age e scarpelli il buono, il brutto e il cattivo

QUANDO AGE & SCARPELLI FECERO “IL BUONO, IL BRUTTO, IL CATTIVO”, IL CAPOLAVORO DEL WESTERN ALL’ITALIANA – IL FIGLIO DI FURIO SCARPELLI RICORDA COME I DUE SCENEGGIATORI, DOPO L’ESPERIENZA CON HITCHCOCK A HOLLYWOOD, PORTARONO UNO SGUARDO NUOVO NELLO SCRIVERE UN COPIONE AMERICANO, ADDIRITTURA WESTERN, MA ALL’ITALIANA - I TONI DA COMMEDIA CHE DISORIENTARONO LEONE E LE BATTUTE E CHE GLI RISULTARONO ECCESSIVE – L’INCIDENTE SUL SET: PER UN ERRORE UN PONTE SALTÒ IN ARIA PRIMA CHE LEONE AVESSE ORDINATO “MOTORE, AZIONE”. DISPERAZIONE E SCOMPIGLIO NELLA TROUPE. MA LEONE CHIOSO’: “VABBÈ, PAZIENZA, ANNAMO A MAGNÀ” – IL NO DI AGE E SCARPELLI A LEONE PER “C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA” - VIDEO

 

Estratto dell’articolo di Giacomo Scarpelli per https://www.editorialedomani.it 

 

il buono il brutto il cattivo 3

Clint Eastwood è stato ed è l’eroe cinematografico di tre generazioni. Io appartengo a quella di mezzo. Nel 1966 ero bambino e la notizia che mio padre Furio avrebbe scritto insieme al suo collega Age una sceneggiatura per un western che sarebbe stato interpretato dal pistolero col poncho e il sigaro, per la regia di Sergio Leone, mi sembrò la più bella del mondo. 

 

Portandosi dietro l’esperienza con Hitchcock a Hollywood, di cui abbiamo riferito tempo fa (Finzioni, luglio 2024), Age & Scarpelli erano rientrati in Italia recando uno sguardo nuovo. Oltre ad aver respirato i fermenti della società americana, avviata verso i rivolgimenti del Sessantotto, avevano avuto modo di osservare dall’esterno i cambiamenti di quella italiana, con un’inedita consapevolezza.  

 

Possedevano cioè idee più chiare su ciò che era importante e urgente raccontare, ma anche come rinnovarne i modi. Ritenevano non fosse più il caso di mettere in scena personaggi e situazioni di una Roma ancora affamata del Secondo dopoguerra e dintorni.

AGE E SCARPELLI

 

Per mantenersi fedeli ai precetti del loro impegno civile e della loro ispirazione artistica, la narrazione dei derelitti, i disgraziati e la legittima ricerca di una vita migliore, occorreva calarla in un altro tempo e renderla metafora del contemporaneo. 

 

(…) Il buono, il brutto, il cattivo, regia di Sergio Leone, raccontava le vicende di tre avventurieri, più o meno rivali tra loro, alla caccia di un tesoro, duecentomila dollari d’oro confederati, grazie al quale magari usciranno anch’essi dalla perenne necessità di vivere di espedienti arrischiati. Del resto, il diritto di ciascuno al perseguimento della felicità non era sancito dalla Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti? 

il buono il brutto il cattivo

 

Al servizio di una storia per il realizzatore di Per un pugno di dollari e di Per qualche dollaro in più, Age & Scarpelli erano dunque tornati in Italia per scrivere un copione americano, addirittura western, ma all’italiana. Il titolo, Il buono, il brutto, il cattivo aveva già di per sé un che di beffardo, e, dei tre personaggi, Tuco il messicano (Eli Wallach) propendeva al comico, mentre il Biondo (Clint) distillava ironia. La malvagità pesava quasi per intero sulle spalle del sergente Sentenza (Lee Van Cleef). 

 

Alla generazione degli autori di cui stiamo parlando da giovanissimi era toccato crescere sotto il fascismo, guardando agli Stati Uniti come ribellione inconsapevole e vissuta come passione per i suoi romanzieri, i suoi fumetti, il suo jazz, e il suo cinema: da Fred Astaire e Ginger Rogers a Clark Gable e Carole Lombard, da John Wayne a Henry Fonda, da Ombre rosse a Sfida infernale.  

 

Tuttavia, negli anni Sessanta del Novecento, il western made in Usa aveva ormai assunto connotati da genere addomesticato, se non decisamente finto, con immagini dai colori estivi o di effetto notte (girate di giorno col filtro blu per dare l’impressione lunare), popolato di sceriffi dai panni lindi e stirati, di donne da saloon dalle chiome cotonate, dove lo stesso John Wayne recitava col parrucchino e il gilet aperto sulla pancia, oltre ad aver assunto posizioni politiche discutibili.

 

Monicelli tra Age e Scarpelli

Leone, che era stato assistente di Vittorio De Sica, riconduceva per la briglia il West a un naturalismo più autentico, eppure esaltandone la leggenda. 

