Quando l'interrogatorio sta per terminare Preiti chiede notizie della sua famiglia. «Mi avranno visto in televisione, chissà che cosa penserà adesso mio figlio. Forse dovrei avvisarli. Ma no, non c'è bisogno. Tanto di me non importa niente a nessuno».

Il primo interrogatorio termina poco prima delle 16. Un'ora dopo l'uomo viene portato via dall'ospedale. Tornerà domani davanti al giudice per la convalida dell'arresto e soltanto allora si capirà se ha intenzione di colmare tutti quei «buchi» del suo racconto che ancora non consentono di accreditare come unico movente il gesto di disperazione.

 

 

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