 

Age e Scarpelli vi introdussero a loro volta i modi e i toni che il loro maestro Amidei, autore dei capolavori neorealistici realizzati da Rossellini, aveva innestato nel cinema successivo: il dramma nella commedia, e viceversa. Il passaggio ulteriore della coppia di sceneggiatori, portato a vertici esilaranti, sarà presto segnato “da Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?”, dove il diritto al sogno e stavolta la fuga dal consumismo saranno individuati quale via per scongiurare mestizia e mediocrità sociale.  

 

La pellicola, con Sordi, Blier e Manfredi, regia di Scola, apparirà proprio nel 1968, e avrà come stimolo parodistico le avventurose narrazioni per ragazzi di Salgari. Oltre a un altro tempo, un altro luogo, insomma, quello della letizia immaginifica dell’infanzia. 

 

IL DESIDERIO INFANTILE 

clint eastwood, eli wallach, lee van cleef e sergio leone sul set di il buono, il brutto e il cattivo

Se lo stesso Steven Spielberg ha dichiarato che realizza i film che avrebbe voluto vedere da piccolo, pure la cosiddetta “trilogia del dollaro” fu, fuor di retorica, l’opera di un Leone che creava sospinto dal desiderio di recuperare uno stato di fanciullezza. Non sarà eccessivo tirare in ballo Freud, il quale aveva dichiarato che Schliemann, lo scopritore di Troia, aveva «trovato la felicita con il tesoro di Priamo, poiche la felicita deriva unicamente dal soddisfacimento di un desiderio infantile».  

 

Ciò stimola a chiederci se non sia il caso di ribaltare l’opinione comune secondo cui nell’enfant prodige bruci e agisca la fiamma del genio adulto. È invece in quest’ultimo che probabilmente continua ad ardere la creatività infantile. Sicché il vero bambino sapiente non sarebbe il bambino-prodigio, bensì l’artista-bambino, che conserva ed è mosso dagli stessi stimoli creativi dell’infanzia. Leone fu questo, o anche questo.

 

Age e Scarpelli, che celebravano il riso come seconda faccia del pianto, non erano lontani. 

Clint Eastwood, Eli Wallach e Lee Van Cleef sul set - il buono il brutto e il cattivo

 

Rammento Leone dal viso rotondo e glabro prima che si facesse crescere la famosa barba, un viso che aveva conservato, me lo si passi, una tipologia neotenica, vale a dire una simpatica morfologia infantile. Portava una palandrana che mi pareva enorme sopra il cardigan, e la cravatta sottile.

 

Dietro la porta dello studio della nostra casa ascoltavo le riunioni di mio padre, Age, il loro amico e collega Luciano Vincenzoni e Sergio, il quale parlava con fascino contagioso e competenza estrema della Guerra tra sudisti e nordisti, delle rispettive uniformi, di revolver Colt e Remington, di carabine Henry e Winchester, e di selle all’americana e alla messicana.  

 

Descriveva momenti della sceneggiatura, lunghissimi piani sequenza, in termini di altrettante lunghe cavalcate, faceva risuonare con la voce profonda gli zoccoli dei mustang e degli appaloosa: borobom-borobom-borobom-borobom… 

 

Le sue rievocazioni del West erano raccontate con romanissimo accento. Il bello era proprio che quegli autori erano rimasti sempre legati alle proprie origini (Leone fu tra l’altro maestro e mallevadore di Carlo Verdone).

 

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Chi non l’avesse mai visto scovi il documentario dove il grande direttore della fotografia Tonino Delli Colli, altro romano assoluto, dalla testa perfettamente sferica come un proconsole imperiale, riferisce l’episodio di Il buono, il brutto, il cattivo in cui il ponte minato dal Biondo e da Tuco doveva esplodere per impedire il passaggio dei confederati.  

 

Il set era stato allestito in Almeria e, per un errore di coordinamento e sincronizzazione, il ponte saltò in aria prima che Leone avesse ordinato “motore, azione” e le sei-sette macchine da presa si fossero avviate. Disperazione e scompiglio nella troupe. Ma Leone chiuse la giornata con un realistico «vabbè, pazienza, annamo a magnà». 

 

Ci si adoperò nei giorni successivi per rimettere in piedi alla meglio il ponte e farlo saltare di nuovo, con tutte le cineprese in funzione. La cosa andò liscia stavolta, ma se pure i rabberci fossero stati visibili, probabilmente la musica di Morricone li avrebbe sfumati. 

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Il jazz aveva influenzato in modo determinante impareggiabili compositori italiani di musica per film, da Armando Trovajoli a Piero Umiliani. Basti pensare all’orchestrazione samba di Riusciranno i nostri eroi?, a quella be-bop dei Soliti ignoti e alla tromba di Chet Baker dell’Audace colpo dei soliti ignoti. Age stesso, benché non suonasse nessuno strumento, era uno straordinario esperto di dixie, swing e cool.  

 

Quanta ironia, quanta malinconia si sprigionava dal ritmo sincopato, adatto ad accompagnare e contrappuntare lo spirito della commedia all’italiana. Ennio Morricone ha avuto invece un retroterra classico, da discepolo di Petrassi, ma le sue inconfondibili partiture si sono perfettamente adattate al sigaro toscano in bocca a Clint Eastwood, introducendo rivoluzionarie risonanze buttere centroitaliche: cori, ocarine e schiocchi di frusta. E qui si potrebbe cogliere un punto di contatto tra musica spaghetti western e linguaggio maccheronico brancaleoniano. 

 

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Rammento anche certe domeniche pomeriggio con i miei genitori e mio fratello Matteo all’Auditorium di Santa Cecilia, in Via della Conciliazione: Morricone se ne stava seduto serio e compreso dietro le nostre poltrone. Un giorno Matteo, da violoncellista, avrebbe suonato sotto la sua bacchetta nell’orchestra Roma Sinfonietta, addirittura alla Radio City Music Hall di New York e al Palazzo di Vetro dell’Onu (alla presenza dell’attore Eli Wallach). 

 

Va riconosciuto che i toni di commedia introdotti da Age e Scarpelli nella sceneggiatura di Il buono, il brutto, il cattivo per certi aspetti dovettero disorientare Leone, e svariate battute e trovate dovettero risultargli eccessive. Mio padre, mentre scriveva, mi raccontava qualche scena. 

 

Me ne tornano in mente due, forse non nel giusto ordine di scaletta. Un personaggio (Tuco?) cade nelle mani del perfido antagonista (Sentenza?) e con sfrontata sicumera, per dimostrare che non cederà e non dirà una parola sull’ubicazione del mucchio d’oro, accende uno zolfanello e se lo passa sotto il palmo, ma subito emette un gemito di dolore e dichiara che dirà tutto. A bordo di una malandata carrozza, Tuco alle redini e il Biondo addormentato, incappano in un drappello di cavalleggeri. «Sveglia!», strilla Tuco, «ci sono dei soldati».  

 

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Il Biondo, insonnolito ma cauto, chiede se sono blu o grigi. «Grigi», risponde l’altro e, trascinato da opportunismo avventato, inneggia e strepita: «Urrà per il Sud, morte ai nordisti, viva il generale Lee!». Il drappello si fa accosto, l’ufficiale che lo guida si spolvera la divisa ed emerge il blu nordista: i due compari finiscono prigionieri. La prima situazione non fu mai girata, la seconda è rimasta ben impressa nello spettatore. 

 

Esiste tutta una tradizione riferita dai vari punti di vista sulla storia del copione del film, la cui revisione fu affidata a Sergio Donati, che già aveva lavorato a Per un pugno di dollari e Per qualche dollaro in più.

 

Mio padre definì, con compiacimento divertito, «fatale» il proprio incontro con Leone. Fatto sta, che mantennero sempre ottimi rapporti, anche di tipo familiare. Ricordo alcune feste nella grande casa di Leone, grande casa che nella mia memoria rimane una sorta di eccitante museo dell’epos americano: intere stanze dalle pareti rivestite di reliquie del West che mi incantavo a contemplare, mentre mio fratello giocava con Andrea, figlio del regista. 

 

C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA 

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Anni dopo, Leone allettò Age & Scarpelli con un altro progetto. L’ambientazione era spostata dall’ovest degli Stati Uniti alla costa atlantica, una storia di gangster.

 

Anche in questo caso mio papà mi raccontò dell’incontro con Sergio e delle suggestive, splendide foto della New York anni Trenta che erano state mostrate loro. Tuttavia i due autori non se la sentirono di imbarcarsi nella nuova impresa, presi dal lavoro con Monicelli e con Scola.  

 

Toccò agli amici Benvenuti e De Bernardi stendere la sceneggiatura, assieme a Medioli, Arcalli, Ferrini, di quel che sarebbe stato C’era una volta in America. A proposito della pellicola, ulteriore svolta storica del cinema, ecco un altro episodio, raccontato a mio padre proprio da Leo Benvenuti.

 

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Sul set, durante la preparazione di una scena nella casa del protagonista Noodles, l’attrezzista venne a lamentarsi con Leone, perche l’interprete Robert De Niro faceva rimostranze riguardo a un paralume: «Quanto rompe le scatole questo americano, che gli frega del paralume». 

 

 Leone si premuro di informarsi con l’attore: «Bob, perche non ti piace il paralume? Lo trovi brutto?». E De Niro: «Non e che sia brutto in sé, ma io non sono Bob, sono Noodles, e un paralume come quello non lo avrei mai comperato». 

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Aveva ragione, poiche in quel momento l’attore era completamente calato nel personaggio, come imponeva il metodo Strasberg, e il giudizio estetico esulava tanto dall’oggettivita quanto dalle personali preferenze di De Niro, contava soltanto il gusto pratico e spiccio di Noodles.  

 

(...)

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